Il fascino discreto delle grandi pulizie
«Durante il lockdown perfino io, contro ogni aspettativa, mi spinsi a comprare su Amazon un tritatutto. Per fortuna, fallii. Ad altre piacque moltissimo. Sull’idea che le donne debbano tornare a fare le casalinghe, si fonda il movimento americano delle tradwives, le “mogli tradizionali”. Nei loro reel su Instagram e TikTok puliscono, sfornano il pane e vanno alla fattoria a mungere le mucche, sfoggiando un look perfetto ispirato agli anni ’50 e a Betty Draper, la moglie di Don Draper di "Mad Men". Molte predicano l’autosufficienza, l’autoproduzione, principi che potrebbero anche andare verso una direzione ecologista, ma tralasciano sempre di sottolineare quello che Simone de Beauvoir chiarì già nel 1949: “Quando è quotidiano, questo lavoro diventa monotono e meccanico. Per questo le fatiche quotidiane sembrano molto meno tristi quando sono eseguite dagli uomini“»

La porta finestra della mia cucina comunica visivamente con quella della vicina dell’appartamento di fronte. Anche se non ci ho mai parlato, so che è una casalinga.
Ogni volta che la vedo stendere i tappeti sul davanzale nei giorni delle pulizie, mi chiedo se non abbia mal di collo o fastidio alla cervicale per quella sua abitudine a non usare il phon. Mentre fa avanti e indietro con i tappeti da scrollare e stendere al sole – il sole ammazza gli acari – la si vede sempre con un turbante di spugna in cui fa asciugare i capelli. Il mio voyeurismo è diventato più ossessivo quando ho notato che i lineamenti del suo viso erano piegati da una tristezza senza scampo.
Dopo due anni di sbirciatine, sia da parte mia che da parte sua, abbiamo messo da parte la vergogna. Io vedo lei e lei vede me. Ci facciamo compagnia mentre prepariamo i pasti. Non l’ho mai vista seduta o rilassata, né leggere o fumare una sigaretta; è sempre in movimento, intenta a spazzare o a trascinare sul terrazzo oggetti che probabilmente sposta per fare le pulizie. «Il lavoro domestico, che esige la ginnastica del corpo, è il bordello accessibile alla donna» scriveva Violette Leduc.
Poi succede che quando è arrabbiata o ha la sensazione di essere colta nel vivo della sua routine chiuda improvvisamente e con rabbia la finestra, come se si vergognasse di quel suo ritmo mostruosamente prevedibile, del suo «problema senza nome». In questo modo Betty Friedan definiva nel 1963, in The Feminine Mystique (La mistica della femminilità), il malessere di moltissime donne americane della classe media che negli anni Cinquanta avevano scelto la famiglia abbandonando la possibilità di realizzarsi nel mondo del lavoro. A causa dell’omertà di riviste e programmi radiofonici e televisivi, scrive Friedan, «per più di quindici anni non si è fatta parola di questo turbamento». Il periodo postbellico fu cruciale: durante la guerra molte donne avevano sostituito gli uomini chiamati alle armi, ma dopo il 1945 erano state rimandate a casa, interrompendo un processo di emancipazione che sembrava irreversibile.
Sull’idea che le donne debbano di nuovo essere assegnate alla cura domestica, tornando agli anni ’50, si fonda il movimento americano delle tradwives (le “mogli tradizionali”) sostenuto dalle sottoculture di destra che hanno supportato Donald Trump durante la vittoriosa campagna elettorale del 2024. Questa comunità, che si esprime sui social, ma evidentemente è anche reale, ha iniziato ad avere un seguito importante nel 2020, quando le persone costrette a casa dal lockdown si sono rifugiate nelle faccende domestiche. Perfino io, contro ogni mia aspettativa, mi spinsi a comprare su Amazon un tritatutto. Per fortuna, fallii e decisi di allestire una palestra in camera da letto. Ad altre piacque al punto da diventare “tradwives”, iniziando a seguire quella che per alcuni è un’“estetica” e per altri un’“ideologia”.
