Un tempo si beveva l’oro per non invecchiare

Era un'abitudine diffusa soprattutto nella noblità francese del Cinquecento sulla base di credenze antiche, e almeno in un caso fu letale

Dettaglio di un ritratto di Diana di Poitiers dipinto attorno al 1590
Dettaglio di un ritratto di Diana di Poitiers dipinto attorno al 1590 (Wikimedia Commons)
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L’oro colloidale, una miscela che contiene piccole particelle d’oro, è stato usato nella medicina per l’artrite reumatoide, mentre quello trattato tramite calcinazione, che prevede cioè di riscaldarlo, è ancora impiegato nella medicina tradizionale ayurvedica in India. L’uso dell’oro a scopo medicinale è diffuso fin dall’antichità: probabilmente perché non si corrodeva e quindi gli venivano attribuite delle proprietà particolari o comunque veniva associato all’idea di longevità.

Alcuni però erano convinti di poter appiattire le rughe e contrastare i segni dell’invecchiamento anche bevendolo, sciolto o con l’acqua, in particolare tra i nobili della Francia del Cinquecento. Ovviamente le cose non funzionavano proprio così, e almeno in un caso il suo consumo eccessivo fu anche letale.

Prima dell’arrivo della medicina moderna si faceva un po’ di tutto per cercare di alleviare i dolori e di non invecchiare, compreso produrre soluzioni e medicamenti di dubbia efficacia, fatti anche con vermi, tele di ragno e stricnina, un composto altamente tossico che oggi è usato per i pesticidi contro i topi. Come ricorda Atlas Obscura, nel primo secolo dopo Cristo Plinio il Vecchio scriveva che l’oro era impiegato per curare ulcere e ferite, mentre già nell’antico Egitto l’abitudine di berlo con l’acqua era considerato un rimedio contro l’invecchiamento. Anche per l’alchimista cinese Wei Boyang, che visse tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo, aveva qualità «immortali» e chi lo beveva avrebbe potuto ottenere la «longevità».

Le cose cambiarono nell’ottavo secolo, quando l’alchimista arabo Jabir inventò la cosiddetta acqua regia, una soluzione in grado di sciogliere l’oro. Secondo Lydia Kang e Nate Pedersen, che hanno scritto un libro sui modi più bizzarri per curare disturbi e malattie nella storia, questo fece aumentare la curiosità nei confronti dell’oro “da bere”. L’“oro potabile”, o Aurum potabile, sembrava poter essere una cura un po’ per tutto, dall’epilessia ai problemi di salute mentale, ma diventò una specie di moda soprattutto nel Rinascimento per i suoi presunti effetti sull’invecchiamento.

Il caso più noto in questo senso fu quello della nobildonna francese Diane de Poitiers. Vissuta tra il 1500 e il 1566, studiò musica e lingue straniere, fu molto influente nella vita artistica del tempo e soprattutto fu a lungo l’amante di re Enrico II di Valois, di quasi vent’anni più giovane di lei. Nonostante questo, secondo le testimonianze che ci sono arrivate fin qui aveva un aspetto molto giovane, quasi come quello di lui: non solo perché cavalcava e nuotava spesso vicino al castello di Anet, a ovest di Parigi, dove viveva, ma anche perché si diceva che bevesse tutti i giorni acqua e oro.

Quando la incontrò sei mesi prima della sua morte, il cronista Pierre de Bourdeilles, detto Brantôme, scrisse di non sapere molto «dell’oro potabile e delle altre medicine» che prendeva quotidianamente, ma a suo dire aiutavano «il suo bell’aspetto» e in particolare la sua carnagione pallida. Sempre Brantôme scrisse che «non sarebbe invecchiata neanche se fosse vissuta altri cent’anni, da quanto soda era la sua faccia». La soluzione che beveva tutti i giorni fu probabilmente anche quello che la uccise.

Si ritiene che la tomba di de Poitiers, che morì a 66 anni ad Anet, fosse stata distrutta durante la Rivoluzione Francese, e i suoi resti vennero ritrovati solo durante gli scavi di una fossa comune pochi anni fa: alcuni scienziati furono in grado di stabilirlo grazie al confronto della sua mandibola con alcuni ritratti e soprattutto con alcuni capelli che lei stessa aveva fatto conservare. I risultati delle analisi sui suoi capelli svolte nel 2008 e pubblicate l’anno successivo sul British Medical Journal evidenziarono che con ogni probabilità de Poitiers morì a causa di un’intossicazione cronica legata proprio all’abitudine di bere oro. Nei suoi resti infatti furono trovate quantità di oro 500 volte superiori al livello di tolleranza degli esseri umani. Furono trovate anche tracce di mercurio, un altro ingrediente delle pozioni che si diceva bevesse.

Quei livelli di consumo di oro «possono sbiancare la pelle a causa dell’anemia e indebolire capelli, ossa e denti», disse al Telegraph nel 2009 Philippe Charlier, uno degli scienziati che avevano esaminato i suoi resti, e «i suoi capelli erano molto più fini della norma, che è un effetto secondario dell’intossicazione cronica da oro». Nonostante fosse stata l’amante del re e avesse una certa rilevanza anche a livello politico, de Poitiers non fu mai regina e non indossò mai una corona: per questo gli scienziati hanno escluso una possibile contaminazione da parte di eventuali gioielli sui capelli e sul suo corpo.

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