Non è facile raccontare le storie dei desaparecidos argentini che sopravvissero
Ci prova “La chiamata” di Leila Guerriero, un libro che spiega le violenze della dittatura militare degli anni Settanta e la lotta armata dei militanti di sinistra

Non tutti i militanti politici di sinistra che furono rapiti dall’esercito argentino durante la dittatura militare al potere tra il 1976 e il 1983 furono uccisi. In modo un po’ arbitrario, alcuni desaparecidos sopravvissero perché furono scelti dai militari per quello che fu definito un «percorso di riabilitazione»: furono costretti a collaborare con la dittatura, denunciando i loro compagni, a lavorare per lo stato e ad abbandonare comportamenti ritenuti “devianti” per qualche ragione (nel caso delle donne potevano riguardare anche l’abbigliamento, che doveva essere più femminile, mentre i jeans erano vietati). Il tutto avveniva in condizioni di violenza fisica e psicologica.
Alcune delle persone rapite facevano parte di gruppi militanti di sinistra, che prima e durante la dittatura compirono attentati e azioni di guerriglia: è una storia complessa e sfaccettata, che la giornalista Leila Guerriero racconta in modo approfondito nel libro La chiamata. Storia di una donna argentina, pubblicato in Italia da Sur. È un libro di non fiction narrativa (il genere di molti libri dello scrittore francese Emmanuel Carrère) ed è incentrato sulla storia di Silvia Labayru, una donna che faceva parte del Movimento peronista montonero, organizzazione armata di sinistra che si opponeva alla dittatura e fu duramente repressa. Labayru fu rapita nel 1976, quando aveva vent’anni ed era incinta di cinque mesi: non fu uccisa, ma fu obbligata a compiere azioni di collaborazione con il regime.
Dopo la sua liberazione andò a vivere in Spagna, dove fu isolata dagli altri esuli argentini di sinistra proprio perché accusata di aver tradito i propri compagni di lotta, cosa che lei ha sempre negato. La sua storia ha molto a che fare anche con la messa in discussione della violenza come strumento di lotta politica da parte della generazione che negli anni Settanta aveva tra i venti e i quarant’anni. Pubblichiamo un estratto del libro in cui Guerriero parla prima con Alberto Lennie, marito di Labayru ai tempi del suo rapimento, e poi con la stessa Labayru, e che riguarda appunto questa complessità nel racconto dei fatti di quegli anni.
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«Silvina aveva diciott’anni. Era bellissima. Una ragazza divina. Quei capelli color rame. Quegli occhi. Divina. Aveva un fascino enorme. Ed era molto intelligente, lo è ancora. Io mi sono innamorato ciecamente. È stata una grandissima storia d’amore. Quando la vedevo in minigonna diventavo rosso come un peperone. Io, per di più, mi sentivo strafigo perché ero un militante rivoluzionario. Quindi era un miscuglio infernale».
Ride e guarda il soffitto, come se la vedesse ancora: il contorno immaginario di quella ragazza con le lentiggini, i folti capelli del colore dell’autunno acceso, taciturna, intelligente, già un quadro di partito, che quando lo incontrò era educata alla violenza, avrebbe saputo recitare Marx cantando e per di più era una convertita, ribelle contro la sua stessa casta, una fanciulla che combatteva il drago da dentro le sue stesse fauci.
«E inevitabilmente tra noi due comincia una storia. Solo che, proprio in quel momento, lei finisce in guardina alla Coordinación Federal. Lì conosco il padre, Jorge. Uno stronzo. Tra noi non c’era nessuna simpatia. Mi incolpava del fatto che sua figlia era montonera. Il rapporto tra lui e Silvina era un rapporto molto conflittuale. Molto simbiotico, molto edipico. La condizione perché venisse liberata era che lasciasse il paese, ma prima chiedemmo al padre di coprirci per poter passare qualche giorno sulla costa, a Miramar. Perché Silvina sarebbe andata negli Stati Uniti. Doveva essere un addio. Lì ci siamo detti: “Tu vai, io ti aspetto”. Quando è tornata, abbiamo deciso di formare una coppia. La sua militanza è diventata più segreta – lei è entrata nell’intelligence di Montoneros –, mentre la mia è rimasta sul fronte delle masse. A nessuno dei due è passato per la testa di lasciar perdere. Anzi, l’idea era quella di intensificare l’azione. Credevamo di avere il mondo in pugno e di poterlo cambiare a nostro piacimento».
