Quando l’Europa rubò l’Africa
In poco più di trent'anni, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, un intero continente fu occupato, diviso e saccheggiato: lo racconta "L'Africa non è un paese" di Dipo Faloyin
L’Africa non è un paese, di Dipo Faloyin, è il nuovo libro pubblicato da Altrecose, il marchio editoriale creato dal Post assieme alla casa editrice Iperborea. È un prezioso contributo per superare i luoghi comuni e l’ignoranza ancora molto diffusi quando si parla sommariamente di “Africa”: luoghi comuni e ignoranza che spesso hanno origine nella storia coloniale dell’Africa e tengono in vita gli approcci che i paesi europei ebbero allora nei confronti del continente. E comincia da lì, il racconto di Faloyin: spiegando come successe che tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento le grandi potenze europee si siano prese tutta l’Africa, dividendola e saccheggiandola, con l’uso dell’inganno, della forza e con grande ignoranza di quello che fosse. E persino creando artificiosamente stati e divisioni che ancora governano quello che accade oggi.
Questo è un capitolo di L’Africa non è un paese. Il libro può essere acquistato in tutte le librerie fisiche e digitali (e può essere ordinato anche sul sito del Post, con spese di spedizione gratuite).
Lunedì 9 settembre Dipo Faloyin sarà a Milano per parlare del suo libro insieme a Eugenio Cau del Post, che ha scritto la prefazione per l’edizione italiana. L’incontro – a ingresso libero – sarà al Chiostro dell’ex Convento di Santa Maria della Vittoria, in via De Amicis 17, a partire dalle 19.
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Una mappa è una cosa divisa. Creare una mappa significa visualizzare una rappresentazione chiara e in colori coordinati di una divisione. I confini separano i mari dalle loro origini, le città dalle loro gemelle e le persone dai loro destini. Quando funziona al meglio una mappa dovrebbe aiutare a localizzare le singole entità che, idealmente, esistono in quei luoghi. Uno spirito generoso potrebbe consentire a una mappa un certo margine di errore. Ma se poi arrivate nel punto desiderato e trovate una cunetta invece di una montagna, allora a guidarvi non è stata una mappa, ma una favola di cui siete stati inconsapevoli protagonisti.
La mappa era grande e sbagliata; impressionante e inaccurata. In altezza, misurava quasi cinque metri di assurdità topografiche, tracciate da uomini che non avevano mai messo piede nel 90 per cento delle terre che pretendevano di riprodurre. Il disegno si basava in gran parte su resoconti di avventure lungo le coste, dove gli esseri umani venivano pesati, incatenati e poi venduti come schiavi; storie di ampi bacini d’acqua; racconti di regioni in cui il sole era caldo ma gradevole, e dove le malattie locali erano ritenute abbastanza lievi da consentire a un uomo bianco di non morire dieci ore dopo aver posato i piedi sulla terraferma.
In realtà molti di questi uomini bianchi – che la storia ci impone di chiamare educatamente «esploratori» – morirono in fretta, perché le malattie sono organismi complessi e mutevoli, il sole è raramente leale con gli stranieri e alcuni governanti locali si resero conto che forse, e dico forse, questi Uomini Bianchi in Cachi non avevano a cuore gli interessi della loro comunità. Ma gli Uomini Bianchi in Cachi che riuscirono a sopravvivere capirono di trovarsi di fronte a qualcosa di speciale: e lo era, visto che per secoli la popolazione nativa si era adoperata per renderlo tale. Imperterriti, continuarono a cercare e a esplorare, senza l’aiuto di scomode banalità quali le regole o le bussole morali.
Tuttavia, delusi come un adolescente quando scopre che la sua band preferita è diventata di tendenza, questi viaggiatori si resero conto in fretta che la loro «scoperta» non era esclusivamente loro. Non si preoccupavano tanto dei nativi – madri, padri, bambini, medici, insegnanti, poeti – che abitavano le terre che stavano attraversando per la prima volta, con i loro stivali a gamba larga e una sudata nostalgia per i grandi esploratori del passato. Quello che li spaventava era che anche le nazioni europee rivali stavano fiutando il terreno e cercavano di ritagliarsi grandi porzioni di impero. Gli esploratori temevano che ben presto tutto sarebbe stato oggetto di contesa. E così i rivali provenienti da ogni angolo dell’Europa occidentale – nomi «gloriosi» che ancora oggi si insegnano a scuola, come Livingstone e Stanley – iniziarono una gara, poi chiamata Corsa all’Africa, per accaparrarsi quanto più potevano di un continente che apparteneva ad altri.
