A cosa servono i riti

Spesso sono incomprensibili, soprattutto quelli degli “altri”, ma alla fine della fiera assolvono le stesse funzioni in tutte le religioni e le società umane

Il cardinale camerlengo afferra le due maniglie della porta chiusa dell’appartamento
Il cardinale camerlengo Kevin Farrell si accerta della chiusura della porta sigillata dell’appartamento di Casa Santa Marta in cui il papa risiedeva (Vatican Media via Vatican Pool/Getty Images)
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Nella serata di lunedì 21 aprile, il giorno della morte di papa Francesco, le televisioni di mezzo mondo hanno mostrato alcune delle più alte cariche del clero assistere all’apposizione dei sigilli all’appartamento pontificio del Palazzo Apostolico e a quello di Casa Santa Marta, dove il papa risiedeva. A turno, in un modo cerimoniale e plateale più che realmente necessario, il camerlengo e gli altri prelati hanno verificato che le porte delle stanze fossero chiuse e sigillate.

Molte persone, quelle di fede cristiana come tutte le altre, potrebbero chiedersi quale sia il senso di sigillare le porte degli appartamenti papali. Un modo di rispondere è, banalmente, spiegare la ragione empirica: mantenere al sicuro i documenti del papa finché il successore non prende possesso delle stanze.

La stessa domanda ammette però anche un altro tipo di risposta. Sigillare le stanze del papa ha senso, da un altro punto di vista, perché è una pratica cerimoniale pubblica e solenne: serve come serve qualsiasi altro rito secolare della Chiesa cattolica, la maggior parte dei quali tra l’altro non ha nemmeno uno scopo pratico chiaro, come in questo caso. La ragione per cui aveva senso che il cardinale camerlengo Kevin Farrell verificasse i sigilli, per dirla in un altro modo, è che il suo omologo Tarcisio Bertone aveva fatto la stessa cosa nel 2013, Eduardo Martínez Somalo nel 2005, e così via a ritroso nel tempo.

Considerata come rituale, e quindi come parte fondamentale di una pratica culturale collettiva, l’azione di sigillare le stanze del papa è sicuramente più strutturata e formale ma non poi così diversa dal sollevare un bicchiere per fare un brindisi. E non è diversa nemmeno da cerimonie altrettanto pubbliche e istituzionalizzate come l’incoronazione di un re, il suo funerale, o anche il passaggio della campanella tra presidenti del Consiglio, in Italia, per sancire l’insediamento di un nuovo governo.

Non esistono religioni e nemmeno culture, senza rituali. La ricerca antropologica ed etnografica ne ha mostrato a lungo la presenza e l’importanza in tutte le civiltà umane. Tutte danno forma a tradizioni che includono atti ripetitivi e simbolici, specialmente intorno a momenti associati al concetto di “soglia” e di passaggio da una fase a un’altra, tra cui appunto la morte di una persona, che sia il papa o qualsiasi altro membro di una comunità.

Come teorizzato dall’antropologo e filosofo italiano Ernesto De Martino, uno dei più influenti studiosi della ritualità e della religiosità popolare del Novecento, i rituali servono a ridurre il rischio che l’interruzione nella quotidianità provocata da un evento critico e traumatico sia irreversibile per i membri di una comunità. Nel suo ripetersi sempre uguale nel tempo, il rituale “funziona” come una sorta di antidoto all’imprevedibilità degli eventi, che rafforza la comunità stessa e le credenze condivise al suo interno.

Spesso i riti fondamentali per una certa cultura o religione sembrano piuttosto bizzarri e incomprensibili a un’altra, anche perché gran parte dei comportamenti che definiamo rituali non ha uno scopo esplicito come mettere i sigilli a una porta per impedire l’accesso a un appartamento. Anzi, come affermato negli anni Quaranta dal sociologo statunitense George Homans, una delle ragioni per cui definiamo rituali certe azioni è proprio che «non producono un risultato pratico sul mondo esterno».

Non esiste un nesso causale tra la pioggia e la danza eseguita per invocarla, per esempio. E più o meno allo stesso modo, nella teologia cristiana, l’atto di consacrare ostie e vino per la transustanziazione (la conversione dal pane al corpo e dal vino al sangue di Cristo) non provoca alcuna trasformazione fisica osservabile di quelle sostanze. Eppure, senza quel passaggio rituale intermedio durante la celebrazione eucaristica, anche per i cattolici ostie e vino sono solo ostie e vino, non il corpo e il sangue di Cristo.

Secondo gli autori di un numero speciale della rivista Philosophical Transactions of the Royal Society B, uscito nel 2020, la ritualizzazione potrebbe derivare da una tendenza delle culture umane a mantenere comportamenti che le persone consideravano in origine utili a tenerle al sicuro. L’incomprensibilità e la stranezza di molti riti, come vale anche per tabù e superstizioni, sarebbe una conseguenza del fatto che i comportamenti ripetuti nel tempo venivano mantenuti anche dopo che la ragione originaria era stata dimenticata.

