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  • Giovedì 9 maggio 2024

L’ultimo bel giorno di internet

Il giorno di "quel" vestito: una delle molte storie raccontate nel libro di Ben Smith – "Traffic" – su come sono cambiate internet e l'informazione online

Il vestito esposto in una mostra a Norimberga (Ansa/Epa/Daniel Karmann)
Il vestito esposto in una mostra a Norimberga (Ansa/Epa/Daniel Karmann)
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Chi nel 2015 aveva accesso a internet e frequentava i social probabilmente si ricorderà di aver risposto alla domanda: «di che colore vedi questo vestito?», in qualche post su Facebook o su qualche sito. Il vestito in questione poteva sembrare di due combinazioni di colore diverse: blu e nero o bianco e oro, e questo generò un caos decisamente inaspettato e discussioni piuttosto animate sui social, tra amici e nelle famiglie di tutto il mondo. A pubblicare per la prima volta la foto di quello che poi sarebbe diventato “IL vestito” fu BuzzFeed, che raggiunse una viralità senza precedenti e mai replicata, cambiando anche il modo in cui Facebook, e i social che sono venuti dopo, avrebbero iniziato a proporre i contenuti agli utenti.

La storia del vestito, assieme a molte altre legate a come sono cambiate le nostre vite digitali, è raccontata nel libro Traffic, disponibile in libreria dall’8 maggio, scritto da Ben Smith, il più importante e considerato “media reporter” statunitense, e pubblicato da Altrecose (il marchio editoriale del Post e di Iperborea dedicato alla nonfiction). Da un anno Smith dirige il sito Semafor che ha fondato raccogliendo grandi investimenti; prima ha avuto una rubrica fissa sul New York Times, è stato direttore di BuzzFeed News e ha partecipato all’ascesa del sito Politico. Il 10 maggio presenterà Traffic al Salone del Libro di Torino assieme al vicedirettore del Post Francesco Costa.

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Era il 26 febbraio 2015: «Il più grande giorno di internet», lo definì Charlie Warzel di BuzzFeed; e forse anche l’ultimo bel giorno, qualcuno potrebbe dire oggi. La giornata si aprì con un delirio su scala nazionale per due lama fuggiti da una casa di riposo in Arizona che imperversarono per quasi tre ore lungo le strade di Sun City, inseguiti da malcapitati umani e catturando l’interesse di milioni di persone. Poi, verso la fine della giornata lavorativa, nei nostri uffici sopra il grande magazzino, Cates Holderness ricevette un messaggio: «BuzzFeed, aiuto».

Cates era una della vecchia guardia, assunta nel lontano 2011, quando l’azienda reclutava ancora persone che amavano internet e che non si sentivano parte del mondo dei media. Cates, infatti, aveva lavorato in una pensione per cani e gatti con servizio di toelettatura in North Carolina, dove leggeva Peggy e Matt su BuzzFeed e condivideva i loro articoli più interessanti sulla sua pagina Facebook.

Quel pomeriggio una cantante folk scozzese di nome Caitlin McNeill aveva inviato un messaggio sull’account Tumblr di BuzzFeed, gestito da Cates, con una richiesta urgente a proposito di una cerimonia nuziale dove aveva suonato con la sua band. «Ho postato una foto di questo vestito», scriveva a proposito della fotografia di scarsa qualità e con poca luce scattata dalla madre di un amico. «Alcune persone lo vedono blu e altre bianco, vi preghiamo di spiegarci com’è possibile, perché qui stiamo letteralmente IMPAZZENDO». Cates osservò la fotografia, dove si vedeva un vestito chiaramente blu e nero, e pensò che l’e-mail fosse strana, incomprensibile; in ogni caso decise di chiedere un parere alle persone sedute accanto a lei. Una rispose «blu e nero», una «bianco e oro» e a quel punto iniziarono a urlarsi contro, ciascuna convinta che l’altra fosse pazza. Nel giro di poco, dietro la sua scrivania si erano assiepate venti persone che discutevano allibite sull’argomento. Così Cates postò l’immagine su BuzzFeed, con il titolo «Di che colore è questo vestito?», e uscì dall’ufficio. Pochi minuti dopo, quando il suo treno riemerse dal tunnel sotto l’East River, aveva il telefono intasato di notifiche. Provò ad aprirle ma si impallò. Lo riavviò e si impallò di nuovo. Si precipitò a casa di un’amica per capire cosa stesse succedendo. In quel momento io stavo leggendo una favola a mio figlio, ma non appena mi resi conto della situazione misi giù il libro e cominciai ad assegnare altri articoli a tutto spiano, per intercettare quella che – ne ero certo – sarebbe stata una marea di traffico generata dal post di Cates; difatti, alla fine registrò più di trentasette milioni di visualizzazioni. Uno dei nostri giornalisti chiamò McNeill nel cuore della notte in Scozia, e ne venne fuori che «Il vestito è blu e nero, dice la ragazza che l’ha visto di persona». Sempre in piena notte, il nostro redattore scientifico contattò gli esperti per sfornare un altro pezzo: «Perché la gente vede colori diversi in quel dannato vestito?».

