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  • Mercoledì 12 marzo 2025

Breve storia dei dazi statunitensi, dai polli alle graffette

Prima di Donald Trump sono stati usati spesso anche nel Novecento, con risultati alterni ed effetti imprevisti

I polli sono stati al centro dei dazi nel 1963 e di nuovo nel 2018 (AP Photo/Robert F. Bukaty)
I polli sono stati al centro dei dazi nel 1963 e di nuovo nel 2018 (AP Photo/Robert F. Bukaty)
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Da settimane il presidente statunitense Donald Trump continua a parlare di dazi: li minaccia, impone e sospende, nel tentativo di ottenere qualcosa in cambio dai paesi che li subiscono. È un atteggiamento anomalo da molti punti di vista, ma non del tutto nuovo: nei secoli i presidenti statunitensi hanno usato i dazi in modo molto diverso, imponendoli con tariffe più o meno alte e ottenendo risultati alterni. Anche prima di Trump insomma si parlava di dazi: c’entrano con la “guerra dei polli” del Secondo dopoguerra, con i modellini degli X-Men prodotti dalla Marvel e anche con la fortuna delle graffette statunitensi, ottenuta a scapito di quelle cinesi. Abbiamo raccolto alcuni episodi.

La prima fonte di entrate
Il Tariff Act, la legge sui dazi del 1789, fu uno dei primi approvati dal Congresso statunitense dopo l’indipendenza. Per quasi un secolo, almeno fino alla Guerra civile (1861-1865), prevedere dazi su tutti i prodotti importati era la norma, nonché la principale e quasi unica fonte di entrate per il governo federale. Verso la fine dell’Ottocento aumentarono i sostenitori di un “libero mercato” internazionale, soprattutto negli stati del Sud e fra i Democratici. Dal 1913, con l’introduzione di una tassa sul reddito, i dazi non furono più così fondamentali.

Seguì una fase di apertura doganale, interrotta dal crollo dei mercati finanziari del 1929 e dalla profonda crisi economica che ne seguì: nel 1930 il presidente Repubblicano Herbert Hoover approvò lo Smoot-Hawley Act (dal nome dei due primi parlamentari firmatari), che reintroduceva dazi generalizzati. Era stato proposto per proteggere i contadini statunitensi dalla concorrenza estera, ma fu poi esteso non solo a tutti i prodotti agricoli, ma anche a molti beni industriali, con dazi al 20 per cento sui prodotti importati dall’estero. Provocò immediatamente reazioni da parte di molti stati europei, fra cui Spagna e Francia: gli scambi commerciali fra Stati Uniti ed Europa si ridussero di due terzi nel giro di tre anni. Rispose anche il Canada, imponendo dazi su 16 prodotti che valevano un terzo delle esportazioni degli Stati Uniti.

– Leggi anche: Il “Giovedì nero” del 1929

Secondo alcuni storici tutti quei dazi reciproci contribuirono a peggiorare la crisi economica statunitense, nota come Grande Depressione, e in Europa causarono il fallimento di alcune banche e una crisi economica che avrebbe favorito l’ascesa di ideologie estremiste. Fecero anche crollare la popolarità di Hoover, che non fu rieletto: tra il 1934 e il 1939 il suo successore, il Democratico Franklin Delano Roosevelt, firmò trattati di libero scambio con 19 paesi.

Herbert Hoover alla Casa Bianca il 15 giugno 1929 (AP Photo)

La “guerra dei polli”
Da allora, e soprattutto dal Secondo dopoguerra, la politica statunitense andò decisamente nella direzione del superamento dei dazi, pur con qualche eccezione, specialmente in reazione a scelte di paesi stranieri. È il caso ad esempio della cosiddetta “guerra dei polli”. Durante la Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti erano stati incentivati l’allevamento e il consumo di pollame, per compensare a una parallela carenza di carni rosse: la produzione crebbe e i prezzi scesero, e i produttori cercarono all’estero nuovi mercati per il loro pollame. Per proteggere i polli europei nel 1963 la Comunità Economica Europea (la CEE, che decenni dopo si sarebbe evoluta nell’Unione Europea) approvò dazi piuttosto consistenti, con una cifra fissa per ogni chilo di carne di pollo.

– Leggi anche: Come funzionano i dazi, spiegato

Le esportazioni di pollame statunitense scesero del 30 per cento e alcuni mesi più tardi il presidente Lyndon Johnson impose dazi su varie altre merci, come ritorsione: riguardavano la fecola di patate, il brandy, la destrina (un componente chimico usato per la carta) e i furgoni. Alcuni di questi sono ancora in vigore, come quello del 25 per cento sui furgoni.

Furgoni che non lo erano e giocattoli umanoidi
Non esiste un dazio simile sulle auto per passeggeri, e quindi in vari casi le aziende hanno cercato degli escamotage per presentare i loro furgoni come automobili. Fra il 2009 e il 2013 l’azienda automobilistica statunitense Ford produceva il furgone Transit in Turchia, e lo importava con i sedili installati nella parte posteriore: arrivato come automobile, veniva poi liberato dei sedili negli Stati Uniti e tornava a essere un furgone. Questo sistema è finito al centro di una causa legale, chiusa nel 2024 con un patteggiamento: Ford accettò di pagare 365 milioni di dollari come risarcimento al governo federale.

