I film didascalici funzionano
Sempre di più raccontano le storie sottolineando insistentemente il messaggio, evitando di soffermarsi su piani simbolici o allusivi

Ci sono film che lasciano poco o niente di inespresso. Sono quelli che, per citare una famosa scena della serie animata I Simpson, sembrano fatti come la casa delle vacanze che Ned Flanders presta ai suoi vicini di casa, dopo averla tappezzata di biglietti che spiegano la funzione di ogni oggetto ed elettrodomestico. «Mettimi dentro del cibo», c’è scritto sul post-it attaccato sul frigorifero. Diversi film recenti di vario genere e di discreto successo contengono passaggi in cui il racconto diventa didascalico in un modo plateale e a volte irritante.
A un certo punto del film del 2024 The Apprentice, sulla vita di Donald Trump, il protagonista propone al sindaco di New York un grande progetto di edilizia. Gli mostra un modellino di una torre, alla cui base c’è una targhetta con scritto «Trump Tower». Ne discutono un po’, e poi il sindaco gli chiede: «e come la chiamerai?». Il protagonista, come se la targhetta non esistesse, risponde: «Trump Tower».
Anche un maestro del cinema come Francis Ford Coppola ha riempito il suo ultimo film Megalopolis di personaggi che sono sostanzialmente delle funzioni, sottolineate da nomi di personaggi noti dell’antichità e da citazioni molto retoriche che appaiono di tanto in tanto come epigrafi a tutto schermo. Sono ripetitive e spesso didascaliche anche molte serie tv, inclusa Adolescence, che è stata molto commentata e apprezzata, ma anche giudicata da qualcuno retorica e troppo appiattita su un’idea stereotipata e prevedibile del mondo degli adolescenti e di quello degli adulti, e dell’incomunicabilità tra i due mondi.
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In modo ancora più sorprendente, una certa ridondanza è presente qui e lì anche in film basati su sceneggiature originali e generalmente considerati d’autore. Il film che ha vinto più premi agli Oscar del 2025 e la Palma d’oro al precedente festival di Cannes, Anora, racconta la storia di una spogliarellista spiantata che conosce un giovane e ricchissimo cliente russo, con cui comincia una relazione. È una classica storia alla Cenerentola, almeno all’inizio, ma se anche il riferimento non fosse chiaro lo diventa quando la protagonista parla della sua luna di miele principesca al telefono con una sua amica, che esclama: «Cenerentola!».
Della crescente tendenza dei film alla letteralità ha scritto sul New Yorker Namwali Serpell, autrice di romanzi e insegnante di inglese a Harvard. Serpell definisce «nuovo letteralismo» un certo modo compiaciuto di fare i film incentrandoli su concetti ripetuti, prevedibili ed esplicitati di continuo. Sono film letterali nel senso di «sfacciati e forzati», quasi del tutto privi di allusioni o ambiguità, che non ammettono interpretazioni oblique o impreviste.
È molto letterale per esempio anche The Substance, un film del 2024 diretto da Coralie Fargeat e basato su un tema abbastanza convenzionale nel cinema: la paura delle celebrità femminili di invecchiare ed essere rimpiazzate da colleghe più giovani e attraenti. A interpretarlo sono precisamente un’attrice ultrasessantenne, Demi Moore, e un’altra con meno della metà dei suoi anni, Margaret Qualley, che nella storia nasce già bell’e fatta attraverso una specie di partenogenesi: esce letteralmente dalla schiena della più anziana. Più che una storia, secondo Serpell, è una trasposizione letterale di un concetto in un film.
Il letteralismo dei film riflette in parte tendenze culturali e commerciali più ampie, tra cui l’inclinazione delle grandi produzioni a replicare formule consolidate e redditizie per limitare il rischio di insuccessi. Il biopic su Bob Dylan A Complete Unknown è un altro esempio chiaro: per quanto apprezzabile, è comunque l’ennesimo biopic musicale su vecchie celebrità interpretate da nuove celebrità oggi popolarissime sui social media.
