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  • Sabato 24 febbraio 2024

Lukashenko ha schiacciato la Bielorussia

Domenica ci sono state le elezioni legislative, ma senza opposizione: la repressione era aumentata dopo le proteste del 2020, così come era cresciuta la dipendenza del dittatore bielorusso da Vladimir Putin

Alexander Lukashenko nel 2020 (AP Photo/Sergei Grits)
Alexander Lukashenko nel 2020 (AP Photo/Sergei Grits)
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Domenica 25 febbraio in Bielorussia si sono tenute le elezioni parlamentari e amministrative, le prime dopo le grandi proteste popolari che nel 2020 misero in serio pericolo il regime del dittatore Alexander Lukashenko. Il risultato delle elezioni è scontato in favore di Lukashenko, che è al potere ininterrottamente dal 1994, benché sia ormai profondamente impopolare. Ma la grossa differenza rispetto agli anni scorsi è che dopo le proteste del 2020 la repressione dello stato bielorusso contro i suoi cittadini è aumentata in maniera che molti definiscono insostenibile: per evitare nuove minacce al suo potere, Lukashenko ha trasformato la Bielorussia in uno stato di polizia, dove migliaia di prigionieri politici sono in carcere e dove ogni tentativo di libera espressione viene duramente represso.

Le elezioni in Bielorussia non sono libere da tre decenni, e in diverse occasioni sono state caratterizzate da gravi brogli in favore di Lukashenko. Quest’anno, però, la repressione politica è ulteriormente aumentata: dei 15 partiti politici che esistevano fino a poco tempo fa – alcuni dei quali di opposizione e più o meno tollerati dal regime – ne sono rimasti soltanto quattro, tutti fedeli al presidente. Gli altri sono stati costretti a sciogliersi. Alle elezioni di quest’anno nessun politico di opposizione ha potuto candidarsi.

Questa violenta restrizione dei diritti politici in Bielorussia è avvenuta in reazione alle proteste del 2020 e 2021, quando Lukashenko vinse il suo sesto mandato presidenziale consecutivo in elezioni caratterizzate da brogli gravissimi, che secondo vari osservatori furono in realtà vinte da Sviatlana Tsikhanouskaya, la leader dell’opposizione.

In reazione ai brogli, centinaia di migliaia di persone protestarono per mesi chiedendo la rimozione di Lukashenko, che venne chiamato dai suoi oppositori «scarafaggio». Il potere di Lukashenko sembrò vacillare davanti alle proteste, fino all’intervento della Russia di Vladimir Putin, che inviò personale e consiglieri a sostenere Lukashenko e che lo spinse ad adottare una strategia di repressione assoluta.

La polizia aumentò il livello della violenza contro i manifestanti e arrestò decine di migliaia di persone. Le leader dell’opposizione furono arrestate o costrette a fuggire all’estero: erano tre donne, tra cui Tsikhanouskaya, che scappò in Lituania e oggi è la leader del governo bielorusso in esilio.

Le proteste contro Lukashenko il 18 ottobre del 2020

Le proteste contro Lukashenko il 18 ottobre del 2020 (AP Photo)

La repressione brutale pose fine alle proteste, ma non si fermò: nei mesi successivi Lukashenko fece arrestare più di 35 mila persone. Secondo Viasna, una ong bielorussa che si occupa di difesa dei diritti umani, nel paese ci sono attualmente 1.420 prigionieri politici in carcere, tra cui lo stesso fondatore di Viasna, Ales Bialiatski, che nel 2022 fu tra i vincitori del premio Nobel per la Pace. Alcuni degli oppositori sono stati fatti sparire, al punto che si teme per la loro vita.

Per esempio di Maria Kolesnikova, una delle tre leader dell’opposizione, arrestata nel 2020, non si hanno notizie da oltre un anno: i suoi avvocati hanno ricevuto una sua lettera per l’ultima volta il 14 febbraio del 2023, e da allora non ci sono più stati contatti. Nessuno sa dove si trovi, né quale sia il suo stato di salute. Altri dissidenti sono morti in carcere: tra questi Igor Lednik, un celebre giornalista e politico arrestato nel 2020 perché avrebbe «diffamato» Lukashenko in uno dei suoi articoli. È morto pochi giorni fa, in carcere, e le autorità non vogliono rivelare la causa del decesso.

