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  • Giovedì 13 giugno 2024

I bollini della frutta hanno il loro perché

Nascono come strumento di marketing, e anche se non ci facciamo quasi mai caso per qualcuno sono «piccoli capolavori di grafica»

Kiwi con bollini che li classificano come biologici fotografati in un supermercato tedesco nel 2011
(Miguel Villagran/ Getty Images)
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Per molte persone sbucciare un frutto comincia dal gesto più o meno automatico di togliere il bollino sulla sua buccia, che spesso poi finisce appiccicato da qualche parte oppure addosso a qualcuno. Oggi quasi non ci facciamo più caso, eppure una volta queste piccole etichette colorate erano importanti strumenti di marketing. Pur non avendo alcun valore intrinseco, i bollini della frutta hanno tutta una nicchia di appassionati e collezionisti: per Kelly Angood, che ci ha dedicato una pagina Instagram con 56mila follower, sono «piccoli capolavori di grafica nascosti in bella vista».

Secondo un libro scritto dal designer inglese Maurice Rickards e da Michael Twyman, professore emerito del dipartimento di Tipografia e Comunicazione grafica dell’Università di Reading, in Inghilterra, i bollini sulla frutta furono introdotti per la prima volta nel gennaio del 1929 dalla Fyffes, la prima grande azienda a importare banane e altri frutti esotici in Europa, fondata a Londra nel 1888. I primi misuravano circa 2 centimetri per 3 e riportavano quasi solo il nome dell’azienda; poi si fecero via via più piccoli e cominciarono a includere anche l’indicazione della provenienza della frutta, per esempio Giamaica o Belize.

Rickards e Twyman spiegano che i bollini si mettevano su frutti di cui di norma non si mangia la buccia, come appunto banane, arance, limoni, meloni o manghi, e venivano incollati quando erano ancora umidi dopo il lavaggio. In seguito furono messi anche su altri frutti, come mele e pere: il primo a metterli sulle mele sarebbe stato l’imprenditore statunitense Tom Mathison, che sui bollini volle il nome della sua azienda (la Stemilt Growers) e il disegno di una coccinella, per indicarne la produzione con agricoltura biologica.

L’idea dei bollini è comunque un’evoluzione delle etichette che già a fine Ottocento venivano messe sulle cassette della frutta, e soprattutto dei tipici fogli di carta sottile usati comunemente per avvolgere le arance in Spagna.

Mele jazz della Nuova Zelanda

Mele Jazz della Nuova Zelanda (Kaly99, CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons)

Etichette, carta e bollini servivano per capire facilmente da dove arrivava la frutta e chi l’aveva prodotta, ma anche per convincere le persone ad acquistarla, ha spiegato il designer spagnolo Leandro Lattes, che nel 2022 ha curato una mostra sul tema a Madrid. Già al tempo gli imprenditori si erano resi conto che associare un nome o un logo a prodotti sfusi come la frutta avrebbe permesso di vendere di più: così per pubblicizzare arance, banane e via dicendo cominciarono a chiamare degli artisti che ne facessero le illustrazioni.

In Spagna la consuetudine delle etichette sulla frutta si diffuse tra gli anni Venti e Trenta, un periodo di enorme crescita nelle esportazioni delle arance di Valencia, e poi si consolidò soprattutto dagli anni Cinquanta, ha detto Lattes. Per i piccoli produttori, spesso imprese a conduzione familiare, indicare le arance con grafiche d’impatto e nomi come “Infinita” o “La Soculente” (la succulenta) era un modo per distinguersi.

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Dopo la Seconda guerra mondiale i bollini divennero autoadesivi e i loro disegni via via più sofisticati, con caratteri e disegni accattivanti, colori più sgargianti e forme disparate, come a foglia o a cuore. Dagli anni Novanta hanno cominciato a dare informazioni ancora più precise sui prodotti su cui vengono appiccicati, grazie a minuscoli codici a barre o grazie al cosiddetto codice PLU (price look-up): una combinazione di numeri che in paesi come il Regno Unito permette di identificare frutta e verdura in maniera univoca.

Un PLU da quattro cifre indica prodotti coltivati con metodi tradizionali, che comprendono l’uso di fertilizzanti e pesticidi: il 4128 per esempio indica le mele Pink Lady, mentre il 4031 le Fuji, anche se la stessa varietà poi può avere codici diversi a seconda del peso, della colorazione e di altri criteri. I codici di cinque cifre che cominciano con un 9 invece indicano frutta da agricoltura biologica, mentre quelli che cominciano con un 8 prodotti geneticamente modificati.

I bollini insomma contribuiscono a certificare l’origine e la qualità della frutta, soprattutto dove i controlli sono più stringenti. È anche per questo che alcuni di quelli più fantasiosi e bizzarri arrivano da paesi che non hanno tutte queste regole, dice Angood, che ha raccontato di aver cominciato a collezionarli negli anni Novanta un po’ per caso, e poi ha deciso di catalogarli anche sul profilo Instagram fruit_stickers.

Per quanto oggetti minuscoli e di valore minimo, c’è chi per la loro varietà e fantasia li ritiene piccole opere d’arte, e in quanto tali li cerca e colleziona avidamente. Secondo il Guinness dei primati la collezione più grande di bollini di frutta sarebbe quella di Antoine Secco, un uomo francese che tra il 1993 e il 2004 ne collezionò più di 34.500. Lo spagnolo Miguel Sánchez Canovellas invece dice di avere 55mila etichette di frutta, tra cui 17mila di agrumi, quasi 13mila di meloni, 8mila di mele e pere, e 5mila di banane. Alla mostra di Lattes a Madrid c’erano 250 fogli per avvolgere la frutta, più di 100 cassette e 350 bollini di oltre 300 marchi spagnoli.

La collezione di Angoon invece ha ispirato anche capi di abbigliamento, tra cui una giacca da quasi 3mila euro di Off-White, l’azienda di lusso fondata dal designer Virgil Abloh, e dei jeans del marchio australiano Gorman.

Banane con un bollino con la faccia del politico laburista David Miliband distribuite durante un evento dei Conservatori a Birmingham, il 29 settembre del 2008

Banane con bollini che prendono in giro il politico laburista David Miliband distribuite durante un evento dei Conservatori a Birmingham, il 29 settembre del 2008 (Christopher Furlong/ Getty Images)

Sarebbe molto complicato verificare se la frutta con i bollini venda di più o di meno rispetto a quella senza, ma alla fine secondo Lattes un qualche tipo di ritorno deve esserci, visto che le aziende si prendono ancora la briga di spendere soldi per farli disegnare, stampare e appiccicare.

La gran parte dei bollini autoadesivi è fatta di materiali plastici e perciò dev’essere smaltita separatamente dalle bucce. Nel tentativo di ridurre l’inquinamento e incoraggiare alternative più sostenibili in questi anni paesi come la Francia e la Nuova Zelanda li hanno vietati, promuovendo invece quelli compostabili, che hanno cominciato a vedersi anche in Italia. Tendenzialmente non contengono sostanze nocive per la salute umana, se ingerite in quantità limitate. A ogni modo esistono anche aziende che anziché apporre i bollini etichettano i propri prodotti con un laser, come per esempio fa da tempo la mantovana Lorenzini Naturamica con i suoi meloni e le sue angurie.

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