Le sentenze di primo grado nel processo sul centro sociale Askatasuna di Torino

È caduta per tutti l'accusa più grave, quella di associazione a delinquere, mentre ci sono state 10 assoluzioni e 18 condanne per altri reati

La sede del centro sociale Askatasuna in corso Regina Margherita, Torino, 31 gennaio 2024 (ANSA/TINO ROMANO)
La sede del centro sociale Askatasuna in corso Regina Margherita, Torino, 31 gennaio 2024 (ANSA/TINO ROMANO)
Caricamento player

Dopo due anni di indagini, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali e settantadue capi di imputazione, a Torino è stata emanata la sentenza di primo grado contro 28 persone legate al centro sociale Askatasuna, al movimento No Tav e ad altre organizzazioni cittadine. Le accuse erano legate alle numerose proteste organizzate da anni in Val di Susa e a Torino per opporsi alla TAV, la tratta ferroviaria Torino-Lione (che è ancora in costruzione), e agli scontri con le forze dell’ordine che queste proteste hanno spesso innescato.

Nel processo la contestazione più grave, per 16 dei 28 attivisti coinvolti, era quella di associazione a delinquere, che ipotizzava l’esistenza di una direzione unitaria finalizzata a creare disordini attraverso le proteste: tutte le 16 persone accusate di questo reato sono state assolte dal collegio dei giudici «perché il fatto non sussiste». Ci sono invece state condanne per le accuse che riguardavano le condotte dei singoli attivisti durante le proteste, che comprendevano i reati di violenza privata, estorsione, rapina, sequestro di persona, resistenza a pubblico ufficiale, incendio e danneggiamento. In tutto ci sono state dieci condanne e diciotto assoluzioni.

Il processo è stato molto seguito e in città se ne parla molto da tempo. In vista della lettura della sentenza la procuratrice generale Lucia Musti aveva imposto misure di sicurezza rafforzate per gli accessi all’ingresso del tribunale vietando, per esempio, «caschi, parrucche, maschere, coriandoli e stelle filanti». Fuori dal tribunale, a partire dalla mattina, Askatasuna e il movimento No Tav hanno organizzato un presidio: la sentenza è stata accolta con entusiasmo soprattutto perché esclude il reato di associazione a delinquere (il coro che hanno cantato più spesso è «siamo un’associazione a resistere»).

L’Askatasuna, parola che in basco significa “libertà”, è uno dei centri sociali più noti e frequentati di Torino e da anni è considerato un punto di riferimento non solo di militanza politica ma anche per le attività culturali che organizza. Esiste da trent’anni e la sua sede è in un edificio occupato al numero 47 di corso Regina Margherita, edificio sul quale il comune di Torino ha ufficialmente avviato, nel 2024, il percorso per riconoscerlo come «bene comune».

In questi ultimi giorni il quotidiano Il Manifesto ha ricostruito la nascita e l’andamento del processo contro i militanti dell’Askatasuna, ma anche del movimento No Tav di cui l’Askatasuna è parte, e di altri gruppi attivi in città. Le indagini (presentate in 5mila pagine) si sono svolte tra il 2019 e il 2021, ma come ha spiegato uno dei testimoni dell’accusa durante il processo, un funzionario della sezione terrorismo della Digos di Torino, sono andate a ritroso arrivando al 2009, periodo in cui secondo la procura sarebbe cominciata «la diffusione del piano da parte degli ideologi» della presunta associazione e sarebbe cominciato a crescere «il livello dello scontro con le forze dell’ordine».

Gli eventi in cui si sarebbe attuato nel tempo questo piano sono stati divisi in quattro gruppi: varie manifestazioni in città, cortei del primo maggio, scontri all’università con le fazioni di estrema destra, marce e attacchi al cantiere Tav. L’obiettivo del piano sarebbe stato quello di «portare avanti la lotta violenta, mantenendo alta la tensione con le forze dell’ordine, viste come la “prima linea” dello Stato da combattere». Tutto il progetto si sarebbe basato su una «sofisticata strategia» che prevedeva di nascondersi dietro iniziative sociali avendo in realtà come unico scopo quello di «procurare (all’associazione a delinquere, ndr) il sostegno di una parte dell’opinione pubblica» alle azioni violente. Le iniziative sociali in questione, negli anni, hanno avuto a che fare con la precarietà abitativa, con la promozione dello sport popolare, con la distribuzione di cibo e tamponi durante il lockdown, con i corsi di italiano per stranieri, con l’aiuto agli sfrattati.

La prima ipotesi di reato formulata dalla procura, che coinvolgeva una settantina di persone, era stata quella di «associazione sovversiva», messa però in discussione dal giudice dell’udienza preliminare secondo il quale i vari indagati sarebbero dovuti andare a processo per reati singoli e non di carattere associativo. La procura aveva dunque fatto ricorso e riformulato l’ipotesi specificando che in realtà non era tutto il centro sociale a costituire un’associazione sovversiva, ma solo un piccolo numero di persone che ne facevano parte. Anche questa formulazione è però caduta perché i giudici del riesame avevano ritenuto che non si trattasse di «associazione sovversiva», reato punito con pene dai 5 ai 10 anni di carcere, ma di «associazione a delinquere» punita con la reclusione da 3 a 7 anni.

Dopo la riformulazione dell’accusa era iniziato il processo: in tutto, gli imputati erano 28: hanno tra i 23 e i 79 anni. Di loro, 16 erano accusati di associazione a delinquere, tra cui gli storici militanti Giorgio Rossetto (per il quale erano stati chiesti 7 anni di carcere), Andrea Bonadonna (4 anni) e Umberto Raviola (7 anni). Il procuratore aggiunto Emilio Gatti e la pubblico ministero Manuela Pedrotta avevano chiesto condanne per un totale di 88 anni di reclusione: alla fine la condanna più grave è stata a 4 anni e 9 mesi, a Umberto Raviola, quella più lieve è stata a cinque mesi.

Nella memoria depositata a conclusione del processo di primo grado la procura di Torino aveva parlato di «un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti, basi logistiche ed operative, avente come programma il compimento di azioni violente in occasioni di iniziative di protesta».

Nel frattempo l’avvocatura dello Stato aveva chiesto agli indagati un risarcimento danni per circa 6,8 milioni di euro, a nome della presidenza del Consiglio dei ministri con i ministeri dell’Interno e della Difesa, che si sono costituiti parte civile per la gestione dell’ordine pubblico relativa al 2020-2021, insieme a Telt, società italo-francese che sta costruendo l’alta velocità sulle montagne valsusine. Le richieste di risarcimento non sono state accolte in sede penale (fatta eccezione per una da 500 euro a Telt): se ne occuperà un giudice civile.

Gli imputati, con una dichiarazione spontanea resa in aula prima della sentenza, avevano detto di non riconoscersi «minimamente nel quadro caricaturale» tracciato dalla procura, rifiutando «l’equiparazione a disegni delinquenziali delle esperienze politiche e dei percorsi di lotta sociale che ha il fine di alimentare la costruzione giudiziaria, sociale e mediatica di un nemico pubblico» e sostenendo che a essere sotto processo non fossero solo loro, «ma le lotte sociali che il governo vorrebbe criminalizzare».