Era una corsa competitiva, e coinvolgeva diverse delle nazioni più importanti all’epoca della costruzione degli imperi. Si minacciava un rovinoso conflitto internazionale. Non con le comunità del continente africano – con le loro sconvenienti speranze, i loro sogni e i loro stessi corpi – ma tra le nazioni occidentali che volevano una fetta della torta.
Nel tentativo di evitare una guerra tra loro su chi dovesse muovere guerra all’Africa, i potenti colonialisti decisero di incontrarsi e di discutere i dettagli, per arrivare a un’intesa su come condurre al meglio il loro assedio. Così gli Uomini Bianchi in Cachi si riunirono alla Conferenza di Berlino nel nevoso pomeriggio del 15 novembre 1884, e si sedettero sotto una grande mappa.
Il disegno sovrastava un tavolo a ferro di cavallo in Wilhelmstrasse 77, residenza ufficiale del cancelliere tedesco, Otto von Bismarck. Gli uomini lì riuniti non sapevano bene cosa stavano guardando; non comprendevano appieno le complessità all’interno della mappa; la loro conoscenza si limitava all’interesse – fino ad allora l’unico – per il trasporto degli schiavi dalla costa. Guardando al futuro, era la promessa delle numerose risorse naturali dell’Africa a rendere l’espropriazione del suo destino una prospettiva così allettante. Alcuni di loro si riferivano all’Africa come il Continente Nero, riconoscendo che, per loro, quella regione del mondo era sconosciuta. Tuttavia, la consapevolezza di quanto poco sapevano non li scoraggiò. Non era per saziare la loro fame di conoscenza che erano venuti a Berlino.
Gli uomini nella stanza rappresentavano gli interessi di quattordici nazioni: Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Danimarca, Spagna, Italia, Belgio, Austria-Ungheria, Russia, Svezia-Norvegia, Impero Ottomano, Stati Uniti e Germania. Erano lì su invito di Bismarck; il cancelliere temeva che la corsa al continente lasciasse indietro la Germania. Doveva rallentare le cose e garantire al suo paese un’equa partecipazione al bottino.
Nei tre mesi successivi lavorarono per trovare un accordo su come suddividersi il continente africano senza farsi la guerra. Per farlo dovevano capire cosa apparteneva a chi. Dovevano stabilire se bastava dire che volevano una certa area, o se occorreva trovarsi vicino a una regione per reclamarla; se dovevano piantare una bandiera fisica, o uccidere ogni gruppo etnico dissidente che si mettesse sulla loro strada, prima di considerarla veramente loro.
Questo modo di procedere non andava bene a tutti, alcuni preferivano un approccio più rilassato alla conquista delle popolazioni indigene. Ma una cosa su cui la maggioranza concordava era il proprio diritto naturale di esplorare la regione e prendere quello che volevano. O, come disse elegantemente l’illustre accademico John Westlake:
La penetrazione della razza bianca non può essere fermata dove ci sono terre da coltivare, minerali da estrarre, commerci da sviluppare, sport da praticare, curiosità da soddisfare. Se un fanatico ammiratore della vita selvaggia sostenesse che i bianchi devono essere tenuti fuori, giungerebbe alla stessa conclusione per un’altra via, giacché per tenerli fuori sarebbe necessario un governo locale. Di conseguenza, il diritto internazionale deve trattare i nativi come non civilizzati. Esso regolamenta, per il reciproco vantaggio degli stati civilizzati, le istanze di questi ultimi per la sovranità sulla regione e lascia il trattamento dei nativi alla coscienza dello stato a cui viene assegnata la sovranità.
Per dirla in parole semplici: se foste persone civilizzate come noi, sareste in grado di proteggervi dall’arrivo improvviso di un esercito invasore che volesse governarvi e reclamare tutto ciò che possedete. È questa la vera misura della cultura di un popolo.
Quando Bismarck si alzò in piedi di fronte a quella mappa – erano circa le due del pomeriggio, il primo giorno della conferenza – l’80 per cento dell’Africa era ancora libero (trent’anni dopo, il 90 per cento sarebbe stato controllato dall’Europa).