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Diversi modi rituali di preparare il cibo o di pulire il corpo, per esempio, potrebbero derivare da metodi in origine utilizzati per prevenire le malattie. Altri riti legati alla morte o ad altri momenti difficili potrebbero derivare da pratiche che avevano fornito un qualche tipo di conforto, prima di diventare comuni e identitarie in ciascun gruppo umano. È a quel punto che un comportamento può diventare rituale: soltanto quando il suo significato sociale prevale sul suo utilizzo pratico, disse nel 2021 a National Geographic Mark Nielsen, psicologo dell’università del Queensland, in Australia.

«Quando impari a cucinare un certo piatto, probabilmente copi una ricetta, ma una volta che lo hai preparato più volte magari cominci a farlo a modo tuo», aggiunse Nielsen per descrivere la differenza tra il rito e una pratica individuale comune. I riti non prevedono questo tipo di personalizzazione, e anzi sono ripetuti con estrema accuratezza finché, alla fine, «perdono il loro valore funzionale e vengono adoperati per il loro valore sociale». Il che non significa che i riti, persino quelli più rigidi e secolari della Chiesa cattolica, non possano cambiare nel tempo, magari in alcuni dettagli minori, come nel caso delle modifiche al rito funebre del papa introdotte da papa Francesco.

L’ipotesi sulla relazione originaria tra i rituali e una qualche esigenza pratica condivisa fu in parte avvalorata da uno studio molto citato, condotto in 33 paesi e pubblicato su Science nel 2011. Dai risultati emerse che nelle regioni in cui disastri naturali e malattie sono più comuni e in cui è più alto il rischio di instabilità sociale e violenze, le società tendono a essere più rigide. Hanno cioè norme sociali più forti e una minore tolleranza per i comportamenti devianti, e tendono a essere più religiose e ad attribuire molta importanza ai comportamenti ritualizzati.

Spesso i rituali richiedono di agire in modo non solo prevedibile ma anche sincronizzato tra gli individui, e la cooperazione di gruppo è in generale una capacità fondamentale di fronte a diverse forme di pericolo. Esserne dotati può essere questione di vita o di morte, come peraltro hanno dimostrato in anni recenti la pandemia e le misure di pubblica sicurezza che ha reso necessarie.

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Del valore sociale delle religioni, oltre un secolo prima delle ricerche più recenti, si occupò a lungo il sociologo e storico delle religioni francese Émile Durkheim, che ne scrisse nel suo libro del 1912 Le forme elementari della vita religiosa. Per Durkheim, che fu un fervente laicista e attivista politico, le credenze religiose «sono sempre comuni a una collettività determinata che fa professione di aderirvi» e di praticarne i riti. Gli individui che compongono il gruppo sono legati gli uni agli altri per il semplice fatto di avere una fede comune intorno a cui strutturare dei princìpi morali.

Nella teoria di Durkheim la Chiesa – qualsiasi Chiesa – non è altro che una società i cui membri siano uniti dal fatto di rappresentarsi allo stesso modo il mondo, distinguendo il sacro dal profano, e traducendo queste rappresentazioni comuni in pratiche condivise. In questo sta la differenza con la magia, e infatti non può esistere una «Chiesa magica», perché per quanto diffuse le credenze magiche non legano tra loro le persone. «Tra il mago e gli individui che lo consultano, come tra gli individui stessi, non esistono vincoli durevoli che ne facciano i membri di uno stesso corpo morale», scrisse Durkheim.

I riti sono azioni legate a un certo oggetto sacro, o a più oggetti sacri: hanno senso nella misura in cui servono a sviluppare un senso di connessione reciproca tra i membri del gruppo, a impedire che le credenze condivise «si cancellino dalle memorie», e a ravvivare «gli elementi più essenziali della coscienza collettiva». Attraverso i riti «il gruppo rianima periodicamente il sentimento che ha di sé e della propria unità», e «gli individui riaffermano la loro natura di esseri sociali».

Assumere la prospettiva di Durkheim può essere piuttosto impegnativo in una società fortemente individualista, in cui si è inclini a intendere la fede prima di tutto come una profonda convinzione interiore. In un certo senso, scrisse sul Guardian nel 2012 il professore di teologia Gordon Lynch, richiede di considerare la fede non «come un software che gira continuamente nella mente dell’individuo», ma come «un’esperienza sociale intensa ma sporadica, dipendente da particolari tipi di attività di gruppo».

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È possibile, e anzi piuttosto frequente, che anche persone che si professano atee manifestino un bisogno di cerimonie e rituali, inteso come bisogno di celebrare in una collettività particolari momenti della vita (un matrimonio, la nascita di un figlio o di una figlia, eccetera). E anche in casi del genere emerge un’attenzione alla dimensione formale ed estetica, perché è molto difficile rendere le cerimonie un’occasione per riconoscere «un’umanità comune» senza prendere in prestito simboli tradizionali, scrisse sul Guardian nel 2013 la giornalista Suzanne Moore.

Il rituale richiede di creare uno spazio fuori dalla quotidianità: «possiamo chiamarlo spazio sacro, ma la delimitazione di tempi o spazi speciali non è prerogativa esclusiva del religioso», scrisse Moore, citando come esempio la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. E aggiunse: «potremmo non avere Dio. Potremmo trovare impura la vaghezza del pensiero New Age, con la sua enfasi sulla “natura” e sullo “spirito”, ma etichettare come stupido il bisogno umano di esprimere trascendenza e connessione con gli altri è di per sé stupido».