Confine con vista sulle “scam cities”

«Mentre prepara un’insalata di foglie di tè, Wei racconta che alla fine è stata fortunata. Ha sfiorato la schiavitù che costringe ogni giorno migliaia di persone – soprattutto birmani e cinesi – a lavorare nelle cosiddette "scam cities", le città della truffa di cui il Myanmar è costellato lungo i confini con Cina e Thailandia e da dove si cercano di contattare giocatori d’azzardo in tutto il mondo, giovani cinesi, anziani europei, donne sole americane, millennial thailandesi. Si comincia con un messaggio WhatsApp, uno è arrivato sul cellulare italiano anche a me»

Vista sulla città di Shwe Kokko dal confine thailandese (foto Emanuele Giordana)
Vista sulla città di Shwe Kokko dal confine thailandese (foto Emanuele Giordana)

«È stato un mio parente a darmi la dritta quando, qualche anno fa, cercavo lavoro». Wei (è un nome di fantasia) è birmana, ha meno di 30 anni e sa bene l’inglese. Prima lavorava nel turismo, ma si stima che in Myanmar, dopo il golpe e il covid, nei settori che lavorano con l’estero si sia perso un milione e mezzo di posti di lavoro. Wei ha accettato un salto nel buio: andare in una città di cui non fa il nome a fare non si sa bene cosa ma con un buon salario. «Quando sono arrivata là mi hanno infilata in un compound dove dovevo passare ore al telefono. Il lavoro era pesante ma quel che mi pesava di più era che non ci lasciavano uscire. Nel compound c’era tutto: ristoranti, parrucchiere, negozi ma era vietato avere contatti con chi stava fuori. Ho resistito per un po’, poi ho scongiurato il mio parente di farmi tornare a casa. E alla fine mi hanno liberato».

Wei lo racconta mentre prepara un’insalata di foglie di tè, una specialità birmana diffusa e succulenta. Sa che alla fine è stata fortunata. Ha sfiorato la schiavitù che costringe ogni giorno migliaia di persone – soprattutto birmani e cinesi – a lavorare nelle cosiddette scam cities, le città della truffa di cui il Myanmar è costellato lungo i confini con Cina e Thailandia, da dove si cerca di contattare giocatori d’azzardo in tutto il mondo, giovani cinesi, anziani europei, donne sole americane, millennial thailandesi. Si comincia con un sms o un messaggio WhatsApp, uno è arrivato anche a me sul cellulare italiano. Nell’ovale del profilo c’era una ragazza asiatica dai capelli fluenti: «Hallo!» Il prefisso era +95, quello del Myanmar.

– Leggi anche: In Myanmar si aspetta il 1° febbraio

Sono partito da Bangkok ai primi di marzo per Mae Sot, provincia di Tak, Thailandia occidentale, con l’idea di fermarmi un po’. C’ero già stato l’anno scorso. È una città che a seconda delle fonti varia dai 50mila abitanti a 120.000 residenti, cui si aggiungerebbero almeno altri 100mila birmani, tra rifugiati, clandestini, stagionali. Vengono da oltre confine e quando gli va bene lavorano nelle decine di fabbrichette tessili della zona o come manodopera nelle campagne. Scappano dal conflitto tra giunta militare e resistenza o, se ci riescono, da una scam city. Ma scappare non è facile. I padroni hanno il tuo passaporto e il tuo telefono. Se sgarri ti pestano. E appena fuori c’è la guerra. Quello delle scam cities è un fenomeno relativamente recente di cui si è cominciato a parlare negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, il paese più popoloso, danaroso e probabilmente più ambito dagli scammisti, che parlano in inglese e contano in dollari o criptovalute. A Mae Sot c’ero andato dopo una chiacchierata a Bangkok con Jason Tower, che lavora all’United States Institute of Peace, un centro di ricerca del Congresso americano che si occupa del fenomeno da molto tempo.