Prima di allora il continente era stato composto da vasti e antichi regni, da piccole comunità nomadi e da tutto quello che esisteva in mezzo. Gli europei ritenevano che l’interno dell’Africa fosse in gran parte da evitare. Se non ti uccideva il clima, quasi certamente ci avrebbero pensato la malaria e altre malattie tropicali. Era una regione dove fermarsi giusto il tempo di raccogliere forti uomini neri e trasportarli nelle piantagioni di schiavi in cambio di zucchero o di qualsiasi altra cosa si potesse scambiare con la vita di una persona. Ma nella seconda metà del XIX secolo la medicina si era evoluta abbastanza per togliere all’Africa quella sua maggiore difesa contro quel genere di aggressioni.
Bismarck iniziò il suo discorso di benvenuto ricordando a tutti che erano persone perbene. Persone perbene con nobili obiettivi. Ribadì la convinzione che sarebbero stati i nativi africani non civilizzati e la loro terra non civilizzata a trarre i maggiori benefici dalle tre C che Livingstone aveva precedentemente indicato e che la conferenza intendeva portare: commercio, cristianesimo e civiltà. Aprendo il vasto continente alla colonizzazione avrebbero aiutato i nativi a diventare più saggi e a migliorarsi.
Furono tutti d’accordo.
Sin dal primo momento la conferenza finse di preoccuparsi dello sviluppo economico della regione per il bene dei suoi abitanti. Naturalmente, ogni beneficio per le nazioni occidentali che avessero collaborato sarebbe stato semplicemente un fortunato effetto secondario. Un successo che si garantivano a vicenda, mentre a vicenda si accordavano per la distruzione di qualcun altro.
Sulla conferenza aleggiava la scomoda domanda se tutto questo fosse legale, in base al ben consolidato diritto internazionale. Bismarck annunciò che non si sarebbero impantanati in discussioni sul problema legale della sovranità, o sul diritto dei delegati lì convenuti di rivendicare delle terre abitate. La conferenza si sarebbe invece concentrata sulla definizione di linee guida che avrebbero regolato il comportamento di ciascuno quando si fosse trattato di scegliere quali parti migliori dell’Africa volevano per i rispettivi imperi. Bismarck definì quindi gli obiettivi, che erano:
Stabilire le condizioni più favorevoli allo sviluppo del commercio e della civiltà in alcune regioni dell’Africa, e assicurare a tutte le nazioni i vantaggi della libera navigazione sui due principali fiumi dell’Africa che sfociano nell’Oceano Atlantico [il Congo e il Niger] … per evitare incomprensioni e controversie che potrebbero sorgere in futuro da nuove occupazioni lungo le coste dell’Africa … [e per favorire] il benessere morale e materiale delle popolazioni autoctone.
È importante, a questo punto, notare una piccola contraddizione negli obiettivi dichiarati da Bismarck, quella piccola seccatura che screziava questo disegno. Alla fine della conferenza i quattordici partecipanti volevano per il continente un futuro che permettesse a nazioni lontane e straniere di sfruttare liberamente dalle risorse più redditizie dell’Africa, il tutto garantendo però la felicità delle popolazioni locali grazie allo sviluppo delle loro menti sottosviluppate mediante una copia della Bibbia, un sorriso e delle armi. Era un obiettivo impegnativo, soprattutto se si considera che alla Conferenza di Berlino non era stata invitata nemmeno una persona del continente in questione.
Se i rappresentanti africani fossero stati invitati, forse avrebbero sollevato delle obiezioni. O, almeno avrebbero fatto notare che tracciare linee rette a caso su una mappa inaccurata poteva portare, sul lungo periodo, a frizioni interne che inevitabilmente avrebbero richiesto generazioni e generazioni e generazioni per districarsi da quelle radici maledette. Forse i rappresentanti africani avrebbero scelto di indicare sulla mappa quali comunità parlavano le stesse lingue e adoravano le stesse divinità. Qualche pensiero si sarebbe potuto dedicare al pericolo di far passare un confine attraverso regni e culture antiche e orgogliose, e a come costringere gruppi etnici diversi a vivere sotto un’unica bandiera potesse rendere complicato governare queste nazioni inventate di sana pianta. Forse si sarebbe potuto discutere su cosa significasse mondo civilizzato o non civilizzato, selvaggio o colto, sviluppato e non sviluppato.
Forse.
Ma non avvenne. E per scelta, non perché non avessero trovato nessuno desideroso di intervenire negli accordi sul futuro del proprio continente. Il Sultano di Zanzibar aveva esplicitamente chiesto di partecipare ma non fu invitato.
