Il giornalista palestinese che usa i social per investigare i crimini di guerra israeliani
Younis al Tirawi segue i profili dei soldati israeliani e archivia e analizza informazioni che raccoglie online
di Daniele Raineri

Il giornalista palestinese Younis al Tirawi archivia e analizza informazioni che raccoglie online per accusare singoli soldati e ufficiali israeliani di violazioni della legge umanitaria internazionale nella Striscia di Gaza. Il suo lavoro è considerato convincente. L’agenzia Reuters e il Washington Post hanno citato alcune scoperte fatte da al Tirawi nei loro articoli. La squadra di legali che ha accusato Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia su iniziativa del governo del Sudafrica ha presentato un faldone di prove che menziona, tra le altre cose, anche la dichiarazione di un soldato israeliano trovata da al Tirawi.
Al Tirawi lavora dalla Cisgiordania, quindi fuori dalla Striscia di Gaza. Ha scritto per l’agenzia Ma’an e scrive per il quotidiano al Quds, le due testate giornalistiche palestinesi più importanti. Ma è con l’invasione israeliana della Striscia nell’ottobre del 2023 che è cominciato il grosso del suo lavoro. Ha sviluppato un metodo di ricerca preciso: segue una moltitudine di profili social di soldati israeliani e registra e cataloga tutto quello che può.

Il giornalista Younis al Tirawi (screenshot di un video dal suo profilo X)
È probabile che al Tirawi usi uno o più account sotto falsa identità: riesce a procurarsi materiale preso anche da profili chiusi oppure da gruppi riservati che evidentemente non accetterebbero la presenza di un giornalista. Poi integra questo materiale con altre informazioni e con interviste, in almeno un caso anche a un soldato israeliano.
Ha descritto il suo metodo in un articolo di marzo del 2024 su Bellingcat, un sito di giornalismo investigativo che gli addetti ai lavori conoscono per l’accuratezza. L’idea di partenza è così semplice che viene da chiedersi come possa funzionare, ma funziona.
«Tutte le immagini discusse di seguito sono state pubblicate da soldati dell’IDF [l’esercito israeliano] su account social, principalmente TikTok, ma anche Facebook, YouTube e Instagram», scrive al Tirawi. «Utilizzando semplici frasi in ebraico, tra cui “Gaza” (עזה) e “Khan Younis” (ח’אן יונס), siamo stati in grado di analizzare i risultati per individuare account che pubblicavano regolarmente immagini di membri dell’IDF o che si identificavano come affiliati all’IDF. Abbiamo anche esaminato le liste di amici e follower sui social media degli account che abbiamo identificato, il che ci ha permesso di identificare ulteriori account di membri dell’IDF che pubblicavano dal campo. Abbiamo quindi monitorato questi account nel tempo, scoprendo ulteriore materiale».
Al Tirawi sostiene di avere identificato l’ufficiale responsabile dell’uccisione di quattordici paramedici e di un dipendente delle Nazioni Unite, tutti palestinesi, a marzo a Rafah, nel sud della Striscia. Le truppe israeliane li uccisero con una sequenza di imboscate nella stessa notte e poi seppellirono i corpi sotto uno strato di sabbia.
Quella strage è diventata un caso anche perché il portavoce dell’esercito israeliano aveva detto che i paramedici uccisi non erano riconoscibili come tali e quindi la loro avanzata sembrava un movimento sospetto. Poi però era stato smentito dal video trovato su un telefono recuperato da un cadavere. Nel video i soccorritori palestinesi sono chiaramente identificabili come soccorritori e non rispondono al fuoco dei soldati. Secondo al Tirawi, l’ufficiale responsabile sarebbe Nikolai Ashurov e avrebbe dato l’ordine ai suoi soldati di sparare – e avrebbe sparato lui stesso – ai quindici palestinesi.
Il 5 maggio al Tirawi ha pubblicato due foto prese da Facebook di un soldato israeliano della Brigata Golani, Matan Ben David, che scrive: «alla prossima, figli di puttana». Nelle due foto non si vede, ma la posizione del soldato è davanti alla fossa comune che contiene i corpi dei quattordici paramedici. È un esempio del lavoro di al Tirawi: collega le foto personali del soldato israeliano a un luogo e a un fatto preciso, fornisce il suo nome e l’unità di appartenenza.