Andarono a vivere in un appartamento di calle Cabello, all’altezza di calle Lafinur, una zona signorile. Lei era a un livello più alto nell’organizzazione, e pertanto aveva l’incarico di decidere, ad esempio, il piano di fuga nel caso venissero scoperti. Secondo lei: «Alberto non viveva bene il fatto che io fossi superiore a lui. Nemmeno io lo vivevo bene, ma solo perché mi rendevo conto che se fosse venuta la polizia ci avrebbero massacrati, non c’era modo di uscirne vivi. Lui discuteva su cose di cui non sapeva niente. Era un bel ragazzo, faceva il galletto, e la politica ce l’aveva incollata addosso con lo sputo».
«Mi ero messo a studiare a testa bassa il peronismo, ed ero diventato un puro, Leilita. Un puro da far paura. Adesso, quando vedo un puro, scappo, perché i puri sono gente molto pericolosa. Però credevo nella lotta rivoluzionaria. Credevo nella lotta armata. Di più, credevo che avremmo vinto. Ne avevo l’assoluta convinzione. E mi dispiace molto, molto, di essermi impegnato in una lotta violenta. Ma non ho mai pensato, e non lo penso neanche adesso, che quello fosse un delirio giovanile, o un capriccio. Io credevo davvero che si potesse costruire una società più egualitaria e più giusta. Ho fatto una scelta sbagliata. Ma non l’ho fatta da utile idiota, e nemmeno da coglione, o da stordito. Io ci credevo. Mi faccio carico di ciascuna delle crudeltà, delle sofferenze e delle cose spaventose provocate e commesse dai montoneros, e anche da me, in quanto membro dell’organizzazione. Ho partecipato a un’infinità di azioni che hanno prodotto violenza e orrore. Tu potevi essere quello che rubava le auto, quello che preparava la miscela per gli esplosivi, quello che pedinava un tizio che poi veniva ammazzato. Qualunque cosa io abbia fatto, mi sento responsabile. Ma non è stato lo stesso da entrambe le parti. Noi eravamo una banda di giovani votati a una causa idealizzata, e dall’altra parte c’era un apparato militare che aveva assunto il controllo dello Stato e che portava avanti un piano sistematico di sequestri, torture e omicidi. Detto questo, mi assumo la responsabilità di aver contribuito a una situazione che ha condotto l’Argentina in un abisso di orrore. Credendo di fare l’esatto opposto, siamo stati funzionali ai settori più fascisti, reazionari e violenti della società. Ma non è stata una follia giovanile. La morte di mia sorella non permette di pensare questo».
Nel racconto del periodo precedente il sequestro – 1974, 1975, 1976 –, non esiste nient’altro che la militanza. La coppia Labayru-Lennie era un combo montonero puro e duro. Niente bar, niente cinema, niente libri, niente film. O, se ci sono stati, loro non li ricordano.
Silvia Labayru adottò un nome di battaglia. Mora. Era bionda, poteva sembrare anglosassone, portava un poncho nero. Quel contrasto suonava bene.

«Entra, entra. Prendo la chiave e saliamo nello studio di Hugo, lui è andato a fare il vaccino. Qui stanno pulendo, di sopra staremo più tranquille».
Prende un mazzo di chiavi e ripetiamo il tragitto: ascensore, ventesimo piano, corridoio, porta. Ma la chiave non apre. Ci prova con delicatezza. Maneggia sempre le cose come se avesse paura di romperle (eppure i suoi movimenti sono tutt’altro che goffi).
«Non apre. Cosa faccio? Lo chiamo, no?»
Lui risponde subito. Le dice che c’è un altro mazzo di chiavi in macchina. Scendiamo nel garage. Prendiamo le chiavi. Torniamo al ventesimo piano. Entriamo. Ho portato dei croissant. Poso il pacchetto sulla scrivania di Hugo (appena il pacchetto tocca il piano di legno sento che sto commettendo un sacrilegio).
Quando parla di quanto fosse stata irresponsabile a rimanere incinta mentre faceva parte di un’organizzazione guerrigliera, ciò che si avverte è indignazione nei propri confronti (un po’ meno nei confronti di Alberto Lennie), ma quando rievoca la militanza, le cose che ha fatto, quelle che facevano altri, l’indignazione diventa collera e non risparmia nulla. Non dice mai: «Questo è stato bello, andava fatto». Non c’è niente che si salvi: né il lavoro nei quartieri poveri e nelle fabbriche, né il senso di complicità con i compagni, né le discussioni politiche, né l’illusione di credere in qualcosa di più giusto: niente.