I diplomatici presenti alla conferenza furono felici di evitare la discussione sulle implicazioni morali della spartizione della terra e delle proprietà altrui. Fatta eccezione, si scoprì, per il rappresentante degli Stati Uniti, che voleva capire se in futuro sarebbe stato necessario «il consenso volontario degli abitanti del territorio di cui ci si impadronisce, nei casi in cui non avessero provocato l’aggressione». Voleva saperlo perché «il diritto internazionale moderno riconosce il diritto delle tribù autoctone a disporre liberamente di se stesse e del proprio territorio». Quello che stavano facendo era illegale, e tutti lo sapevano. Per quanto cercassero di mascherarlo da tentativo umanitario o cristiano di liberare gli indigeni africani dalla loro presunta arretratezza, si trattava, già per gli standard di allora – e di oggi –, di un atto apertamente illegale e contrario a ogni etica. Lo sapevano, quando respinsero la domanda dell’americano e gli ricordarono che la conferenza non intendeva discutere di sovranità. Ammettere il vero scopo di quella riunione avrebbe rovinato un’ottima occasione per dividere e conquistare letteralmente un intero continente, distribuendosi le carte come se fossero a un tavolo da gioco.
Tuttavia era chiaro che dovevano trovare un modo per parlare di sovranità e di bandiere senza parlare esplicitamente di sovranità e di bandiere. Quindi elaborarono i concetti più effimeri di «presenza» e «controllo». Quanto bastava a garantire che, in seguito, sarebbero stati in grado di risolvere eventuali malintesi in modo amichevole.
Da lì arrivarono al punto più importante dell’ordine del giorno: la definizione delle regole di base per la spartizione e la suddivisione. Naturalmente non si poteva permettere che quattordici nazioni irrompessero per accaparrarsi quello che volevano.
Sarebbe stato gretto e incivile, e alla fine si accordarono sul «principio dell’occupazione effettiva»: espressione volutamente ampia, che si poteva stiracchiare fino a includere ogni sorta di significati e di intenzioni. Sostanzialmente stabiliva una sorta di autorizzazione per i paesi ad appropriarsi di grandi porzioni di terra. In base a tale principio le potenze europee potevano rivendicare l’autorità su una regione per una quantità di motivi che non erano minimamente limitati dall’aver firmato un accordo con i governanti locali. Che la loro presenza fosse benvenuta o meno, non faceva alcuna differenza. Per colonizzare una zona, bisognava: 1) informare le altre potenze europee della propria rivendicazione, e 2) dimostrare che si era stabilita una qualche forma di governo, con o senza la forza.
Non si poteva semplicemente indicare un punto sulla mappa e dire che si voleva qualcosa; bisognava esplorarla e assicurarsela con tutti i mezzi necessari. I «mezzi necessari» erano spesso militari. Si poteva rivendicare l’effettiva occupazione di un’area istituendo una forza di polizia o militare, che fosse in grado di mantenere la pace (anche se la definizione di «pace» era chiaramente piuttosto fluida). Da quel momento, un’altra potenza europea non poteva arrivare e rubare quello che avevate rubato voi.
A grandi linee le cose stavano così. Mantenere le regole volutamente generiche significava che i paesi non dovevano impegnarsi molto in territori il cui valore a lungo termine era incerto.
Conclusi i negoziati, la conferenza finì il 26 febbraio 1885. Rispettando l’impegno di evitare qualsiasi discussione sulla sovranità, il gruppo non tracciò confini fisici sulla gigantesca mappa e non distribuì porzioni di destino in quel momento preciso. Decise di occuparsi dei dettagli in seguito. Tuttavia, quel che fece fu altrettanto decisivo. Elaborò l’Atto Generale della Conferenza di Berlino: un documento che sanciva la fine del diritto dell’Africa all’autodeterminazione e accelerava la corsa a divorare il continente fino a spolparlo. Il documento non fu forse l’innesco della Corsa, ma diede il via all’occupazione totale.