Quello che stava accadendo, come si scoprì, era l’ultimo, il più grande e totalmente innocuo momento della cultura globale di internet. Il Vestito era divisivo, nel senso più letterale del termine: divideva (secondo un sondaggio di BuzzFeed con quasi quattro milioni di voti) i due terzi delle persone che lo vedevano bianco e oro dal restante terzo che lo vedeva blu e nero. Dopo il dibattito scoppiato l’anno prima su chi fosse destinato a trasferirsi nel Wyoming, gli sviluppatori di Facebook avevano perfezionato le metodologie di misurazione dell’engagement. E il Vestito era universale, un oggetto mediatico che per attecchire e proliferare non richiedeva nemmeno l’alfabetizzazione. Non si propagava come la maggior parte dei meme lungo una curva virale ascendente, passando di mano in mano, ma piuttosto per via algoritmica, in quanto Facebook mostrava il Vestito agli utenti i cui amici non l’avevano ancora condiviso, nella fiduciosa convinzione che l’avrebbero trovato altrettanto coinvolgente. Nel giro di un paio d’ore il nostro traffico arrivò a registrare settecentomila persone collegate contemporaneamente, sette volte i picchi abituali. I nostri sviluppatori si affannarono ad aggiungere server al back-end di BuzzFeed; erano numeri mai raggiunti né in passato né in seguito da un nostro post. Un paio d’ore dopo a Giacarta, dall’altra parte del globo, Scott Lamb, il capo di Cates, stava tenendo un discorso nella sessione mattutina di una conferenza sui media: tutte le domande che gli vennero rivolte riguardavano il Vestito.

Fu un trionfo assoluto per BuzzFeed e per Jonah, il tipo di contenuto social che aveva sperato ci definisse. Io brindai con dello champagne alla salute di Cates, rossa per l’imbarazzo in mezzo all’ufficio. Jonah se ne vantò con gli inserzionisti. Che colpo, e anche che bella cosa. Forse è così che sarà il mondo in futuro: persone di ogni nazione e di ogni cultura che parlano della stessa cosa divertente nello stesso momento, unite da Facebook e BuzzFeed.

Jonah si rese conto di aver frainteso il punto di vista di Facebook quando Chris Cox lo presentò a Adam Mosseri a una festa nel grande giardino pensile del complesso di Menlo Park progettato da Frank O. Gehry. Mosseri, un dirigente di Facebook alto e insolitamente aperto, era il responsabile del News Feed. Le sue decisioni potevano cambiare le sorti degli editori. «Secondo te, con quale frequenza potrebbe verificarsi un fenomeno virale come il Vestito?» chiese Mosseri. Jonah rimase sorpreso dalla domanda, e anche dall’idea che il suo team fosse interessato alla frequenza con cui una cosa può diventare virale. Quella conversazione gli chiarì che Facebook aveva una preoccupazione per loro inedita: perdere il controllo. Per Facebook il Vestito non era stato un trionfo un po’ buffo, ma una specie di bug, qualcosa che li spaventava. Il Vestito in sé era innocuo, ma il prossimo meme che avesse colonizzato l’intera piattaforma nel giro di pochi minuti poteva non esserlo; e il Vestito si era propagato troppo rapidamente perché il team di Menlo Park potesse tenerlo sotto controllo.

Molti dei critici di Facebook accolsero con favore questa sua presa di coscienza: segnò l’inizio di un decennio in cui Facebook avrebbe cominciato a rendersi conto del proprio potere e a cercare di controllarlo, anche se gli sforzi dell’azienda sembravano sempre troppo timidi e troppo tardivi. Jonah la vedeva diversamente. Credeva ancora che la conversazione globale avesse il potere di far emergere gli istinti migliori delle persone: scherzare in modo innocente, fare iniziative benefiche e vantarsene. Quelli che consideravano la viralità un pericolo, amava sostenere, erano i leader del Partito comunista cinese, che avevano scoperto di poter arrestare lo sviluppo di un movimento sociale senza bisogno di spazzarlo via del tutto: bastava cancellare parte dei suoi contenuti, il minimo indispensabile per evitare che andasse fuori controllo. Nel tono preoccupato di Mosseri Jonah aveva colto la stessa minaccia di censura. E vide più chiaramente di tanti altri che l’alternativa a un internet virale e libero non era per forza il ritorno al pacifico mondo dei vecchi media, ma un algoritmo in grado di suggerire i contenuti ai singoli individui in base a linee guida più ristrette. La soluzione escogitata da Facebook non fu quella di abbandonare i suoi algoritmi, che erano in grado di prevedere ciò che ci sarebbe piaciuto e di mostrarcelo: fu quella di restringere l’ambito in cui tali algoritmi operavano. Da quel momento in poi, Facebook avrebbe migliorato la sua capacità di mantenere le persone nelle loro corsie e nelle loro bolle. Se noi di BuzzFeed avevamo visto nel Vestito l’inizio di un nuovo tipo di cultura globale, in realtà non fu mai più possibile che un fenomeno simile si ripetesse.

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