«Mi facevo prestare la macchina da mio padre e la davo a mia cognata, Cristina Lennie, l’ufficiale montonera sorella di Alberto, e loro facevano delle azioni con una macchina intestata a lui. Sequestri, assass…»
Si interrompe di colpo.
«Tu sapevi quali azioni facevano?»
«No, però sapevo che la macchina non serviva per andare a spasso. L’idea era che ciò che facevamo fosse talmente importante da giustificare tutto. Mettere in pericolo familiari e amici, chiedere ad altri di ospitarti in casa loro. Era pura follia. Si supponeva che stessimo facendo la rivoluzione. Che stessimo cambiando il mondo».
Mesi dopo, Marta Álvarez, militante di Montoneros e sequestrata alla ESMA, racconterà che il suo compagno, Adolfo Kilman, anche lui militante, aveva ricevuto in eredità un appartamento, lo aveva venduto e aveva dato i soldi all’organizzazione: «Eravamo pronti a dare la vita. Cos’era un appartamento, in confronto?»
«Io, in Montoneros, ho subìto un processo politico perché volevo abortire, a diciotto anni. Mi hanno rimossa dal mio grado, ero aspirante ufficiale e mi hanno degradata a miliziana. Poi ho abortito lo stesso, certo. Ma la mia era considerata un’aberrazione piccoloborghese, bisognava fare figli per la rivoluzione».
«Era di Alberto?»
«Sì».
«Come sapevano dell’aborto?»
«Perché lo avevo raccontato io.Tutto doveva essere discusso all’interno dell’organizzazione. E allora il capo, Carlos Fassano, l’ultimo fidanzato di Cristina Lennie, un militarista che poi è stato ucciso, uno che adorava le armi, mi ha degradata. Se eri montonero e scoprivano che avevi intenzione di lasciare l’Argentina, ti davano un appuntamento e ti ammazzavano prima che arrivassi all’aeroporto. Carlos Fassano era uno di quelli che facevano le esecuzioni. Alla cena di Natale del ’76 mi aveva raccontato che proprio quella settimana aveva giustiziato un ragazzo che stava per partire. Lo raccontava come chi ti dice che è andato in campagna e ha sparato a una lepre. E io mi dicevo: “Cos’è questa roba?” Eppure ero lì. Che cosa volevamo? Qual era l’idea? Che cosa pensavamo di fare se fossimo arrivati al potere? Queste critiche non piacciono. Non piacciono agli ex montoneros, non piacciono alle organizzazioni per i diritti umani, non piacciono ai familiari dei desaparecidos. Montoneros non protesse i suoi militanti. La nostra immolazione non servì praticamente a niente. O invece sì: servì moltissimo alla dittatura per rinsaldarsi al potere, per annientare il sistema produttivo argentino, per abbattere un movimento sindacale che era molto forte. Non migliorò le condizioni della classe operaia, non migliorò l’istruzione né la distribuzione della ricchezza. Ma dire alla madre o al fratello di un desaparecido: “Guarda, l’organizzazione in cui militava tuo figlio l’ha gettato in pasto ai leoni, e oltretutto tuo figlio è morto e non è cambiato niente, anzi, le cose da allora in poi sono andate peggio, perché abbiamo dato la scusa ai militari per fare quello che volevano…” Chi vuole sentirsi dire una cosa simile? Vuoi almeno che ti rimanga l’idea che è morto per qualcosa, che è stato un eroe. L’altro giorno leggevo su Facebook il racconto di una sopravvissuta, e settanta persone commentavano: “Hasta la victoria, compagna, uniti nella lotta, ci hanno distrutti ma non ci hanno annientati, i nostri ideali rimangono gli stessi”. Come sarebbe, non ci hanno annientati, non ci hanno sconfitti? Se quello che è successo non è stato una sconfitta in piena regola, dimmi tu cos’è stato».
Le critiche ai gruppi armati di quegli anni sono appannaggio della destra, la quale chiede che, così come sono stati processati e vengono ancora processati i militari per crimini contro l’umanità, si processino anche coloro che fecero parte di quelle organizzazioni, equiparando così il terrorismo di Stato alle azioni dei guerriglieri. Quelli che, come Silvia Labayru, non avallano questa posizione ma fanno un discorso critico nei confronti delle organizzazioni di cui hanno fatto parte, occupano una posizione marginale, uno spazio che può essere confuso con quello del nemico. Nel suo caso, nulla a cui lei non sia abituata.
© Leila Guerriero, 2024 c/o Indent Literary Agency
© SUR, 2025
La traduzione di La chiamata è di Maria Nicola.
Pubblicato in accordo con Sur.
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