Da dove arrivano tabù e superstizioni

C’entra una tendenza psicologica ad attribuire cause a eventi negativi, perlopiù casuali, per renderli meno inspiegabili e più accettabili

Una donna passa sotto una scala, in una foto in bianco e nero degli anni Cinquanta
(Debrocke/ClassicStock/Getty Images)
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In diversi articoli e libri sulle tradizioni dell’isola, il Madagascar è descritto come un paese con tabù profondamente radicati, chiamati in malgascio fady e diversi a seconda della zona e del villaggio. Di alcuni si intuisce una possibile derivazione da precauzioni sanitarie di qualche tipo: le donne incinte, per esempio, non devono mangiare anguille, altrimenti il feto scivolerà via dal loro corpo. L’origine di tanti altri tabù è invece misteriosa: è vietato indicare una tomba, a meno di non voler perdere le dita della mano.

Molti tabù del Madagascar, descritti per la prima volta negli anni Sessanta dall’etnografo norvegese Jørgen Ruud, possono sembrare bizzarri ma non sono poi tanto diversi da alcuni diffusi in altre parti del mondo, incluse le società occidentali. Il divieto di indicare le tombe ricorda il tabù dell’arcobaleno, uno dei più documentati in assoluto, riscontrato da etnologi e antropologi in popolazioni di culture diverse, dal Nordamerica all’Australia.

La credenza che indicare l’arcobaleno generi la comparsa di una verruca sull’indice, per esempio, è piuttosto nota in diverse regioni del sud Italia, ma è attestata nella stessa forma anche in Brasile, tra gli indigeni Otomi nel Messico centrale, tra i Cuna delle Isole San Blas, a Panama, e in altre regioni del mondo. Alla base del tabù, studiato a lungo dal linguista statunitense Robert Blust, ci sono due concetti largamente condivisi: l’associazione tra l’arcobaleno e l’aldilà; e l’idea che indicare sia un comportamento aggressivo socialmente sconveniente, da evitare in generale (anche molte guide turistiche sconsigliano di farlo).

Un gruppo di persone in controluce, fotografate di spalle e a mezzo busto, ammira le cascate e l’arcobaleno

Un gruppo di persone osserva un arcobaleno sopra le cascate del Niagara, in Ontario, il 7 aprile 2024 (AP Photo/Matt Rourke)

Il fascino dei tabù, cioè la loro capacità di funzionare come potenti «attrattori culturali» per popolazioni di epoche e luoghi diversi, è strettamente legato alla psicologia umana. Non è detto che siano suggestivi fin dall’origine: è più probabile che lo diventino passando da persona a persona, di generazione in generazione. «Attraverso la comunicazione le persone possono affinare le credenze nelle loro forme più convincenti», disse ad Atlas Obscura Manvir Singh, antropologo cognitivo dell’università della California a Davis.

Un fattore che contribuisce a rendere i tabù culturalmente affascinanti sono i dettagli, spesso spaventosi. Secondo la versione del tabù dell’arcobaleno diffusa a Giacarta, in Indonesia, per esempio, c’è un solo modo per rimediare alla violazione del tabù: immergere il dito in un mucchio di sterco di bufalo. È una sanzione disgustosa che da un lato rafforza il divieto e dall’altro incentiva il racconto del tabù attraverso dettagli facili da ricordare.

I tabù sono stati a lungo oggetto di studio della psicanalisi: il suo fondatore, il neurologo austriaco Sigmund Freud, ne scrisse nel libro del 1913 Totem e tabù. Il termine deriva da una parola polinesiana ambivalente, che significa sia “sacro” sia “proibito” (simile alla parola latina sacer): per la psicanalisi i tabù riflettono infatti la repressione di desideri proibiti. In altri ambiti di studio sono più genericamente comportamenti da evitare perché ritenuti dannosi per l’ordine sociale.

In tempi molto più recenti l’origine dei tabù è stata esplorata anche nella psicologia cognitiva, cercando un’associazione con determinati processi mentali. Una delle ipotesi proposte è che i tabù – peraltro spesso associati alle pratiche religiose, nella letteratura antropologica – siano prescrizioni tramandate anche per effetto di una tendenza psicologica fondamentale: attribuire cause a eventi negativi spesso casuali e inspiegabili.

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Diversi studi di psicologia mostrano che le persone sono particolarmente inclini a stabilire relazioni causali soprattutto quando vivono esperienze spiacevoli e inaspettate, come malattie e incidenti. Individuare una causa esterna specifica, anche se imprecisa o irrazionale, può fornire un senso di sicurezza e attenuare l’ansia generata da eventi altrimenti caotici.

In situazioni del genere i tabù funzionano come regole su cosa non fare, che danno l’impressione illusoria di poter controllare e prevenire quegli eventi, ha scritto sulla rivista Psyche Kevin (Ze) Hong, ricercatore dell’università di Harvard e professore di sociologia dell’università di Macao, in Cina.

L’esempio dei tabù alimentari durante la gravidanza, che nelle comunità tradizionali sono tra i più eterogenei e diffusi al mondo, dall’Africa all’Asia, è significativo. Riguarda infatti un ambito della vita – la gestazione e il parto – in cui gli esiti imprevisti e indesiderati sono relativamente frequenti. Secondo Hong, autore di un articolo sull’evoluzione culturale dei tabù nelle società umane, la tendenza a cercare spiegazioni è tanto più presente nelle comunità che condividono concezioni del mondo deterministiche, basate sulla convinzione che tutto accada per una ragione.

