Il governo vorrebbe tanto non dover presentare questo DEF

Ha deciso di non tenere molto in considerazione i dazi di Trump, il piano di riarmo e le nuove regole europee, che rendono complicato fare previsioni economiche

di Valerio Valentini

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Senato durante le comunicazioni sul Consiglio europeo del 20 e 21 marzo, Roma (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Senato durante le comunicazioni sul Consiglio europeo del 20 e 21 marzo, Roma (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Entro il 10 aprile il governo dovrà presentare in parlamento il Documento di economia e finanza (DEF), che contiene le previsioni sull’andamento dell’economia del prossimo futuro. Quest’anno scrivere questo importante documento si sta rivelando più complicato del solito: sia per le novità delle regole europee di cui bisogna tenere conto, sia, soprattutto, per le incognite che i dazi di Donald Trump e il piano di riarmo europeo pongono sull’economia italiana.

Il ministero dell’Economia ha deciso di scrivere un DEF minimalista, per così dire: con previsioni limitate a due anni anziché su tre, come sarebbe la prassi, e soprattutto senza tenere molto in considerazione i possibili effetti dei dazi e del riarmo. E questo sta generando tensioni politiche con le opposizioni in parlamento, ma anche perplessità nelle istituzioni che vigilano sulla politica economica del governo: come l’Ufficio parlamentare di bilancio e la Corte dei conti.

Le novità sul piano normativo sono legate alla riforma del Patto di stabilità e crescita, introdotta nell’aprile del 2024: dopo un primo anno di transizione, nel 2025 i paesi membri dovrebbero adeguarsi pienamente ai nuovi indirizzi, che prevedono un ciclo di programmazione più lungo (per l’Italia di 7 anni) nel quale i governi devono progressivamente correggere le storture dei propri bilanci e seguire una certa traiettoria di spesa pubblica. Le commissioni Bilancio di Camera e Senato avevano creato subito dopo un gruppo di lavoro per adeguare al nuovo Patto di stabilità la legge di programmazione finanziaria, che è del 2009. Dopo mesi di discussioni, non se ne è fatto nulla.

In questo senso, il governo ha ragione nel dire che il DEF non è più il documento fondamentale per la programmazione economica anno per anno, com’era in passato, ma piuttosto un aggiornamento degli impegni pluriennali presi con la Commissione Europea. Tuttavia l’orientamento del governo, che è stato certificato il 2 aprile scorso da una risoluzione della commissione Bilancio della Camera votata solo dalla maggioranza e contestata con durezza dalle opposizioni, è particolarmente restrittivo, perché si è deciso di inserire nel DEF le previsioni per i soli prossimi due anni, escludendo dunque il 2028: e questo contraddice la prassi, che prevedeva un ciclo di programmazione triennale, ma stride anche col nuovo corso europeo, che appunto estende a 7 anni gli impegni del governo su spesa pubblica e riduzione del debito.

Inoltre, il ministero dell’Economia ha deciso che inserirà nel DEF solo le previsioni tendenziali, non quelle programmatiche. Significa che le previsioni non prendono in considerazione gli effetti delle misure adottate dal governo sull’economia dei prossimi anni. Era già successo lo scorso anno: e la cosa, per quanto insolita, era stata in parte spiegata dal governo proprio con il fatto che le regole europee erano appena cambiate e c’erano ancora incertezze sulla loro applicazione. Ma quella che nel 2024 poteva essere un’eccezione, ora viene riproposta con meno ragioni che la giustifichino. Per questo le opposizioni hanno protestato, alla Camera.

Il sottosegretario all’Economia Federico Freni si è incaricato di spiegare le ragioni del governo, rivendicando il rispetto delle norme europee e di quelle nazionali, e ribadendo che c’è troppa incertezza per pretendere previsioni dettagliate anche per il 2028. Le opposizioni si sono arrabbiate. I più determinati sono stati Maria Cecilia Guerra del PD e Luigi Marattin, del Partito Liberaldemocratico, che spiega: «Non esistono previsioni fatte in condizioni di certezza, e in particolare da una quindicina di anni siamo sempre in mezzo a tempeste (la crisi finanziaria, la crisi dei debiti sovrani, la pandemia, la guerra). Il senso di una programmazione economica-finanziaria non è quello di stabilire cosa accadrà, ma di tracciare una rotta».

Matteo Salvini e Federico Freni, sottosegretario all’Economia, nell’aula del Senato, il 22 dicembre 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Questi sono problemi per lo più procedurali, ma ci sono anche questioni più di merito. Col nuovo piano di riarmo presentato lo scorso 4 marzo, la Commissione Europea ha introdotto una serie di strumenti finanziari a cui gli Stati possono ricorrere per finanziare investimenti nel settore della difesa. Si tratta di misure potenzialmente molto pesanti economicamente, e anche se il governo italiano ha già fatto capire che non intende avvalersene in maniera consistente, il piano avrà comunque un certo impatto sull’economia italiana ed europea.