Eppure già allora, alla fine del XIX secolo, i leader mondiali erano sensibili all’opinione pubblica. L’Atto Generale, quindi, fingendo una preoccupazione umanitaria, prometteva vagamente che gli europei si sarebbero impegnati per porre fine alla tratta degli schiavi. Naturalmente non erano vincolati in alcun modo a quella promessa e chiunque prestasse attenzione si rendeva conto che era una farsa. Nessuno in Africa fu tratto in inganno e le reazioni alla conferenza non furono positive, per dire il meno: «Il mondo forse non aveva mai assistito a una rapina su così vasta scala» fu il verdetto del Lagos Observer: «Il possesso illegittimo della nostra terra ha preso il posto del possesso illegittimo della nostra persona». Un giornale della Costa d’Oro (l’odierno Ghana) rivisitò un inno popolare: «Avanti soldati cristiani verso le terre pagane / Libri di preghiera in tasca, fucili in mano / Portate la lieta novella dove si può commerciare / Diffondete il pacifico vangelo con i cannoni Gatling».
E in un articolo dell’Atlantic Monthly del maggio 1915, il leggendario attivista per i diritti civili e scrittore americano W.E.B. Du Bois avrebbe scritto:
Prima che la Conferenza di Berlino si concludesse, era stata annessa alla Germania un’area grande più della metà dell’Impero tedesco in Europa. Questa palese rapina della terra a sette milioni di nativi fu solo più drammaticamente sbrigativa dei metodi con cui la Gran Bretagna e la Francia ottennero sei milioni e mezzo di chilometri quadrati ciascuna, il Portogallo un milione e duecentomila, e l’Italia e la Spagna aree più piccole ma sostanziali.
I metodi con cui questo continente è stato depredato sono stati spregevoli e disonesti oltre ogni dire. Accordi truffaldini, fiumi di rum, omicidi, assassinii, mutilazioni, stupri e torture hanno segnato l’avanzata di inglesi, tedeschi, francesi e belgi nel continente nero. L’unico modo in cui il mondo ha potuto sopportare questa orribile storia è stato tapparsi deliberatamente le orecchie e parlare d’altro mentre proseguivano queste nefandezze.
Giunto il momento di firmare e ratificare l’Atto Generale, gli Stati Uniti furono l’unico paese che rinunciò. Tutti gli altri accettarono le regole vaghe e difficilmente applicabili scaturite da tre mesi di contrattazioni. Adesso l’Africa si poteva ufficialmente conquistare: era nero su bianco.
I propositi di colonizzazione del continente erano cominciati ben prima che qualcuno si sedesse intorno a quel tavolo o appendesse quella mappa su un muro a Berlino. Ma lì alla conferenza quasi tutte le nazioni europee cospirarono per entrare in un mondo che non era il loro, per aprire una porta che non avevano costruito, per piantare bandiere su un suolo che bruciava i loro piedi, e per mantenere una pace disturbata dalla loro presenza. La direzione espansionistica in cui si muoveva l’Europa era chiara.
Alcuni storici hanno sostenuto che, poiché la Conferenza di Berlino non distribuì effettivamente le terre come se fosse una lotteria, il suo impatto fu limitato. Ma come scrive il giornalista Patrick Gathara: «Fece qualcosa di molto peggio… con conseguenze che avrebbero avuto ripercussioni per anni e si sarebbero fatte sentire fino a oggi… contribuendo a legittimare l’idea dell’Africa come un parco giochi per stranieri, della sua ricchezza mineraria come risorsa non per gli africani ma per il mondo esterno, e del suo destino come una questione da non lasciare agli africani».
Che il destino dell’Africa non fosse lasciato agli africani è stata la strategia adottata dall’Occidente per quasi tutti i 137 anni trascorsi da allora. È il modo in cui si gestiscono i trattati moderni e si spartisce la beneficenza. È l’atteggiamento che si manifesta quando i governi, essi stessi in difficoltà con la democrazia, rilasciano dichiarazioni paternalistiche su come dovrebbero rispettarla i paesi africani. Questa mentalità ha ridotto i complessi ecosistemi di un continente che copre più di 17 milioni di chilometri quadrati e ospita centinaia di milioni di persone a spazi vuoti su un atlante, spazi che hanno potuto essere rivendicati arrivando e avvisando gli amici della propria presenza, e dichiarando l’autorità sui corpi e sulle tradizioni di tutti coloro che erano lì da generazioni. Ma l’Africa è di più, è sempre stata di più. La Conferenza di Berlino non se ne accorse, perché lasciò che una grande mappa inaccurata incombesse su tutte le sue decisioni. Si concentrò su quello che l’Africa poteva essere per l’Europa.
E quello che poteva essere per l’Europa si è rivelato essere molto. Per l’Africa, invece, era tutto.