Le mogli tradizionali si dichiarano orgogliose di essere casalinghe e di impegnarsi nella cura della casa, dei figli e dei mariti mentre sono al lavoro. Sfornano il pane (il lievito madre è un must!), vanno alla fattoria, in qualche caso mungono le mucche portando il latte a casa. Nei reel che postano sui loro account Instagram o TikTok seguiti da milioni di followers sfoggiano un look perfetto, trucco impeccabile e, nel caso delle trad più integraliste, un modo di vestire anni ’50. Estee C. Williams, una delle “mogli tradizionali”, si ispira a Betty Draper, la moglie di Don Draper – protagonisti della serie tv Mad Men – copiandone l’abbigliamento e il caschetto biondo platino.
La sua è un’operazione quasi filologica (anche se con un errore di dieci anni visto che la serie TV è ambientata negli anni Sessanta) che esplicita la volontà di connettersi con un passato in cui la donna era naturalmente assegnata al focolare domestico. Se per le tradwife gli anni ’50 rappresentano un momento mitico, per Friedan sono il momento in cui ha iniziato a svilupparsi quel male oscuro di cui scrive in Mistica della femminilità. La serie Mad Men lo racconta benissimo: in più occasioni, mentre la si vede trincerata nella vita domestica, Betty afferma di trascorrere il proprio tempo ad aspettare suo marito, a desiderarlo perché se per Don «l’amore è solo un’occupazione», per Betty «è la vita stessa» (sono parole del poeta Byron, citate da Simone de Beauvoir nel Secondo sesso).
Le mogli tradizionali hanno un’anima multiforme – siamo oltre l’io multiplo: sono contemporaneamente influencer, cuoche, madri amorevoli, mungitrici top model (Ballerina Farm è un’ex Miss America) e ambasciatrici dei dogmi biblici. L’atmosfera che si percepisce guardandole ricorda molto la quinta stagione della serie Fargo, ambientata nel Minnesota del 2019, dove lo sceriffo Roy si avvale di armi e reminiscenze bibliche per creare nel suo ranch una sorta di regno anacronistico in cui le donne sono domestiche schiavizzate.
L’altra contraddizione è che le tradwives predicano l’astensione delle donne dal lavoro che non sia domestico, ma sono tutt’altro che inoccupate visto che con i loro video guadagnano un sacco di soldi. Non sono contro il lavoro, infatti. E nemmeno tutte di estrema-destra, anche se vicine, nei principi base, ai movimenti suprematisti bianchi. Ad accomunarle è lo spirito anti-femminista e conservatore: dividersi i compiti in base al genere, soddisfare le esigenze del marito, prodigarsi per stimolare la sua felicità, forgiare la femminilità attraverso i compiti casalinghi e gloriarsi di tutto questo. «L’uomo – scriveva Simone de Beauvoir – vuole un focolare ma restando libero di evaderne».
L’assenza di uno spazio pubblico che scavalchi il regno sommerso della vita casalinga è un aspetto su cui poco si è riflettuto, ma che è fondamentale per comprendere il malessere di molte donne, private della possibilità di un’esteriorizzazione della propria vita. È uno dei temi di Nascita e morte della massaia di Paola Masino, uno straordinario libro uscito nel 1945, ma scritto nei lontani anni Trenta del Novecento, in cui si legge che il «rovello umano non è che il desiderio di una sempre maggiore esteriorità». Per me è stato un libro rivelatorio: l’ho ascoltato in audiolibro, in auto, avendo la sensazione di aver già sentito quella voce, di aver sfiorato quelle parole pur non avendogli mai dato la giusta attenzione, quella che serve per dare un nome alle cose.
Prima di diventare massaia, una bambina vive nascosta in un baule con la speranza di ritardare il momento in cui dovrà presentarsi al cospetto della società e consegnarsi alla vita matrimoniale. Questo il momento del suo risveglio dal baule-bara:
«Si districò i capelli da alcune pianticelle che le erano nate dalla forfora, con le mani leggere staccò l’una dall’altra le palpebre e aperse gli occhi».