– Leggi anche: Il piano di riarmo europeo da 800 miliardi non è proprio da 800 miliardi

Un discorso analogo vale per i dazi statunitensi. Il ministero dell’Economia, almeno fino a qualche settimana fa, considerava che l’effetto della politica protezionistica di Trump fosse grosso modo già stato scontato, perché lui aveva annunciato da mesi le sue intenzioni, e i mercati ne avevano già metabolizzato le possibili ripercussioni.

Da mercoledì, però, si conosce con precisione l’entità e l’estensione di queste misure: l’Unione Europea subirà dazi per il 20 per cento, e nel complesso la “guerra” commerciale di fatto dichiarata da Trump al resto del mondo, Russia esclusa, avrà effetti rilevanti, e per lo più negativi, anche per l’Italia. Secondo alcune prime previsioni, il prodotto interno lordo europeo (PIL) potrebbe contrarsi di circa lo 0,4 per cento in un anno; studi preliminari di Confindustria condivisi con il governo indicano che per l’Italia il contraccolpo potrebbe essere ancora maggiore, di oltre mezzo punto di PIL.

In questo contesto già abbastanza complicato per il governo, vanno considerate anche le osservazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), l’organismo istituzionale che si occupa di monitorare la politica economica del governo. L’UPB le ha inviate al ministero dell’Economia lo scorso 27 marzo, dopo aver ricevuto dal ministero, il 19 marzo in anteprima, il cosiddetto quadro macroeconomico tendenziale provvisorio, cioè una specie di anticipazione delle previsioni più importanti che andranno poi introdotte nel DEF.

La presidente dell’UPB Lilia Cavallari in occasione della presentazione del Rapporto sulla politica di bilancio del 2024 alla Camera dei deputati, il 19 giugno 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

La consultazione che precede la presentazione del DEF è una procedura consolidata. Al termine di questo confronto, se l’UPB riterrà che le proprie osservazioni siano state accolte, e le differenze di previsione risultino minime, validerà – come quasi sempre succede grazie a questo dialogo preventivo – le previsioni del governo: una sorta di certificazione di attendibilità delle stime del DEF. È solo apparentemente una formalità: e infatti negli ultimi dieci anni, da quando cioè esiste l’UPB, i governi tendono a evitare di inserire stime di crescita troppo ottimistiche e talvolta irrealistiche.

Questo negoziato è riservato, non se ne conoscono i dettagli. Fonti di governo spiegano però che le osservazioni dell’UPB suggerirebbero maggiore cautela sulle previsioni di crescita, che nel Piano strutturale di bilancio del settembre scorso il governo aveva stimato in un 1,2 per cento del PIL, ma che l’UPB e l’Istat già nei mesi scorsi avevano ridimensionato (+0,8 per cento). Venerdì anche la Banca d’Italia ha stimato una crescita del PIL nel 2025 ancora più moderata, dello 0,6 per cento. Proprio per le molte incognite sull’economia, insomma, si potrebbero ritenere poco realistiche stime che andassero oltre quello 0,8 per cento, mentre il governo si sarebbe spinto leggermente più su. La risposta del ministero alle osservazioni dell’UPB era prevista entro questa settimana: ma c’è stato qualche ritardo, segno dell’incertezza generale.

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Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nelle riunioni dei giorni scorsi coi suoi collaboratori ha parlato di come sul riarmo sia praticamente impossibile fare previsioni solide, perché dal suo punto di vista nessuno sa bene cosa sia, questo piano, e come verrà usato. Quanto ai dazi, Giorgetti ha ripetuto che le previsioni economiche sono fatte per essere smentite nel giro di qualche mese, figurarsi a distanza di anni. A maggior ragione in una situazione così caotica, dunque, lui resta convinto che non sia opportuno azzardare stime troppo dettagliate.

Ma al di là delle incertezze contabili, a indurre Giorgetti alla prudenza è anche un problema più politico.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni finora non si è sbilanciata nel dire se e come l’Italia vorrà ricorrere agli strumenti finanziari messi a disposizione dall’Unione Europea per il riarmo, e si è inoltra esposta per ridimensionare i timori di imprenditori e analisti finanziari sulle ripercussioni dei dazi di Trump, con cui Meloni vuole mantenere buoni rapporti. Durante il Consiglio dei ministri di venerdì, in un suo discorso fatto poi circolare dal suo staff, ha spiegato che a suo avviso vanno evitati allarmismi sui dazi. E ha aggiunto che «è presto per valutare le conseguenze effettive prodotte da questa nuova situazione sul nostro PIL e sulla nostra economia». Se Giorgetti includesse previsioni che tengono conto dei dazi e soprattutto del riarmo, sarebbe soprattutto lui a prendersi la responsabilità di dire quanti miliardi l’Italia vuole spendere per la difesa (e Matteo Salvini, leader del suo partito, è contrario all’aumento della spesa militare). Sarebbe sempre lui a quantificare l’impatto negativo delle scelte di Trump, cioè a rendere evidente quanto un alleato del governo italiano faccia male all’economia italiana. La sua cautela quindi è anche una forma di reticenza: Giorgetti vuole evitare di esporsi politicamente in prima persona su questioni così delicate.

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