Due macchine e un ciclista fermi a un incrocio davanti a un gatto nero

Un gatto attraversa una strada in mezzo al traffico, nel 1934, in Inghilterra (Fox Photos/Getty Images)

Per provare a comprendere la possibile origine di un qualsiasi tabù alimentare per le donne incinte, Hong suggerisce di immaginare che una donna in una determinata comunità abbia un aborto spontaneo. Lei e la sua famiglia, in lutto, cercheranno delle risposte. Ricorderanno che una volta durante la gravidanza lei aveva mangiato, per esempio, carne di coniglio. Anche se non sono sicuri che sia stata quella la causa dell’aborto, accettano quella spiegazione, che viene poi condivisa nella comunità. Nel tempo l’associazione tra l’aborto e la carne di coniglio si rafforza e si “cristallizza” in una norma sociale, tramandata di generazione in generazione.

Mentre si tramanda in una comunità, il tabù viene ulteriormente rafforzato dalle punizioni previste per chi lo infrange, considerate in diversi studi di antropologia un fattore fondamentale. Le punizioni infatti da un lato rafforzano la convinzione nel tabù e dall’altro scoraggiano le trasgressioni attraverso la pressione sociale. E questa duplice paura della violazione – sia delle sue conseguenze dirette, sia del giudizio sociale che ne consegue – contribuisce a consolidare il tabù nel tempo.

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I tabù di cui non comprendiamo l’origine potrebbero essere regole di questo tipo, la cui logica iniziale è scomparsa gradualmente dalla memoria collettiva, lasciando dietro di sé soltanto il divieto, man mano che nuove spiegazioni diventavano più plausibili e socialmente accettabili. Ma in molti casi le attribuzioni causali, interiorizzate fin dall’infanzia senza che siano messe in discussione, si radicano nella coscienza pubblica e sopravvivono anche di fronte a prove contrarie. Peraltro le conseguenze della violazione dei tabù sono spesso definite in modo vago (“sette anni di sfortuna”) e non sono verificabili.

Per questi motivi diversi tabù e superstizioni sono ancora molto popolari, nonostante le loro origini storiche siano tutt’altro che chiare. Non è chiaro, per esempio, perché in Europa durante il Medioevo i gatti neri fossero associati al diavolo, ma da questo probabilmente si diffuse la successiva credenza che i familiari delle streghe o le streghe stesse assumessero la forma di gatti neri. Incrociarne uno per strada era presumibilmente già all’epoca considerato un presagio di sventura.

Un’illustrazione d’epoca che mostra una strega e un gatto nero su una scopa, che sorvolano un paese di notte

Un’illustrazione per la festa di Halloween del 1908 (GraphicaArtis/Getty Images)

Per uno stesso tabù esistono però anche storielle diverse riguardo all’origine, che spesso variano a seconda della parte del mondo in cui è diffuso. Secondo un aneddoto quasi certamente apocrifo, poco prima di essere accusato di alto tradimento, processato e condannato a morte, nel 1649, Carlo I d’Inghilterra considerò come un segno di sfortuna imminente la morte di un gatto nero domestico a cui era molto affezionato.

In altri casi, come quello dei tabù alimentari, è più facile spiegarsi certe superstizioni associandole a comuni norme di buon senso, non scritte. Per esempio, se può scegliere di non farlo, la maggior parte delle persone non passa sotto le scale semplicemente per prudenza. Si presume infatti che qualcuno stia usando la scala, e nessuno vuole correre il rischio che qualcosa gli o le cada in testa. Né vuole correre il rischio di urtare la scala e far cadere chi ci sta lavorando sopra.

Ma anche per l’origine di questo tabù esistono ricostruzioni diverse, che lo ricollegano a proibizioni millenarie. Una delle ipotesi è che la scala aperta formi un triangolo, simbolo associato alle divinità di molte società e culture (dagli antichi egizi ai cristiani), e che passarci sotto significhi “rompere” il triangolo e profanare uno spazio sacro.

Indipendentemente dalla loro origine, i tabù che vietano di passare sotto una scala o di attraversare una strada per cui sia passato un gatto nero sopravvivono per inerzia cognitiva, in modo del tutto scollegato dalle streghe, dagli antichi egizi, da Carlo I d’Inghilterra o da altre ipotesi. «Le domande sulle origini sono veramente complicate», disse ad Atlas Obscura l’antropologa cognitiva Helena Miton. Vale per tutto, ma vale a maggior ragione per credenze immateriali che non possono essere datate, e che rendono difficile, spesso impossibile, distinguere tra residui culturali di civiltà passate e leggende metropolitane.

I tabù possono essere molto pericolosi perché, in alcuni casi, contribuiscono a creare un contesto di disinformazione e ignoranza, favorendo comportamenti scorretti e rischiosi per la salute. Ma non tutti sono necessariamente dannosi, e alcuni anzi producono benefici pratici e promuovono di fatto comportamenti virtuosi (un consumo ridotto di determinati cibi, per esempio). In generale, secondo Hong, riflettere sui tabù è un’opportunità per pensare in modo critico «al motivo per cui seguiamo le regole che seguiamo».