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La tendenza dei film a essere didascalici e letterali è diffusa anche nei film di genere. In una scena del Gladiatore II, poco prima della rivolta dei prigionieri, il guerriero protagonista esce dalla sua cella e sottrae a una guardia una spada di legno con cui lo aveva appena preso in giro. Mentre la usa per uccidere la guardia, trafiggendole la gola, dice: «Legno o acciaio, una punta è sempre una punta!». In pratica in un film epico e d’azione il protagonista spiega l’azione, senza alcun sarcasmo o comicità.
Nel film d’azione del 1987 Predator, per fare un esempio di una scena simile ma scritta in modo meno piatto e prevedibile, a un certo punto il protagonista uccideva un nemico lanciandogli contro con un machete che lo trafiggeva conficcandosi nel palo alle sue spalle. «Resta nei paraggi», commentava il protagonista, interpretato da Arnold Schwarzenegger, che cita spesso questa battuta tra quelle poi diventate memorabili.
Il nuovo letteralismo riguarda anche film che con qualche ambizione artistica sfruttano i movimenti della macchina da presa o le inquadrature per esprimere dei concetti, ma lo fanno appunto in un modo comunque piatto e manierista. Serpell fa l’esempio di una scena di The Brutalist, diretto da Brady Corbet, in cui un’inquadratura rovesciata della Statua della Libertà è usata didascalicamente come simbolo dello stravolgimento della vita a cui sono destinati il protagonista del film e tutti gli artisti emigrati dall’Europa negli Stati Uniti come lui. Ma un discorso simile può essere fatto anche per il piano sequenza, sempre più spesso utilizzato in storie che presuppongono una certa immedesimazione da parte del pubblico e cercano di ottenerla tramite tecniche ormai collaudate.
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In generale, indipendentemente da quanto siano realistici, è come se molti film recenti – non tutti – evitassero di trattare argomenti che non sono già familiari in partenza, e di trattarli in modi che non siano canonici e prevedibili. Nel libro Immediacy: or, The Style of Too Late Capitalism la studiosa di letteratura Anna Kornbluh riconduce questa tendenza a una pressione generale e a un entusiasmo per l’accessibilità istantanea dei dati, diffusi senza alcuna mediazione.
In questo senso, anche la mediazione artistica è considerata una fonte di confusione e quindi una scomodità, come qualsiasi altra rappresentazione che richieda un certo tempo di interpretazione ostacolando la fruizione immediata. «Ciò che conta non è il modo in cui le idee estetiche sollecitano un diverso tipo di pensiero rispetto all’ordinario, ma solo il loro nucleo isolabile e il messaggio diretto», scrive Kornbluh.
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La ridondanza e l’aderenza al piano letterale delle storie sono a volte difese sia dagli autori che dal pubblico come una scelta democratica, un modo per raggiungere un pubblico più ampio ed eterogeneo. Secondo Serpell è difficile però non rintracciare in questa aspirazione, peraltro assecondata dagli strumenti dell’intelligenza artificiale, un’attitudine generale a declassare i contenuti dell’arte in concetti «predigeriti», simili a spot pubblicitari facili da mettere in circolazione, e in un certo senso rassicuranti rispetto a un presente che per molti aspetti sembra minaccioso.
«Tutto deve essere facile da seguire e da capire, abbastanza semplice da riconoscere e categorizzare», scrive Serpell, aggiungendo che la questione in sé non è nuova. La discussione su cosa sia arrivato prima, se «il cosiddetto analfabetismo mediatico o l’impoverimento dei media», esiste da tempo ed è sempre molto difficile, come lo è la discussione parallela sulle responsabilità e sul ruolo dei media nel ricostruire la domanda. La cosa nuova, conclude Serpell, è piuttosto l’aspettativa sia del pubblico sia degli autori che l’arte sia qualcosa di definito e stabile nel tempo, esteticamente e politicamente, e che sia replicabile attraverso la ripetizione delle stesse formule letterali e l’eliminazione di qualsiasi ambiguità.
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