La repressione ha coinvolto non soltanto gli attivisti politici, ma anche i loro avvocati: a più di 500 è stata tolta la licenza per esercitare la professione perché avevano difeso i dissidenti contro il regime.

Anche al di fuori della cerchia dei dissidenti politici, la repressione e la paura sono diventate parte della vita di tutti i giorni. Il minimo segnale di pubblico malcontento nei confronti del regime può creare problemi giudiziari, e moltissime persone sono state arrestate per ragioni banali come commenti sui social media o per conversazioni riservate che poi venivano denunciate da delatori. Chi si veste di rosso e bianco (che è il colore delle proteste), chi ha tatuaggi (simbolo di ribellione) e chi viene visto con il pugno alzato (un altro gesto della protesta) rischia guai con la polizia.

Secondo Igor Ilyash, un giornalista bielorusso di opposizione, il regime di Lukashenko è ormai passato da un autoritarismo che ancora consentiva alcuni limitati spazi di dissenso al totalitarismo.

Alla repressione, Lukashenko ha accompagnato altri due elementi. Anzitutto ha approfondito la relazione – economica, politica, militare – con la Russia, il suo principale alleato. Questa relazione è ormai di fatto un rapporto di dipendenza – cosa che Lukashenko notoriamente malsopporta – a cui la Bielorussia è obbligata a causa del suo isolamento nei confronti dei paesi europei e dell’Occidente.

L’economia e la stabilità del paese – e, in termini più personali, la ricchezza e la sicurezza stesse di Lukashenko – dipendono ormai da Vladimir Putin. La Bielorussia ha sostenuto l’invasione russa dell’Ucraina concedendo il proprio territorio all’esercito russo, e l’anno scorso ha perfino acconsentito a piazzare armi atomiche russe in territorio bielorusso.

In secondo luogo, Lukashenko ha adottato tutte le misure necessarie per rafforzare in ogni modo il suo potere. Di recente ha fatto approvare una legge in cui garantisce a se stesso e alla sua famiglia la completa immunità da ogni possibile inchiesta giudiziaria. In concomitanza con le elezioni di domenica, inoltre, entrerà in vigore un nuovo organo teoricamente rappresentativo, l’Assemblea popolare bielorussa. L’Assemblea sarà composta da 1.200 persone scelte tra i membri del governo, i membri del parlamento, dei governi locali e della magistratura, e in teoria dovrebbe rappresentare la società bielorussa nella sua interezza.

In realtà l’Assemblea popolare (che è un organo che già esisteva in precedenza, ma dopo le elezioni assumerà valore costituzionale) sarà usata da Lukashenko per rafforzare il proprio potere e potrebbe porsi di fatto come il principale organo rappresentativo del paese, al di sopra del parlamento. Tra le altre cose, l’Assemblea potrebbe garantire a Lukashenko il controllo della sua successione: tra i compiti che il regime le ha assegnato c’è quello di determinare la «legittimità» del presidente e delle elezioni presidenziali. E poiché Lukashenko è ovviamente a capo dell’Assemblea, questo potrebbe consentirgli di decidere chi lo sostituirà.

Negli ultimi tempi ci sono state numerose indiscrezioni sul fatto che lo stato di salute di Lukashenko sarebbe precario, e lui stesso ha parlato in più di un’occasione di una possibile successione. Alcuni analisti ritengono che stia preparando per l’incarico suo figlio Nikolai, che da tempo ormai lo accompagna in molte circostanze ufficiali e che durante la repressione delle proteste del 2020-2021 si era fatto più volte vedere a fianco del padre.

Lukashenko e suo figlio Nikolai nel 2020

Lukashenko e suo figlio Nikolai nel 2020 (EPA/SERGEY GUNEEV)