È piuttosto comune che i dazi colpiscano in modo diverso prodotti simili: per esempio quelli sui giocattoli sono attivi anche oggi e valgono il 6,8 per cento; quelli sulle bambole, definite come “rappresentazioni di figure umane o umanoidi” valgono il 12 per cento. Per questo nel 2003 la Marvel intentò una causa legale sostenendo che le sue action-figures (i modellini) degli X-Men prodotte in Asia dovevano essere considerate come giocattoli, dato che non rappresentavano esseri umani: vinse, i supereroi videro riconosciuto il loro status di non-umani e le tasse sulla loro vendita furono ridotte.

Camion in coda alla dogana di Tijuana, Messico. (AP Photo/Gregory Bull)

Banane sudamericane, legname canadese
Un’altra guerra commerciale con l’Europa avvenne nel 1993, sulle banane. L’Unione Europea impose dazi sulle banane del Sudamerica, per favorire quelle delle ex-colonie caraibiche e africane. Gli Stati Uniti non erano direttamente coinvolti, ma molte delle piantagioni sudamericane erano di proprietà di aziende statunitensi: le pressioni delle aziende portarono il governo a imporre dazi del 100 per cento sul cashmere scozzese e sui formaggi francesi e italiani. Furono poi eliminati progressivamente nel corso di circa dieci anni.

Altre volte l’iniziativa è partita dagli Stati Uniti: nel 1982 il repubblicano Ronald Reagan decise dazi del 14 per cento sul legname proveniente dal Canada. La motivazione era che le aziende statunitensi producevano il legname usando terreni privati, mentre quelle canadesi sfruttavano terreni dello stato, cosa che secondo Reagan rappresentava una sorta di sussidio pubblico. L’intento era di ridurre le importazioni, ma non funzionò: ancora oggi continua ad arrivare dal Canada circa il 50 per cento del legname usato negli Stati Uniti, soprattutto perché nel paese non se ne produce abbastanza per soddisfare la domanda.

Ronald Reagan con il primo ministro giapponese Yasuhiro Nakasone nel giugno del 1987 (AP Photo, File)

Il turno del Giappone
Nel 1987 Reagan impose anche dazi generalizzati del 100 per cento sulle merci provenienti dal Giappone, ufficialmente come ritorsione per il mancato rispetto da parte dei giapponesi di un accordo precedente sui semiconduttori.

In realtà la decisione fu presa con due obiettivi molto concreti: da un lato riequilibrare la bilancia commerciale, dato che gli Stati Uniti importavano molte più merci dal Giappone di quante ne esportassero nel paese, e dall’altro mettere in difficoltà l’industria automobilistica giapponese. Quest’ultimo fu raggiunto: il Giappone decise di non prevedere dazi in ritorsione per non ampliare la guerra commerciale, ma la sua economia entrò in una profonda crisi che durò per tutti gli anni Novanta. Per gli Stati Uniti la bilancia commerciale migliorò temporaneamente, riducendo il disavanzo da 55 a 43 miliardi di dollari, ma poi tornò a peggiorare: oggi è in negativo per 72 miliardi di dollari.

Si arrivò anche alle graffette, e fu un successo
In passato i dazi sono stati imposti anche su categorie merceologiche molto più specifiche e inusuali. Nel 1990 per esempio furono introdotti dazi del 127 per cento su tutte le graffette prodotte in Cina, che stavano andando molto bene sul mercato statunitense. Oggi le graffette statunitensi sono quasi tutte “made in USA”.

Dal 2002 sul tonno in scatola proveniente dall’estero si pagano tasse del 35 cento: la misura fu introdotta per contrastare la diffusione di tonno dall’Ecuador. I dazi vengono però aggirati importando un prodotto semi-finito dall’estero, che viene inscatolato negli Stati Uniti.

Il precedente dell’acciaio
I dazi più recenti imposti dall’amministrazione Trump sono quelli del 25 per cento su acciaio e alluminio, entrati in vigore il 12 marzo. Ampliano e uniformano altri dazi imposti sempre da Trump durante il suo primo mandato, nel 2018: al tempo la loro introduzione fece crescere sia i prezzi che la produzione statunitense, almeno all’inizio. Poi però il Canada introdusse dazi in ritorsione su prodotti specifici di alcuni stati, come il formaggio del Wisconsin e il bourbon whiskey del Kentucky. Trump eliminò i dazi per Messico e Canada nel 2019.

L’acciaio era già stato oggetto di dazi nel 2002: il presidente Repubblicano George W. Bush li impose a vari paesi, compresi quelli europei ma escludendo Canada e Messico. Il risultato fu che aumentarono le importazioni dai paesi non sottoposti a dazi e che alcune piccole aziende statunitensi del settore entrarono in crisi. Durarono un anno, furono eliminati prima che entrassero in vigore dazi in ritorsione annunciati da parte dell’Unione Europea.

Un monumento ai lavoratori dell’acciaio a Braddock, Pennsylvania (AP Photo/Gene J. Puskar)