L’inflazione in Argentina e le tigri azzurre di Borges

«I prezzi cambiano tutti i giorni. È difficile dare un valore alle cose. È come se il mondo avesse rimescolato le carte senza avvisarmi: un piccolo mazzo di gelsomini costa 8.000 pesos (8 euro); fare colazione per tre giorni 12.000; un taglio di capelli da donna 4.000; farsi le unghie, smalto semipermanente, 3.500, dieci volte meno che in Italia, ma il pedaggio dall’aeroporto al centro di Buenos Aires costa 150 pesos (0,15 centesimi). Usare la carta di credito è quasi impossibile e cambiare è difficile. Per fortuna c'è Alejandro, l’arbolito privato di mia mamma, un cambiavalute che arriva a domicilio anche alle nove e mezza di sera»

Un particolare della copertina di "Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti" di Jorge Luis Borges, pubblicato nella collana La Biblioteca di Babele da Franco Maria Ricci nel 1980 “in onore di J.L. Borges nel suo 80° compleanno”
Un particolare della copertina di "Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti" di Jorge Luis Borges, pubblicato nella collana La Biblioteca di Babele da Franco Maria Ricci nel 1980 “in onore di J.L. Borges nel suo 80° compleanno”

Prima di arrivare a Buenos Aires ho scoperto di avere il bruxismo. «A Milano il bite costa minimo 500 euro», mi aveva detto un’amica dentista in palestra, tra un attrezzo e l’altro. Così ho pensato di fare come mia cugina, che ogni volta torna a casa nuova: anch’io potevo farlo in Argentina, dove quel tipo di intervento costa circa 60 euro, apparecchio compreso. Ho chiamato Felipe, il mio vecchio dentista di quando vivevo là, e lui è riuscito a organizzare tutto in due giorni.

A Buenos Aires è estate. Nella sala d’attesa l’aria condizionata toglie il respiro. La radio suona Lady, Lady, Lady di Flashdance e anche l’arredamento dello studio è rimasto agli anni Ottanta. Felipe però non è cambiato: mi trova due carie di cui ignoravo l’esistenza e così, tra quelle e il bite, i 60 euro dei sogni salgono in un attimo a 210. Il problema è che dal mio dentista, come in molti altri posti a Buenos Aires, la carta di credito non si può più usare e fare bonifici è sconsigliabile perché comportano un rincaro sostanziale. «È un cinema», dice Felipe. L’unica opzione sono i contanti. Solo che non ne ho portati abbastanza.

Sono tornata in Argentina per dieci giorni dopo due anni di assenza e, nonostante mi avessero avvisato, non avrei mai potuto immaginare in che situazione si trova. Le strade sono invase di persone che non hanno più niente e sedersi nei bar all’aperto è un tormento perché tutti vengono a chiedere soldi o a cercare di venderti qualcosa. Mia sorella ha la casa invasa di calze – chissà perché tutti vendono calze, nessuno ha saputo spiegarmelo – suo marito le ha detto che al prossimo paio divorzia. All’angolo tra Salguero e Libertador, uno degli incroci più ricchi della città, vive un’intera famiglia – tre bimbi, papà e mamma – su un materasso doppio per terra.

L’inflazione è altissima e cambia tutti i giorni. Non c’è certezza su niente ed è difficile dare un valore alle cose. Quasi impossibile pianificare. L’aumento esponenziale dei prezzi è un problema cronico dell’Argentina, è sempre esistito tranne che negli anni Novanta durante il governo di Carlos Menem, quando il valore del peso era stato agganciato a quello del dollaro, 1:1. L’inflazione, quindi, non è certo colpa di Javier Milei, il presidente ultraliberista che ha appena vinto le elezioni, ma il suo «liberi tutti» e la svalutazione della moneta nazionale del 120 per cento circa (rispetto al dollaro) sta travolgendo anche il costo dei beni primari, dal latte alla carne agli affitti, che sotto i precedenti governi erano stati sempre protetti da regolamentazione statale. Per questo mio padre dice sempre: «Il peggio per questo paese non è la vittoria di Milei, è che a Milei vada male».

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Chi va avanti e indietro da altri paesi viaggia con una borsa piena di dollari per cambiarli e poter vivere. Per questo, prima di partire dall’Italia, avevo ritirato 300 euro per le spese quotidiane. Mia madre mi aveva garantito che sarebbero bastati. Purtroppo il maledetto bancomat, non so perché, me li aveva dati solo in banconote da 10, che in Argentina nessuno cambia più. Per fortuna esiste Alejandro, l’arbolito privato di mia mamma, un cambiavalute che arriva a domicilio anche alle nove e mezza di sera. Nessuno ha mai visto Alejandro. Lo si sente solo al telefono. Manda sempre qualcuno di diverso. Uomini magri, sportivi e molto silenziosi che lasciano mazzette di pesos sulla tavola da pranzo, prendono i loro euro o i dollari, salutano e se ne vanno. Al tasso di cambio ufficiale, 1 euro equivale a circa 800 pesos ma nel mercato parallelo ne vale qualcosa in più di 1.000.

