La destra riprova a ridurre i ballottaggi per i sindaci
Con un metodo che è in contrasto con la Costituzione, e che non piace al presidente della Repubblica

Mercoledì sera, in maniera piuttosto inaspettata e a ridosso della scadenza dei termini previsti, i partiti di maggioranza hanno depositato un emendamento al decreto-legge “Elezioni” in discussione alla commissione Affari costituzionali del Senato. È un decreto che riguarda le elezioni amministrative del 25 e 26 maggio prossimi. L’emendamento prevede di agevolare l’elezione al primo turno dei sindaci nei comuni con più di 15mila abitanti: attualmente, nei casi in cui nessuno dei candidati ottenga la maggioranza assoluta dei voti, si procede quindici giorni dopo al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze.
La destra vuole invece che sia eletto sindaco al primo turno chiunque ottenga almeno il 40 per cento dei voti.
L’emendamento è figlio di una vecchia ambizione del centrodestra, il cui elettorato è tendenzialmente meno propenso a votare al secondo turno, perciò ridurre il numero di comuni che vanno al ballottaggio potrebbe portare un maggior numero di sindaci alla destra. C’è però un problema di metodo: introdurre una modifica così rilevante in un decreto che dovrebbe limitarsi a stabilire le procedure per lo svolgimento delle elezioni è una forzatura istituzionale e politica, ed è in contrasto con la Costituzione. Per questo le opposizioni hanno subito protestato. E per questo, entro mercoledì prossimo, è verosimile che la destra desista, consapevole peraltro della contrarietà del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
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Nel marzo del 2024, quando il Senato si trovò a discutere un analogo decreto-legge relativo alle elezioni europee, a quelle del Piemonte e a quelle in 3.700 comuni, fu presentato un emendamento uguale a quello su cui c’è polemica in queste ore. Lo presentarono tre senatori della Lega, Nicoletta Spelgatti, Paolo Tosato e Daisy Pirovano. Si generò anche in quel caso un rumoroso dibattito, e alla fine l’emendamento venne ritirato perché Mattarella era contrario.
In realtà, i funzionari del Quirinale si limitarono a far osservare il contenuto dell’articolo 72 della Costituzione: stabilisce che in materia elettorale, come per quella costituzionale, per quella di bilancio e per la ratifica dei trattati internazionali, Camera e Senato devono «sempre» adottare una «procedura normale di esame e di approvazione». Vuol dire, secondo quanto poi si è affermato nella prassi parlamentare di questi decenni, che se si vogliono cambiare le leggi elettorali lo si deve fare con un disegno di legge specifico.
Per esempio andò così con la legge che introdusse l’elezione diretta dei sindaci nel 1993, che nacque da una proposta di legge del leader del Partito democratico della sinistra (PDS) Achille Occhetto; e andò così per l’attuale Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (TUOEL, a volte abbreviato anche TUEL), in vigore dal 2000 e originato da una proposta del governo di Romano Prodi. È proprio questo il testo che ora la destra vorrebbe modificare, cambiandone in particolare l’articolo 72. Però, e qui sta il punto, vorrebbe farlo con un emendamento a un decreto-legge, cioè con una procedura che prevede tempi molto stretti e scarsa possibilità di discussione e di analisi.

Il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni, il primo marzo 2023 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
I decreti-legge in materia elettorale hanno da sempre una natura puramente ordinamentale: significa che il governo li fa alcuni mesi prima per stabilire la data del voto e gli orari di apertura dei seggi, o per definire le norme di ordine pubblico necessarie. Non hanno per niente a che fare, invece, con la legge elettorale. Il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni, nel giugno del 2024 spiegò allo HuffPost che la proposta leghista, condivisa da tutto il centrodestra, era fallita in pochi mesi perché avanzata in maniera sbagliata.
«In quella occasione si rinunciò ad andare avanti solo perché non era giusto cambiare le regole a tre mesi dal voto. Ma adesso si può fare, non ci sono scadenze all’orizzonte», disse.
L’ipotesi era di fare un disegno di legge specifico. Ma non se ne è fatto nulla, e dieci mesi dopo la destra è tornata a proporre un identico testo seguendo quella stessa procedura che Balboni riteneva sbagliata. Inoltre stavolta a presentare l’emendamento come primi firmatari non sono stati tre senatori qualsiasi, ma i capigruppo di maggioranza: Lucio Malan di Fratelli d’Italia, Massimiliano Romeo della Lega e Maurizio Gasparri di Forza Italia. La maggioranza vuole quindi investire molto, politicamente, su questa iniziativa.
I capigruppo ne hanno discusso all’inizio della settimana con il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli – da tempo favorevole all’abolizione del ballottaggio – in una riunione in cui non c’è stato un orientamento compatto dei vari responsabili dei partiti: Romeo era più perplesso, memore appunto della passata esperienza, Gasparri il più determinato, Malan stava un po’ nel mezzo. Alla fine, dopo un ulteriore consulto con i consiglieri di Giorgia Meloni, si è deciso di procedere.
Le destre provano a cambiare le regole del gioco alle elezioni locali con un emendamento al decreto legge “elezioni” che porta la soglia per diventare sindaco senza ricorrere al ballottaggio al 40%.
Per prima cosa non esiste al mondo che si cambi una legge elettorale con un…— Ivan Scalfarotto 🇮🇹🇪🇺🇺🇦 (@ivanscalfarotto) April 2, 2025
Le opposizioni stanno protestando con durezza. Tra gli altri, sono stati particolarmente netti i commenti del senatore del PD Dario Parrini («Vogliono fare una riforma costituzionale mascherata con un emendamento a un decreto: una roba che neanche in Ungheria») e del senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto.
Nella tarda mattinata di giovedì, quando la commissione si è riunita per stabilire l’ordine dei lavori, c’è stato però un momento di grande imbarazzo. Quando Balboni ha chiesto ai partiti di maggioranza di illustrare l’emendamento, cioè di dare elementi utili per capirne il significato e la conformità alla materia del decreto in discussione, nessuno della maggioranza si è fatto avanti. Dopo qualche secondo di silenzio, Balboni ha ripreso la parola e ha detto che entro mercoledì prossimo, quando il provvedimento dovrà essere trasferito dalla commissione all’aula del Senato, valuterà l’ammissibilità dell’emendamento, e cioè deciderà se potrà essere votato o se dovrà essere cassato.



