Il lavoro di pilotare i droni che bombardano la Russia
Due comandanti ucraini raccontano cosa vuol dire far parte di uno dei programmi militari più devastanti della guerra, con tutte le sue difficoltà
di Daniele Raineri

Skipper e il Francese sono due comandanti ucraini delle squadre di piloti di droni che bombardano la Russia in territori lontani dal confine. Appartengono entrambi al 14esimo reggimento, che è il reparto che si occupa della maggior parte delle missioni di questo tipo. Hanno fra i trenta e i quarant’anni, indossano jeans, giubbotti da civili e scarpe sportive, non forniscono i loro nomi veri e rispondono alle domande seduti in una stanza vuota all’interno di un edificio che non assomiglia per nulla a una base militare, in una città dell’Ucraina centrale.
Il reggimento e i suoi uomini sono protetti da una cultura della segretezza ben curata perché il programma militare al quale partecipano è uno dei più devastanti nella guerra di resistenza contro l’invasione russa su larga scala. Quasi ogni notte unità di ucraini, incluse quelle di Skipper e del Francese, fanno decollare decine di droni, li fanno volare nello spazio aereo della Russia, a volte fino a 1.300 chilometri di distanza, e li fanno esplodere contro bersagli strategici come basi militari, depositi di munizioni e raffinerie di greggio.
I decolli avvengono a piccoli gruppi da piste segrete, al buio e in fretta. Per fare gli ultimi controlli i tecnici usano luci rosse, più comode per la visione notturna. Appena i droni sono in volo i militari ucraini si allontanano dal posto, per evitare i missili dei russi nel caso abbiano scoperto le coordinate della pista.

Un militare ucraino del 14 esimo reggimento in una località non specificata accanto a un drone che sta per decollare verso la Russia (REUTERS/Valentyn Ogirenko)
Una stima fatta dai giornalisti di Radio Free Europe e del gruppo di analisi militare ucraino Frontelligence Insight sostiene che in sei mesi, da settembre del 2024 a febbraio del 2025, le unità ucraine che pilotano droni a lungo raggio abbiano fatto danni per 651 milioni di euro alle infrastrutture militari e del petrolio in Russia.
Skipper spiega che questa campagna di bombardamenti non dipende dagli americani per funzionare perché i droni sono di fabbricazione ucraina, quindi sono missioni che sono nate e possono andare avanti senza il sostegno degli Stati Uniti. «In pratica siamo passati a usare roba completamente ucraina in questo campo e abbiamo produttori molto forti», dice.
Alla domanda «in generale per voi sarebbe un problema se l’amministrazione Trump smettesse del tutto di aiutare l’Ucraina?», l’ufficiale ucraino risponde: «Non cambia quello che dobbiamo fare. Non abbiamo scelta, dobbiamo combattere contro l’invasione russa. Adesso stiamo facendo la guerra con i droni, ma se per ipotesi non avessimo più i droni torneremmo nelle trincee e faremmo la guerra con le mitragliatrici».
La mancanza degli aiuti americani è una possibilità che va tenuta in conto, perché all’inizio di marzo l’amministrazione Trump li aveva sospesi per pochi giorni, e aveva sospeso anche la condivisione delle informazioni d’intelligence. Potrebbe rifarlo di nuovo e per un tempo più lungo.
Le operazioni con i droni a lungo raggio non fanno affidamento su informazioni fornite dall’intelligence americana. «Ci sono altri alleati che forniscono i dati che ci servono, ci sono informatori sul campo e uno dei compiti delle forze speciali ucraine è anche procurarsi informazioni sui bersagli da colpire in territorio russo», dice Skipper.
Intelligence Online, un sito specializzato in notizie sull’intelligence, scrive che gli ucraini stanno lavorando molto con la cosiddetta Osint, l’intelligence da fonti aperte, per trovare bersagli russi da bombardare e aggiustare il tiro se c’è bisogno.
Skipper viene dalle Forze speciali e dice che quella mentalità – arrangiarsi in pochi uomini e non come succede in fanteria dove ogni cosa coinvolge 50 persone, pianificare da soli le missioni, prendersi la responsabilità per ogni cosa e continuare a cambiare le cose per farle funzionare sempre meglio – è stata di aiuto nella creazione del programma droni a lungo raggio ucraino. Ricorda che i comandanti furono subito recettivi alle proposte di usare i droni come armi, anche se all’inizio sembrava una cosa improbabile. «I primi lanci di droni li facevamo con un gigantesco elastico di gomma e per tenderlo dovevamo usare una jeep, andavamo in un campo aperto e le ruote a volte slittavano nel fango. E dovevamo farlo per sei-sette volte di seguito, per far decollare i droni verso bersagli che comunque erano distanti soltanto qualche chilometro».
