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  • Mercoledì 22 maggio 2024

Per diventare uno stato, devi farti riconoscere

Come la Palestina, da poco riconosciuta da Spagna, Irlanda e Norvegia: è un processo stranamente discrezionale, ma fondamentale per ottenere legittimità e diritti

Una manifestazione filopalestinese a Valencia, in Spagna, nel febbraio 2024
Una manifestazione filopalestinese a Valencia, in Spagna, nel febbraio 2024 (Jorge Gil/Contacto via ZUMA Press)
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Mercoledì i governi di Spagna, Irlanda e Norvegia hanno annunciato l’intenzione di riconoscere formalmente lo stato di Palestina: si aggiungono così a circa due terzi dei paesi del mondo che già riconoscono lo stato palestinese, di cui nove paesi membri dell’Unione Europea.

Quando uno stato riconosce un altro significa che ne accetta l’esistenza, e lo dimostra di solito inviando una rappresentanza diplomatica nel paese riconosciuto. Di solito questo procedimento avviene per stati nati da poco, come per esempio il Sud Sudan, nato nel 2011 dalla secessione dal Sudan e tuttora membro più recente delle Nazioni Unite. Per la Palestina la situazione è tuttavia particolarmente complessa: il suo governo è diviso e il suo territorio è parzialmente occupato da Israele, che ne contesta la legittimità e i confini. Questo significa che il riconoscimento della Palestina da parte di un altro stato ha un valore e dinamiche particolari.

Come uno stato diventa uno stato
Benché possa sembrare controintuitivo per persone che abitano in stati che esistono da secoli, i modi in cui si creano e si riconoscono stati nuovi è piuttosto discrezionale, e dipende dalle condizioni politiche, dal periodo storico e dai rapporti con gli altri paesi. Semplificando molto, uno stato per diventare tale deve seguire tre passaggi.

Uno: dichiarare la propria intenzione di diventare uno stato. Anche in questo caso, benché sembri controintuitivo, uno stato deve anzitutto dichiarare che esiste, e che rispetta alcuni requisiti minimi per essere riconosciuto come tale. Questi requisiti sono contenuti nella Convenzione di Montevideo, un trattato internazionale firmato nel 1933 tra alcuni paesi del continente americano, che è poi stato informalmente accettato da gran parte dei paesi del mondo, che ne seguono i princìpi senza esserne firmatari.

Secondo la Convenzione di Montevideo, per poter essere ritenuto tale uno stato deve avere almeno: una popolazione permanente, un territorio definito, un governo e la capacità di intrattenere relazioni con gli altri stati. Sono requisiti minimi, che però sono spesso considerati dagli altri stati come necessari per il riconoscimento.

Da questo punto di vista, la Palestina non rispetterebbe i criteri: non ha un governo unitario, i suoi territori sono in buona parte occupati da Israele, e i suoi confini sono contestati a livello internazionale. Nonostante questo, i due terzi dei paesi del mondo riconoscono comunque la Palestina, principalmente per ragioni simboliche: perché nonostante le complicazioni riconoscono il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Allo stesso tempo ci sono diversi paesi del mondo, riconosciuti come stati legittimi, che hanno confini contestati, parti di territorio occupate e più governi.

Gli Stati del mondo che riconoscono la Palestina. In verde chiaro ci sono Irlanda, Norvegia e Spagna

Gli stati del mondo che riconoscono la Palestina. In verde chiaro ci sono Irlanda, Norvegia e Spagna (Wikimedia)

Due: ottenere il riconoscimento da altri stati. Questo è il passaggio fondamentale, che mostra bene la natura discrezionale di questi processi: è praticamente impossibile per uno stato esistere normalmente senza essere riconosciuto dal resto della comunità internazionale. Il riconoscimento di un altro stato è una decisione che ciascun paese prende in autonomia – come si è visto in questi giorni con la Palestina – e utilizzando criteri propri e non regolamentati. Di solito il riconoscimento di un nuovo stato dipende dalle decisioni dei governi: negli Stati Uniti, per esempio, la decisione di riconoscere un nuovo stato spetta al presidente.

