“Musica classica” vuol dire poco

È un’etichetta che tiene insieme stili diversissimi e ha a che fare più con le modalità di trasmissione che con il modo in cui suona

George Gershwin seduto al pianoforte mentre scrive una partitura
Il compositore statunitense George Gershwin nel suo appartamento a New York, nel 1934 (PhotoQuest/Getty Images)
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Nel 1952 il compositore statunitense John Cage, tra i più importanti e influenti del Novecento, scrisse un’opera per qualsiasi strumento o insieme di strumenti intitolata 4’33”. È formata da tre movimenti durante i quali gli esecutori, secondo le istruzioni sulla partitura, non devono suonare. Non c’è alcun suono, letteralmente: nessun possibile indizio udibile del genere musicale dell’opera. Eppure, per quanto estremo come esempio, 4’33” è generalmente considerato un pezzo di musica classica, oltre che una delle più importanti e famose opere d’arte contemporanea.

Ogni catalogazione della musica per genere implica un certo grado di vaghezza e approssimazione. Nel caso della musica classica l’ambiguità è però talmente intrinseca nella definizione da rendere frustrante e spesso inutile qualsiasi tentativo di trovare punti in comune tra composizioni diverse. Ne ha scritto di recente sull’Atlantic il compositore e direttore d’orchestra statunitense Matthew Aucoin, ma è un argomento discusso da decenni, ulteriormente complicato nel Novecento dall’eterogeneità della musica classica contemporanea e dalla tendenza a cercare suoni anche fuori dal sistema tonale, dominante nella tradizione musicale occidentale fin dal Seicento.

L’incertezza dei confini della categoria, con il passare del tempo, ha fatto sì che finisse per essere abitualmente definita classica qualsiasi composizione eseguita in formazioni e con strumenti di musica orchestrale o da camera. Il che non ha molto senso, perché è come escludere la possibilità che quelle formazioni e quegli strumenti siano in grado di produrre più di un genere musicale.

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Se la musica classica è un genere, è di un tipo particolare composto da più stili diffusi lungo secoli di storia della musica, secondo criteri che non hanno tanto a che fare con il suono in sé. È “classica”, per esempio, un’opera di musica corale come l’Ave verum corpus musicato dal compositore inglese William Byrd nel 1605, quasi due secoli prima della più celebre versione di Mozart. Ma nessuno si sognerebbe di definire musica classica le canzoni dei Beach Boys Our Prayer o And Your Dream Comes True, che pure non suonano in un modo poi così diverso dall’Ave verum corpus.

Può sembrare insensato tenere dentro la stessa categoria le opere da camera di Franz Schubert e Anton Webern, le sinfonie di Jean Sibelius e Igor Stravinskij, e quelle di compositori viventi come Thomas Adès o Chaya Czernowin. Eppure, ha scritto Aucoin, la ricerca di ciò che tutte queste composizioni condividono stimola una riflessione necessaria e importante, perché le sue implicazioni riguardano anche le istituzioni da cui dipendono attività e stipendi dei musicisti, molte delle quali in difficoltà finanziarie.

«Cos’è la musica classica, a chi è destinata e cosa vale la pena difendere?», si è chiesto Aucoin. Secondo lui ha senso cercare le risposte non nei suoni e negli stili, ma nella «tecnologia di trasmissione condivisa» della musica classica: la scrittura. È un criterio non nuovo, che nella tradizione occidentale è già alla base di un’altra distinzione: quella tra la cosiddetta musica colta, cioè tramandata attraverso forme di notazione musicale, e quella popolare, tramandata oralmente. Che è una distinzione comunque difficile e problematica, ma già più sensata di quella tra la classica e tutto il resto.

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Uno dei possibili criteri per distinguere le tradizioni musicali è domandarsi quale forma di trasmissione culturale sia ritenuta più centrale in ciascuna di quelle tradizioni. Ogni genere può essere documentato in vari modi: una partitura, una registrazione, un’esecuzione dal vivo. Delle canzoni dei Beach Boys esistono anche gli spartiti, ovviamente. Ma sarebbe strano sostenere che, tra tutti i tipi di trasmissione della loro musica, lo spartito sia la forma più autorevole, o che lo sia nello stesso senso in cui lo sono le partiture delle opere di William Byrd o di Mozart. Il documento che definisce la musica dei Beach Boys – come dei Beatles, di Stevie Wonder o dei Daft Punk – sono piuttosto i loro dischi in studio.

