L’inflazione in Giappone ha poco a che fare con quella degli altri paesi

Ha caratteristiche e cause diverse, per questo la banca centrale del paese ha deciso solo ora il primo aumento dei tassi di interesse dal 2007

Foto di un banchetto di generi alimentari in un mercato di Tokyo, in Giappone
(Carl Court/Getty Images)
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La decisione storica della banca centrale giapponese di aumentare i tassi di interesse per la prima volta dal 2007 è stata motivata dalla necessità di contenere l’inflazione, cioè l’aumento generalizzato dei prezzi che aveva già interessato le economie occidentali ma che finora in Giappone non era stato ritenuto così preoccupante da giustificare un intervento. Il paese era rimasto l’unico tra le economie avanzate a non aver ancora aumentato i tassi, lo strumento che le banche centrali usano per tenere sotto controllo la crescita dei prezzi: semplificando, si aumentano quando si vuole abbassare l’inflazione e si riducono quando si vuole invece stimolare l’economia e i prezzi.

Per certi versi il Giappone rimane ancora un caso singolare e la sua inflazione ha caratteristiche e ragioni diverse rispetto a quella che c’è stata negli ultimi due anni in Occidente, che è stata guidata soprattutto dall’aumento dei prezzi dell’energia e da alcune conseguenze della pandemia da coronavirus, tra cui la crisi dei commerci internazionali e il rincaro delle materie prime: fattori che avevano portato i consumatori a chiedere più di quanto il sistema potesse produrre e di conseguenza le economie a crescere troppo in troppo poco tempo.

Al contrario, l’economia del Giappone ha continuato ad avere una crescita bassissima (e anzi ora è in recessione), ha avuto decenni di stagnazione e deflazione (il contrario dell’inflazione, ossia una riduzione dei prezzi, che è una condizione di preoccupante debolezza dell’economia) e quindi non si sono innescati quei meccanismi che avevano invece portato l’inflazione in tutto l’Occidente.

Ma negli ultimi due anni si sono sviluppati due fenomeni che hanno riguardato solo l’economia giapponese e che hanno portato anche lì un aumento dei prezzi, anche se più lento e contenuto.

Il primo deriva dalla debolezza della valuta locale, lo yen, rispetto alle altre monete internazionali, che ha reso molto più care di un tempo le importazioni di merce straniera: per esempio per comprare beni in dollari o in euro servono più yen rispetto al passato. Di conseguenza è salito il valore delle importazioni e poi il costo generale della vita. Le importazioni erano poi già diventate a loro volta più care, per effetto dell’inflazione nei paesi di provenienza delle merci.

La seconda tendenza ha a che fare con un recente aumento generale degli stipendi, che in Giappone (come in Italia) erano fermi da decenni: nel 2022 erano in media superiori solo dello 0,2 per cento al livello del 2000. Per quest’anno i sindacati principali stanno negoziando un aumento medio del 4 per cento, che sarebbe il più alto dal 1992 e che segue quello del 3,6 per cento del 2023. Questi rialzi sono motivati dalla generale crescita del costo della vita, ma anche dal fatto che in Giappone c’è un problema strutturale di carenza di lavoratori, che diventa progressivamente sempre più grave a causa di un generale invecchiamento della popolazione: le aziende sono dunque disposte ad aumentare gli stipendi pur di assumere i lavoratori che fanno fatica a trovare.

Sono due fenomeni peculiari e un po’ scollegati rispetto a quanto avvenuto nel resto del mondo, indicativi dell’eccezionalità del caso giapponese. Proprio per questo, finora la banca centrale non era mai intervenuta sui tassi di interesse, tenendoli bassissimi.

I rincari delle importazioni avevano iniziato a produrre effetti sul costo generale della vita già da metà del 2022, mentre gli aumenti degli stipendi sono arrivati con un po’ di ritardo. L’effetto delle importazioni non giustificava l’intervento della banca centrale, perché considerato transitorio, ma le conseguenze sui prezzi degli aumenti generali delle retribuzioni sono più permanenti e strutturali, e dunque hanno portato all’innalzamento dei tassi. A questo si aggiunge un atteggiamento storicamente molto conservatore della banca centrale giapponese, spesso criticata per la lentezza con cui interviene.

Questo primo aumento dei tassi di interesse è stato deciso comunque in un momento in cui il picco è già passato: è stato toccato a gennaio del 2023, quando i prezzi erano risultati più alti del 4,6 per cento rispetto all’anno prima. Gli ultimi dati hanno mostrato che a gennaio scorso l’inflazione era meno della metà di allora, al 2,2 per cento.

Sono cifre molto più basse rispetto agli aumenti dei prezzi che ci sono stati in Occidente: negli Stati Uniti al suo picco l’inflazione era arrivata al 9,2 per cento a giugno del 2022, mentre nell’Eurozona al 10,6 a ottobre dello stesso anno.

Tutto ciò mette in prospettiva anche l’entità dell’aumento deciso dalla banca centrale giapponese, che, seppur storico e simbolico, è comunque di 0,1 punti percentuali: sono passati da un intervallo compreso tra -0,1 e 0 per cento a uno compreso tra lo 0 e lo 0,1 per cento. Nei momenti di massima urgenza la Banca Centrale Europea ha alzato i tassi anche di 0,75 punti percentuali e la banca centrale statunitense, la Federal Reserve, di 0,5.

I tassi giapponesi restano comunque estremamente bassi rispetto al livello delle principali economie occidentali: negli Stati Uniti sono sopra il 5 per cento, nell’Eurozona poco sotto. E questo perché mentre in questi due casi le banche centrali stanno cercando di frenare l’economia per contenere l’aumento dei prezzi, in Giappone la banca centrale sta mantenendo ancora una politica espansiva, di stimolo dell’economia, sebbene leggermente meno intensa rispetto al passato. Mantenere i tassi bassi serve, per esempio, a invogliare le persone a prendere a prestito denaro per comprare cose o investire, e creare quindi un circolo virtuoso che si ripercuote su vari settori economici.

E questo perché sebbene ci siano promettenti segnali di ripresa e di dinamismo dell’economia – come il moderato aumento dei prezzi, l’eccezionale andamento della borsa, e l’aumento degli stipendi – permangono ancora molti dei problemi che avevano portato alla quasi ventennale politica di tassi bassissimi: la crescita economica è debole da troppo tempo; la popolazione invecchia e questo comporta una strutturale e graduale riduzione della forza lavoro, che a sua volta ha avuto pessime conseguenze in termini di innovazione e produttività, tra i due elementi più importanti per garantire una crescita economica.

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