Nella pratica il riconoscimento di uno stato da parte di un altro, in tempi moderni, avviene con metodi piuttosto banali: per esempio quando nel 2011 il Sud Sudan divenne indipendente, gli Stati Uniti lo riconobbero tramite un comunicato stampa del presidente, l’India con una lettera tra i due governi, l’Unione Europea con una dichiarazione congiunta dei suoi stati membri.

Quando uno stato ne riconosce un altro, di solito avviene uno scambio di rappresentanze diplomatiche: significa che i due stati installano le rispettive ambasciate o consolati e si scambiano rappresentanti diplomatici. Si sviluppa anche una rete di rapporti che permette per esempio il riconoscimento dei visti, i viaggi tra i due paesi e così via. Gli stati che non sono riconosciuti a livello internazionale, o che sono riconosciuti soltanto da alcuni paesi, spesso subiscono grosse limitazioni, per esempio nei viaggi dei loro cittadini e nei commerci.

Anche in questo caso, per la Palestina le cose sono particolarmente complicate, perché i suoi due territori principali, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sono governati da due entità differenti, rispettivamente l’Autorità palestinese e Hamas. Delle due, l’entità che gode della legittimità a livello internazionale è l’Autorità palestinese, ed è con l’Autorità palestinese che gli altri paesi intrattengono i propri rapporti diplomatici. Significa che i paesi che riconoscono la Palestina di fatto riconoscono l’Autorità palestinese come legittima rappresentante di tutto il popolo palestinese. Per questo, le ambasciate straniere nello stato di Palestina si trovano generalmente a Ramallah, la principale città della Cisgiordania dove ha sede il governo dell’Autorità palestinese, che a sua volta nomina i propri ambasciatori all’estero.

In teoria soltanto i paesi che si riconoscono l’un l’altro possono avere relazioni diplomatiche, ma ci sono eccezioni ed espedienti. Per esempio: l’Italia non riconosce lo stato palestinese, ma ha comunque un ufficio consolare a Gerusalemme che «cura le relazioni che il Governo italiano intrattiene con le autorità palestinesi». Questo consolato non è un’ambasciata ufficiale, ma di fatto ne svolge i compiti. Anche gli Stati Uniti, che non riconoscono la Palestina, hanno un “ufficio per gli Affari palestinesi”, che si trova all’interno dell’ambasciata in Israele ma che per le questioni più importanti riferisce direttamente al dipartimento di Stato, a Washington. Espedienti simili esistono anche per altri paesi il cui status è contestato.

Il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas parla all'Assemblea generale dell'ONU nel maggio 2024

Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas parla all’Assemblea generale dell’ONU nel maggio 2024 (AP Photo/Julia Nikhinson, File)

Tre: entrare nelle organizzazioni internazionali. L’ultimo grosso passaggio per uno stato che vuole avere la necessaria legittimità è ottenere l’ingresso nelle principali organizzazioni internazionali, a partire dall’ONU. Per entrare nell’ONU, uno stato deve presentare una dichiarazione formale, che è prima valutata dal Consiglio di Sicurezza, dove i paesi membri permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) hanno diritto di veto. Se il paese riceve la raccomandazione del Consiglio di Sicurezza, la sua richiesta di ammissione viene sottoposta al voto dell’Assemblea generale, dove deve ricevere il sostegno di almeno i due terzi dei paesi membri.

L’Autorità palestinese ha cercato a lungo di diventare paese membro dell’ONU, ma non c’è finora riuscita principalmente perché gli Stati Uniti, alleati di Israele, avrebbero messo il veto. Ha ottenuto però livelli di riconoscimento minori: dal 2012 è paese osservatore non membro, che può partecipare all’Assemblea generale ma non ha i diritti dei paesi membri. Nel corso degli anni, grazie a varie iniziative dei paesi amici, ha acquisito prerogative sempre maggiori ma non è ancora riuscita a diventare membro a pieno titolo.

Ha poi notevole importanza anche l’ingresso nelle altre grandi organizzazioni internazionali. Alcune, come l’Organizzazione mondiale della sanità, hanno un impatto molto concreto sulla vita dei paesi: lo dimostra per esempio il caso di Taiwan, che non facendo parte dell’OMS durante la pandemia da coronavirus faticò moltissimo a ottenere i vaccini.