Una volta dentro la vita matrimoniale, la massaia si nutre esclusivamente del proprio pensiero mentre sente di essere condannata al patibolo della routine domestica:
«Tutto il tempo è passato, tutta la poesia del mondo è trascorsa per una donna, da quando voi uomini le mettete sulle spalle la casa. Mangiare è sapere un giorno prima quanto masticherai il giorno dopo, sapere quanto costa, sapere come fu fatto, paventare lo spreco, dubitare il furto; […] Voi volate, noi stiamo a terra. Ci portate appena, dei vostri voli, i paracadute rovinati, perché vi si rammendino, smacchino, pieghino, ripongano. Tuttavia sorridiamo».
Sul tema non si può tralasciare di citare Mrs. Dalloway (1925) di Virginia Woolf, in cui Clarissa dichiara di «essere colta da un singolarissimo senso d’essere invisibile», «di passare inosservata». O il film The Hours, tratto dal romanzo di Michael Cunningham che connette tre donne proprio intorno al romanzo di Virginia Woolf, in cui la legittimazione degli atti di Laura Brown, casalinga depressa di Los Angeles nel 1951, deriva esclusivamente dallo sguardo del marito lavoratore, assente da casa durante il giorno.
Una delle filosofe che hanno portato la questione dell’invisibilità delle donne al centro del dibattito in Italia è stata Adriana Cavarero (Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, 2022). In un capitolo del libro la figura di Ulisse – archetipo dell’uomo che ha avuto la possibilità di «esibire la propria unicità in uno spazio condiviso e politico» – si contrappone a quella di una donna qualsiasi, Emilia, la cui esistenza è raccontata da una amica. «Come capita da sempre a molte donne», scrive Cavarero, Emilia «ha probabilmente avuto la scena domestica come proprio ambito di esistenza» e vissuto una vita durante la quale la sua «unicità è rimasta parzialmente inesposta per mancanza di una scena condivisa di comparizione, ossia di uno spazio politico vero e proprio».
La differenza con l’oggi è che, grazie ai social, questo spazio esiste anche per le donne che ne negano la necessità. Se da una parte le trad wives professano l’ideologia della vita domestica in maniera radicale, dall’altra dispongono dei social con cui possono ottenere la visibilità che la maggior parte delle donne casalinghe non ha. Rimane la domanda sulle ragioni per cui un fenomeno così conservatore abbia tanto seguito. Estee Williams, una delle tradwife più estremiste, dice su TikTok:
«La sottomissione biblica non significa che la moglie abbia meno valore del marito. Le mogli tradizionali incoraggiano la sottomissione biblica perché la Bibbia parla di questo. L’ombrello dell’autorità ha Cristo in cima, seguito dal marito, poi dalla moglie e dai figli. Quest’ombrello protegge l’unità familiare da Satana. Le mogli sottomesse sono protette e guidate dal marito».
Tra gli hashtag sotto al video si trovano anche #biblicalsubmission e #biblicalfemininity. La musica di accompagnamento è dei Backstreet Boys.
Secondo la lettura sociologica del Guardian, le tradwives propongono una soluzione conservativa e individuale ad alcuni dei problemi che affliggono la società statunitense: uno di questi è la mancanza di sostegno alle giovani madri. Ritirarsi in casa e rifugiarsi nella vita domestica, utilizzando l’iconografia di un passato idealizzato, corrisponde alla volontà di sottrarsi alla complessità della società moderna. «Non sarebbe bello se potessi scegliere di restare a casa e crescere i figli, invece di essere costretta a farlo perché l’assistenza all’infanzia è così dannatamente costosa?».
Estee Williams ha spiegato in tv che una tradwife è semplicemente una donna che sceglie di vivere una vita tradizionale con «ultra traditional gender roles». La donna sceglie di essere «homemaker» (casalinga).