Adesso i droni sono ad ala fissa e sono simili a piccoli aeroplani. Il modello più conosciuto si chiama Lyuty, che in ucraino vuol dire “rabbia”. Ha colpito bersagli a più di mille chilometri di distanza e la sua sagoma appare in molti video pubblicati dai russi sui social media, spesso mentre scende in picchiata contro qualche obiettivo.
Come altre cose nella reazione ucraina all’invasione russa, anche gli attacchi con i droni a lungo raggio sono nati da un misto di urgenza, di improvvisazione e di necessità. Hanno funzionato grazie alla competenza e all’intuito di poche persone e poi sono stati replicati su scala industriale. Le poche operazioni dimostrative della fase iniziale, come le esplosioni sopra al Cremlino nel maggio del 2023, sono diventate migliaia di missioni a ciclo continuo e sono materia di studio per le forze armate in tutto il mondo.
Il Francese – che deve il suo nome di battaglia a un corso di laurea in lingua francese – dice che nelle prime missioni c’erano eccitazione e stress, ma sono svanite con l’esperienza ed è diventato soltanto un lavoro. «Ci sentiamo come cecchini che sparano a bersagli a mille chilometri. Il nostro compito è far alzare in volo i droni, sfuggire agli apparecchi per la guerra elettronica dei russi, eludere i loro sistemi di difesa aerea e fare in modo che i droni raggiungano gli obiettivi. Siamo soddisfatti quando i droni fanno centro, ma facciamo molta più attenzione quando le missioni non vanno a termine. Ci sono sempre un briefing prima della missione e uno dopo: cerchiamo di capire che cosa è andato storto, lavoriamo sugli errori, analizziamo dove possiamo migliorare qualcosa».
Skipper dice che non ci sono celebrazioni quando la squadra di dronisti ucraini colpisce il bersaglio dopo molte ore di volo: «io al massimo stappo una bottiglia di birra, ma niente di più». Per lui il momento più stressante nelle missioni è quello del decollo, perché sono fuori a far alzare il drone in volo ed è il momento nel quale sono più vulnerabili. «Per i russi bombardare le squadre che pilotano i droni è la priorità massima, se riescono a capire la nostra posizione. L’eccitazione di un caposquadra sta soprattutto nel fatto che tutto vada liscio al momento del decollo e che la sua squadra si allontani il più rapidamente possibile dalla pista», aggiunge.
I due ufficiali spiegano che nelle loro unità c’è un misto di esperienze e di età: il dronista più giovane ha 25 anni e il più vecchio 56. Ci vogliono tre settimane, secondo loro, per prendere un civile e trasformarlo in un pilota capace di far volare un drone a lungo raggio contro un bersaglio, ma l’addestramento in realtà è lungo tre mesi, perché ogni pilota riceve anche l’addestramento da soldato, quindi come maneggiare un’arma e tutto il resto.
I russi fanno decollare ogni notte decine di droni di fabbricazione iraniana modello Shahed contro le città ucraine e colpiscono anche bersagli civili, come caseggiati e ospedali. I piloti ucraini invece non mirano ai civili. «Teniamo conto di tutto il diritto internazionale umanitario – dice Skipper – Proviamo molta rabbia nei confronti dei russi, ovviamente vogliamo far loro del male, fargli provare ciò che i nostri cittadini provano ogni giorno. Ogni persona normale lo vorrebbe, dopo tutto quello che ci hanno fatto. Ma siamo consapevoli che se lo facessimo ci sarebbero conseguenze gravi e non vogliamo trasformarci in loro. Pertanto quando scegliamo gli obiettivi li scegliamo in modo da ridurre al minimo il fattore civile. Scegliamo specificamente obiettivi legati al complesso militare-industriale russo».
Il Francese dice che per i dronisti parlare con gli ucraini che producono i droni è una cosa obbligatoria: «Se soltanto tutti i produttori del mondo trattassero il loro lavoro come quelli in contatto con noi. Si modernizzano, ascoltano i nostri commenti e le nostre richieste. Cambiamo costantemente strategia. Voliamo a diverse altitudini, in corridoi diversi. Il processo è in costante progresso e miglioramento. E sono sicuro che tra un anno percorrere 3.000 chilometri e trasportare 100 kg non sarà un problema. Tutto sta andando in quella direzione».