Dal punto di vista militare non cambia nulla, ma è importante dal punto di vista della ricostruzione dei fatti sul terreno a Gaza, dove i giornalisti internazionali non possono entrare dall’ottobre del 2023.
Nell’ottobre del 2024 al Tirawi aveva pubblicato una video inchiesta su un’unità di cecchini dei paracadutisti israeliani, l’unità Refaim, che in ebraico vuol dire fantasma. L’inchiesta iniziava da un video caricato dai soldati stessi su YouTube, che mostrava l’uccisione da distante di alcuni palestinesi disarmati nel sud della Striscia di Gaza. I cecchini si erano appostati in cima ai palazzi e da lì tenevano sotto tiro le strade ingombre di macerie sotto di loro nel raggio di più di un chilometro.
In teoria l’unità era stata attenta a non mettere online materiale che avrebbe potuto portare all’identificazione dei suoi uomini, ma al Tirawi aveva trovato il video di una competizione, nel settembre del 2023, tra squadre di cecchini dell’esercito che includeva anche la Refaim e poi una campagna su Facebook per raccogliere donazioni, pratica abbastanza comune, per i soldati della Refaim. Da lì aveva identificato con nome, cognome e foto tutti i diciassette componenti che formano la squadra di cecchini, alcuni dei quali con doppia nazionalità. Ci sono militari dell’unità che hanno anche il passaporto statunitense, altri che hanno il passaporto tedesco, uno ha il passaporto italiano.
Dopo il video la magistratura del Belgio aveva aperto un’indagine su due cecchini che hanno anche il passaporto belga.
Nell’inchiesta c’era anche un’intervista filmata con uno dei cecchini, Daniel Raab, che era seduto su un divano in abiti civili e con tutta evidenza era stato ingannato sullo scopo delle domande. All’inizio dell’intervista chiedeva rassicurazioni sul fatto che il suo volto nel video venisse coperto, cosa che invece non avviene. La voce dell’intervistatore nel video era camuffata, segno che al Tirawi non voleva che fosse riconoscibile (al Tirawi parlava a viso scoperto in altre parti del video, quindi non era lui a fare l’intervista).
Il soldato Raab nell’intervista affermava che i palestinesi disarmati erano stati uccisi dai cecchini israeliani perché erano «maschi in età militare» in una zona dove era in corso un’operazione militare e dovevano essere trattati come se fossero nemici combattenti. Nella stessa intervista diceva che i soldati israeliani conoscevano i limiti della zona dell’operazione ma che i palestinesi no.
La pratica investigativa adottata da al Tirawi si chiama Osint, Open Source Intelligence, e si basa su fonti che quasi sempre sono consultabili liberamente (da qui il nome: open source), come appunto le foto caricate sui social network oppure le immagini satellitari oppure liste di informazioni pubbliche. È già stata usata con successo nelle guerre in Siria e in Ucraina. Spesso il materiale è facile da trovare, ma difficile da verificare e analizzare: non basta avere il video di qualcosa, è necessario localizzare dove è stato filmato, scoprire quando è stato filmato, confermare se è autentico e accertare chi sono le persone che mostra.
– Leggi anche: Il successo e i problemi dell’“OSINT”
Questo lavoro di ricerca fatto da un palestinese non c’era prima dell’ottobre del 2023, quindi della strage di civili israeliani compiuta da Hamas e dei successivi diciannove mesi di invasione israeliana e di stragi di civili palestinesi a Gaza. Anche nei resoconti dei media internazionali i militari di Israele dentro la Striscia non erano quasi mai identificati, e tantomeno i loro reparti, ma appartenevano piuttosto a una massa indistinta. Era «l’esercito israeliano», senza ulteriori approfondimenti.
Le cose sono cambiate per due motivi. Il primo è che le truppe di Israele sono ormai una presenza fissa dentro Gaza: non era mai successo che occupassero quel territorio per un tempo così lungo e adesso sappiamo che non intendono lasciarlo. Le invasioni precedenti erano durate poche settimane e poi i soldati israeliani erano usciti dalla Striscia. Questa volta c’è stato il tempo di indagare, di raccogliere materiale, di studiarlo e di fare connessioni. Il secondo motivo è che i soldati israeliani continuano a pubblicare foto e video senza pensare alle conseguenze.