È stato Jason Tower a raccontarmi che nella città di Shwe Kokko, in Myanmar, c’è una popolazione di cyber schiavi che «potrebbe contare circa tremila individui», assoldati su Instagram o alla luce del sole in qualche agenzia di Sukhumvit Road a Bangkok, ma non solo thailandesi: anche indiani, kenioti, filippini. È un mélange bizzarro tra i soldi delle Triadi, le organizzazioni criminali cinesi, le attività di riciclaggio e le strategie della politica che, nelle “città della truffa”, fanno indirettamente combaciare l’interesse nazionale con quello della mafia. Per i cinesi sono strutture che potrebbero servire alle strategie di influenza economica della Repubblica popolare all’estero. Per la mafia è un business che mescola droga, azzardo e prostituzione alle truffe online.

Palazzi di Shwe Kokko (foto di Emanuele Giordana)

Anche a Shwe Kokko ero già stato nel 2023 ed ero rimasto abbagliato da una città sfavillante oltre il confine tra Thailandia e Myanmar, appena al di là del fiume Moei, a venti minuti di motorino a nord di Mae Sot. Avevo scattato qualche foto dal posto di dogana thai dove nessuno ci aveva fatto caso. Poi avevo ripreso un traghettino che portava acqua potabile e mattoni in Myanmar dalla Thailandia. Sull’altra sponda del fiume c’erano soltanto gru, muratori, facchini e un enorme casinò circondato da un giardino curatissimo. Gli scammisti invece non si vedevano, rinchiusi nei loro compound. «In questi complessi la maggior parte delle vittime della tratta – ha scritto il South China Morning Post – non ha idea di essere in Myanmar finché non è troppo tardi. Grey, un giovane filippino, ha capito di non essere in Thailandia solo quando ha visto la bandiera birmana».

Per ritornarci all’inizio di marzo sono partito da Mae Sot. Con la moto ho fatto su e giù per la frontiera alla ricerca delle quindici aree indicate da Jason Tower nella zona di quaranta chilometri quadrati che circonda Myawaddy, città birmana divisa dalla thailandese Mae Sot da un ponte dove si affollano frontalieri e contrabbandieri. I militari thai chiudono un occhio. Le quindici città in realtà sono zone al di là del fiume Moei – che in questa stagione puoi anche attraversare a piedi – dove ampi sbancamenti annunciano nuove costruzioni. Decine e decine di luoghi che promettono espansione edilizia. Ma le città vere e proprie sono soltanto tre: Park KK a sud di Myawaddy; Family Park ai confini meridionali della città; e poco più a nord c’è un’altra area in costruzione che potrebbe essere Gate 25.

Dal confine thailandese decine di ripetitori telefonici puntano sul Myanmar, perché è la Thailandia a fornire elettricità e rete, così come mattoni e cemento. Nel 2020 il governo di Aung San Suu Kyi aveva tentato un’inutile bonifica, ma con il golpe militare del 2021 le attività nelle scam cities sono riprese alla grande grazie alla rete e alla luce thailandesi. Ma Bangkok, se vuole, può chiudere il rubinetto. In questo momento deve aver abbassato la leva del contatore perché i lavori mi sembrano fermi o fortemente rallentati.

Proseguo per Shwe Kokko, una ventina di chilometri a nord, e il colpo d’occhio è impressionante. Ai confini di un paese disastrato dalla guerra e ai bordi di una campagna miserabile, sorge una città a perdita d’occhio con grattacieli e luminarie che ricordano Hong Kong e Singapore. In un anno la città ne ha fatta di strada. C’è uno schermo gigante che la sera proietta un enorme acquario di pesci virtuali. Ci sono centinaia di alloggi, decine di palazzi per uffici in vetrocemento, casinò affacciati sul fiume. Il posto è talmente eclatante che un giovane imprenditore thai ha aperto un bar sul confine con vista sulla scam city. Si chiama, non a caso “Chaina View”. Con un errore ortografico pacchiano, come la piccola muraglia cinese che sta costruendo da cui si vede il tramonto al di là del fiume.

Tramonto su Shwe Kokko (foto di Emanuele Giordana)

Shwe Kokko nasce nel 2015 come investimento della Yatai International Holdings Group di Hong Kong, in partnership con Chit Linn Myaing & Industry Co. Ltd, una società birmana, anzi karen, cioè della popolazione che abita questa zona del Myanmar ed è in guerra con la giunta militare. Fino a qualche settimana fa il confine era controllato da un gruppo rinnegato di miliziani karen alleati coi golpisti: le Bgf, Border Guard Forces, brigate di frontiera fedeli al regime. Il loro capo si chiama Saw Min Min Oo e, come altri graduati delle Bgf, è tra i proprietari della Chit Linn Myaing.

