L’Italia è sotto indagine della Corte penale internazionale
Per la mancata cooperazione con la stessa Corte nel caso Almasri: è la prima volta che succede a un paese europeo

La Corte penale internazionale, il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, ha confermato di avere aperto un’indagine interna sul governo italiano per via della sua decisione di liberare quasi subito Njeem Osama Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica che era stato arrestato il 19 gennaio a Torino. Per Almasri c’era un mandato d’arresto internazionale emesso dalla stessa Corte: la decisione del governo di Giorgia Meloni di non applicare il mandato era stata subito molto discussa e criticata, anche dalla stessa Corte con un comunicato ufficiale.
Ora la Corte ha fatto un passo oltre e ha aperto un’inchiesta sul governo. In gergo tecnico si parla di una «procedura di mancato rispetto» dello statuto che regola il rapporto fra la Corte e gli Stati che vi hanno aderito. All’articolo 86 infatti lo statuto prescrive che gli Stati membri «cooperano pienamente con la Corte nelle inchieste ed azioni giudiziarie che la stessa svolge».
È la prima volta che viene aperta un’inchiesta nei confronti di un paese europeo per non avere cooperato nell’arresto di una persona ricercata dalla Corte penale internazionale. Ed è anche la prima volta che una questione simile riguarda «una persona che non ricopre un incarico politico di alto livello, in assenza di potenziali ostacoli relativi a una immunità diplomatica», ha notato il ricercatore Luca Poltronieri Rossetti in un articolo di qualche giorno fa sul blog specializzato EJIL: Talk! in cui ipotizzava l’apertura di un’indagine nei confronti dell’Italia.
In estrema sintesi, la Corte contesta al governo italiano la mancata cooperazione nell’arresto di Almasri e il suo immediato trasferimento in Libia, un paese che peraltro non aderisce allo statuto che regola la Corte penale internazionale, sottoscritto a Roma nel 1998.
La Corte accusa Almasri di vari crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal febbraio del 2015 in poi nella prigione libica di Mitiga, compresi omicidio, tortura, stupro, persecuzione, detenzione inumana. È accusato di aver commesso questi crimini personalmente, di averli ordinati e di esserne responsabile perché compiuti da altri membri della sua milizia.
Il mandato d’arresto internazionale nei suoi confronti era stato emesso il 18 gennaio, un giorno prima del suo arresto a Torino, dove Almasri era andato a seguire una partita di calcio. Almasri è stato arrestato il 19 gennaio e poi rilasciato. Finora il governo italiano ha dato spiegazioni piuttosto confuse e contraddittorie sulle ragioni di questa scelta.
Durante un intervento alla Camera la settimana scorsa il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto sostanzialmente che il mandato emesso dalla Corte conteneva varie irregolarità e discrepanze formali, da cui non si capiva esattamente se Almasri fosse davvero pericoloso e se il mandato d’arresto avesse basi solide. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, seduto accanto a Nordio, ha riferito invece che Almasri era così pericoloso che il governo ha subito deciso di allontanarlo dal territorio italiano.
Il governo insomma si rifiuta di motivare la liberazione di Almasri con una cosiddetta “ragion di Stato”, o comunque di presentarla come una scelta politica, come invece è l’ipotesi più realistica: l’Italia ha infatti ottimi rapporti con le milizie che controllano il territorio libico, a cui dal 2017 ha affidato il compito di impedire con la violenza le partenze di migranti via mare.
– Leggi anche: Il governo non ha chiarito i dubbi sul caso Almasri
In generale poi il governo aveva avuto un atteggiamento piuttosto ostile nei confronti della Corte penale internazionale, alludendo a un presunto complotto secondo cui la richiesta di arrestare Almasri sarebbe stata mandata apposta mentre lui era in Italia, per mettere in difficoltà il governo (un’ipotesi che non ha prove e che è stata smentita dalla Corte stessa). Dopo la notizia dell’indagine, il ministero della Giustizia ha inviato una nota alla Corte in cui si chiede un dialogo «per evitare casi simili» in futuro, scrive Repubblica.
L’articolo 87 dello statuto prevede che se uno Stato «non aderisce ad una richiesta di cooperazione della Corte», «la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati parti o il Consiglio di sicurezza» delle Nazioni Unite. Al momento siamo in una fase precedente alla procedura di indagine.
Un portavoce della Corte ha detto ad Avvenire che «in relazione alle richieste e ai resoconti dei media sul caso Almasri, posso chiarire che la questione del mancato rispetto da parte dello Stato di una richiesta di cooperazione per l’arresto e la consegna da parte della Corte è all’esame della Camera competente, ovvero la prima Camera preliminare». In questa sede, ha precisato il portavoce, «l’Italia avrà l’opportunità di presentare osservazioni». Il giornalista di Avvenire Nello Scavo prevede comunque che «ci vorranno settimane, forse mesi» prima che la Corte decida di incriminare politici o funzionari pubblici italiani oppure di archiviare il caso.