Sulla base di questo criterio può essere descritto come una tradizione musicale distinta anche il jazz. È vero che alcuni tra i dischi più famosi e venduti di sempre, su tutti Kind of Blue di Miles Davis e A Love Supreme di John Coltrane, sono documenti imprescindibili per conoscere i loro autori e interpretarne l’influenza storica. Ma chi ascolta e apprezza il jazz, scrive Aucoin, non direbbe che la registrazione in studio è la forma di trasmissione fondamentale del genere, e nemmeno lo direbbe della partitura: o perlomeno non quanto lo direbbe dell’esecuzione dal vivo.

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La partitura è invece la forma essenziale della musica classica e la più utile per definirla in un modo ampio e accettabile, perché è il «luogo fondamentale» attraverso cui si esprime la creatività di compositori che difficilmente potrebbero suonare più diversi l’uno dall’altro. Persino un’opera estrema come 4’33”, che prevede che gli esecutori non suonino, è musica classica proprio perché ha una partitura: sarebbe anzi inconcepibile senza, dato che per il resto non è definita da alcun suono.

Molte opere per big band (le formazioni jazz da oltre dieci elementi) di famosi e influenti direttori d’orchestra e compositori come Duke Ellington e Billy Strayhorn, secondo Aucoin, hanno in comune almeno una cosa con opere orchestrali apparentemente imparagonabili composte da autori come Stravinskij o Aaron Copland: «sono notate con squisita precisione», e nello specifico con la stessa attenzione all’equilibrio delle voci di fiati e ottoni.

Aucoin attribuisce all’invenzione della registrazione sonora un ruolo fondamentale nella sorte della musica classica, perché influì sull’evoluzione dell’alfabetizzazione musicale e dei processi di condivisione della musica in generale. Nell’Ottocento molte persone della classe media emergente che amavano la musica sapevano leggerla, avendo competenze di base come cantanti o strumentisti: il che rendeva la scrittura musicale il miglior modo di diffondere ampiamente e a distanza una canzone. Come effetto collaterale la tecnologia eliminò il passaggio intermedio della traduzione dei suoni in note sulla carta, introducendo nuove forme di trasmissione e condivisione (radio, dischi, CD).

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Questo trasformò la musica, rendendo via via dominanti formati di musica più brevi, che potevano essere imparati a memoria: non la sinfonia di 40 minuti. «Leggere e scrivere musica tornò a essere un’attività per specialisti, un equivalente moderno dei monaci medievali che copiavano laboriosamente manoscritti miniati», scrive Aucoin. Imparare i fondamenti della notazione musicale è sempre possibile, e ancora succede, ma nel tempo l’influenza della tecnologia sul contesto culturale ha sostanzialmente ridotto gli incentivi a considerare la notazione «un mezzo primario di espressione creativa».

Si discute da tempo se la riduzione dell’alfabetizzazione musicale fosse in sé inevitabile. La tecnologia della registrazione ha reso possibile trasmettere anche la lingua parlata, non solo la musica. Eppure l’alfabetizzazione verbale non è scomparsa, e la parola scritta è anzi oggi più diffusa che mai, obietta Aucoin. Definisce infine un pregiudizio diffuso l’idea che scrivere e leggere la musica, cioè la forma di trasmissione fondamentale della musica classica, sia un’attività intrinsecamente elitaria.

«La musica scritta è importante per la stessa ragione per cui lo è il linguaggio scritto: scrivere significa liberarsi dai vincoli della memoria», scrive Aucoin. Scrivere un romanzo, un saggio o una poesia permette di strutturare un’idea con una quantità di dettagli, profondità e digressioni che sarebbe molto più difficile da replicare attraverso una tradizione narrativa puramente orale. La scrittura musicale permette lo stesso grado di libertà e di creatività che associamo all’alfabetizzazione verbale, secondo Aucoin, e può essere utilizzata per scopi altrettanto vari.

Leggere fluentemente la musica è invece diventata un’abilità che richiede un’istruzione mirata e costosa, che non tutte le famiglie possono permettersi, conclude Aucoin. «Possiamo reagire a questo fatto sentendoci in colpa e lasciando che la musica scritta venga contaminata dalla sua associazione con l’elitarismo, oppure possiamo fare pressione per espandere l’educazione musicale».

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