Shwe Kokko è la punta di un iceberg di una forza lavoro che, secondo un documento delle Nazioni Unite, conterebbe circa 120mila schiavi nel solo Myanmar. Segue la Cambogia con almeno 100mila. Poi c’è il Laos. È un esercito specializzato in furti e truffe telematiche, un business stimato globalmente nel 2021 dall’Onu nell’equivalente di 7,8 miliardi di dollari in criptovalute rubate. La ricerca How Do Crypto Flows Finance Slavery? The Economics of Pig Butchering di John M. Griffin e Kevin Mei dell’Università di Austin nel Texas, uscita a febbraio, ha fatto lievitare la cifra ad «almeno 75,3 miliardi di dollari in conti di deposito sospetti». Griffin e Mei sostengono che gli affari si fanno soprattutto in Myanmar e Cambogia, e spiegano che le truffe si reggono sulla schiavitù degli scammisti. Ma nelle scam cities il commercio tradizionale resiste: metanfetamina, specie protette, prostituzione, gioco d’azzardo tradizionale e soprattutto via web, vietato in tutto il mondo. Cinesi e thai sono in presenza: gli basta attraversare un confine. Per tutti gli altri, online.

«Cosa fanno a Shwe Kokko? Non lo so», dice il proprietario servendo da bere. Giovani coppie vengono a godersi lo spettacolo di una città oscura che brilla come un diamante, ma di cui non parla nessuno. Quello che succede a Shwe Kokko e nelle altre scam cities è un segreto di Pulcinella, l’anno scorso in agosto in Cina è uscito persino un film: No more bets di Shen Ao. In Cina è stato un successo al botteghino da 500 milioni di dollari in due mesi, mentre in Myanmar e Cambogia, dov’è presumibilmente ambientato, è stato messo al bando. Nello stato immaginario e senza nome del sudest asiatico dove il film si svolge si intravedono scritte in khmer. Due mesi prima che No more bets uscisse, la Thailandia aveva tagliato la luce nelle città della truffa, mentre in luglio l’ambasciatore cinese a Yangon aveva rilasciato una dichiarazione pubblica sulla «lotta ai crimini e alle frodi telematiche interne al Myanmar nelle aree di confine».

Da qualche tempo i cinesi hanno costretto la giunta del Myanmar a fare un po’ di arresti nel nord del paese. Pechino ha anche ordinato, non è chiaro se ai golpisti, alle Bgf o a tutti e due, di liberare un migliaio di cinesi dal sito Park KK, dove in effetti al momento della mia visita le attività sembravano ferme. A fine febbraio sono stati rimpatriati in sordina anche 900 cinesi dall’aeroporto di Mae Sot, ma un video amatoriale ha rivelato la storia che è finita sui giornali. Lungo la frontiera la polizia thai sembra avere un atteggiamento più minaccioso. A gennaio secondo Radio Free Asia le Bgf – con una scelta che non pare casuale dopo il cambio di politica di Pechino – hanno rotto i rapporti con la giunta e si sono dichiarate neutrali. Ma è diffusa l’idea che si siano schierate con la resistenza karen. «Non ufficialmente ma in segreto», mi spiega un giovane karen che lavora in Thailandia, convinto che sia in corso una battaglia per la conquista della capitale del Myanmar da parte della guerriglia anti golpista. A sud e a nord della capitale si sentono i boati dei bombardamenti, ma a Shwe Kokko tutto sembra tranquillo, di notte le finestre illuminate sono poche.

Emanuele Giordana
Emanuele Giordana

È un giornalista e saggista italiano cofondatore di Lettera22 e direttore editoriale del portale atlanteguerre.it. Insegna alla Scuola di giornalismo della Fondazione Basso di Roma. Segue il sudest asiatico da diversi anni. Il suo ultimo libro, La sfida indonesiana (con G. Corradi), è uscito nel 2023.

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