Così argomenta in un TikTok:
«Mentre la donna sta a casa e si prende cura dei bambini, se ce ne sono, il marito va a lavorare e provvede al sostentamento della famiglia. Non è un movimento, nessuno vuole costringere le donne a essere casalinghe. Il nostro scopo, come individui, è quello di essere casalinghe e ciò non significa che stiamo cercando di eliminare ciò per cui le donne hanno lottato. Crediamo anche che le mogli debbano sottomettersi ai loro mariti e servire la famiglia. Le parole “servire” e “sottomettersi” non dovrebbero causare allarmismo perché non stiamo dicendo che le donne valgano meno degli uomini. Sono donne con un ruolo diverso, tanto importante quanto quello degli uomini».
I video delle tradwives sono edulcorati, cinematografici, raccontano mondi idealizzati. Molte di loro predicano l’autosufficienza, l’autoproduzione, principi che potrebbero anche andare verso una direzione ecologista, ma tralasciano sempre di sottolineare quello che, già nel 1949 Simone de Beauvoir, chiarì scrivendo Il secondo sesso:
«Quando è quotidiano, questo lavoro diventa monotono e meccanico; è pieno di attesa: bisogna attendere che l’acqua bolla, che l’arrosto sia cotto al punto giusto». (…)
«Per questo le fatiche quotidiane sembrano molto meno tristi quando sono eseguite dagli uomini; esse non costituiscono per loro che un momento negativo e contingente da cui si affrettano a evadere. Ma ciò che rende ingrata la sorte della donna-domestica è la divisione del lavoro che la vota interamente al generale e all’inessenziale; la casa, il cibo sono utili alla vita ma non le danno un senso: gli scopi immediati della massaia non sono che mezzi, non veri fini, e in essi si riflettono solo progetti anonimi».
Osservando ogni giorno la mia vicina accanirsi contro i tappeti, il mocio e i copriletto ritrovo il «sado-masochismo» con un «carattere precisamente sessuale» di cui ha scritto ancora una volta la straordinaria de Beauvoir.
Scrollare il tappeto in pubblico mi ha sempre provocato un senso di vergogna. La mia vicina lo fa in maniera plateale come se volesse attirare gli sguardi sulle sue azioni, quasi a garantire attraverso l’attenzione degli altri una sopravvivenza ai gesti meccanici della sua quotidianità.
Considerato che il nostro tempo casalingo «non è direttamente utile alla collettività, non sbocca nell’avvenire, non produce niente», allora forse quello della mia vicina è un accenno del suo bisogno di collettivizzare la propria esperienza privata.
Guardo spesso fuori dalla finestra, rischiando di bruciare la cena, per sapere cosa fanno gli altri, donne e uomini, nella loro dimensione domestica e, soprattutto, per scoprire se nella routine della loro esistenza si verifichino delle variazioni.
Guardo dalla finestra per avere un metro con cui giudicare la mia routine, per capire quanto di anonimo e inessenziale ci sia.
Da quando spio i vicini di casa – sono ormai due anni – medito seriamente e forse ossessivamente su questo tema. Non so se la mia vicina di casa sia una moglie tradizionale e se usi il suo tempo per consegnare al marito una casa bella e profumata. Forse c’è altro: di recente, in un articolo del New York Times, ho letto che «la candeggina è una gomma magica dei traumi, un rinnovatore delle cose». Non avevo mai pensato al potere terapeutico nascosto nei solventi chimici.
È probabile che in un mondo complesso «la semplicità delle pulizie sembri un balsamo», come scrive ancora il New York Times, ma è altrettanto vero che lavare, stirare, scopare, scovare i ricci di polvere sotto gli armadi significa combattere contro qualcosa, come insegna di nuovo De Beauvoir. Non si tratta di un momento positivo. La donna votata completamente alla vita casalinga «non è chiamata a costruire un mondo migliore». La sua è una «lotta contro i principi cattivi» che si infiltrano nella casa, nella stanza, sul pavimento. Ma è «un triste destino dover combattere senza tregua un nemico invece di essere volti verso scopi positivi; spesso la massaia lo subisce con rabbia».
«Giuro a me stessa che quando sarò grande nella mia casa non ci sarà mai il giorno delle grandi pulizie» scrive una ragazza citata da Simone de Beauvoir.
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