In Argentina e in altri paesi del Sud America gli arbolitos sono sempre esistiti: comprano e vendono moneta forte a un prezzo superiore a quello fissato dal governo, che negli ultimi anni aveva limitato la compravendita per evitare la fuga di capitali. La differenza è che con Milei il lavoro di Alejandro non è più illegale. Quando il suo uomo arriva, io sono sul balcone a guardare le gabbie vuote delle tigri, lì dove una volta c’era il Jardín Zoológico di Buenos Aires. Al rientro c’è un pacco di soldi sul tavolo di mia mamma, non credo ai miei occhi e invece lei non fa una piega, mi si siede accanto e dice: «Toglili da lì ché apparecchiamo». Spostando il denaro, mi sento ricca sfondata: 300 euro sono 300.000 pesos, cioè 300 banconote da mille (e qualcosa in più). A vederle e toccarle tutte insieme, confrontandole mentalmente con gli euro che erano appena state, mi pare di avere rapinato una banca.

Quando mi ripresento dal dentista con il bottino, la segretaria mi invita con un’occhiata a passare svelta in una stanzetta buia, arredata soltanto con un tavolo e una sedia stile rococò. Tiene la mascherina sulla bocca, la luce è bassa, ma vedo un timbro e una biro. Tiro fuori i mattoncini di soldi dalla borsa e incomincio a contarli, come una narcotrafficante. Ci metto un po’. La cosa più strana è che sono tanti soldi e pochi soldi allo stesso tempo. Finisco, e incomincia a contare lei. «Va bene», dice alla fine, accompagnandomi alla porta senza darmi neanche lo straccio di una ricevuta. Me ne vado a mani vuote con la borsa leggera.

Sul taxi che mi riporta da Santa Fe e Callao a República de la India e Libertador, il mio quartiere di sempre, Palermo, il tassista mi dice schifato: «Degni eredi degli italiani siamo». E mi spiega come un antropologo che se fosse prevalsa la parte spagnola della nostra “razza”, il nostro destino sarebbe stato diverso. Non è andato a votare, non ci va più da anni anche se in Argentina il voto è obbligatorio (ma la multa per saltare la tornata elettorale è di 100 pesos, 0,10 centesimi di euro…). È indignato perché in centro rimane poco e niente dei segni della tempesta che ha devastato la città qualche settimana prima, mentre bastano cinque chilometri verso la periferia, «dove non abitano i padroni del paese (e sottolinea più volte padroni), per trovare il disastro».

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Quello che mi chiedo, salutandolo, è come sia possibile che un viaggio di quindici minuti in taxi costi poco più di 1.000 pesos, cioè come un litro di latte. Anche se le tariffe dei taxi dovessero salire del 75 per cento nei prossimi giorni, come mi ha assicurato il tassista, i conti non mi tornerebbero lo stesso. Ma non mi tornano su niente. È come se il mondo che mi circonda avesse rimescolato le carte senza avvisarmi: un piccolo mazzo di gelsomini 8.000 pesos (8 euro); la spesa per fare colazione tre o quattro giorni 12.000; un taglio di capelli da donna 4.000; un caffè, tra i 1.000 e 2.000, a seconda del bar (come a Milano); la cosiddetta “medicina prepaga”, l’assicurazione sanitaria indispensabile in un paese dove la sanità pubblica è praticamente inesistente, 140.000 (fino a poco tempo fa erano 90.000 e ora, oltre all’aumento, alcune specialità si pagheranno a parte, come un ticket del ticket); quattro lezioni alla scuola di calcio per bambini 12.500 («il calcio è sempre democratico» dice mio padre); farsi le unghie alle mani, smalto semipermanente, 3.500 (l’equivalente di 3,50 euro), quando a Milano, lo stesso trattamento costa circa dieci volte tanto. Quanto guadagna la ragazza che le fa? Il pedaggio dell’autostrada dall’aeroporto al centro 150 pesos (0,15 centesimi di euro). Non c’è logica dietro i prezzi.

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Incontro per caso un’amica dell’adolescenza. È ossessionata dall’instabilità monetaria, dice che seguire la microeconomia famigliare è diventato un altro lavoro. Come tutti i dipendenti, ha un plazo fijo (cioè un conto) in pesos dove le versano lo stipendio. Ma già prima della vittoria di Milei, aveva iniziato a comperare materiali per ristrutturare i bagni di casa: «I conti devono svuotarsi prima di perdere completamente il loro valore e le opzioni sono due: prelevarli e comprare dollari oppure spenderli», mi dice. Lei ha preso la seconda strada, «fumarli». La ricordavo meno pragmatica. Quando ci vediamo, casa sua è già un cantiere.

Mia madre ha comprato due Off contro le zanzare, uno anche per me, perché, dopo l’inflazione, la cosa che più spaventa gli argentini è la dengue. Il repellente è diventato il must have nazionale, quindi in alcune farmacie manca mentre in altre costa tre volte il prezzo che ti aspetteresti, anche se già non sai più nemmeno che cosa aspettarti. I prezzi non sono mai esposti. Per nessun prodotto. Spesso i commessi devono chiedere ai titolari prima di rispondere quanto costa. Fissano il computer, si scambiano sguardi come fossero frecce. «Nella farmacia vicino a casa volevano farmi pagare 9.000 pesos per un Off, ti rendi conto?», dice mia madre indignata. Le rispondo che in un’altra farmacia ne ho appena comprato uno a poco più di 3.000. Non ho nozione di quanto valgano i soldi in questo paese e nessuno mi sta aiutando a capirlo.

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La terapia di gruppo è un metodo che esiste da sempre in Argentina. I problemi si condividono e la gente parla dei più svariati disastri con leggerezza. Una signora si lamenta con l’edicolante Fernando per i prezzi delle macchinine. Vorrebbe comprarne una per suo nipote ma 15.000 pesos le sembrano troppi. «E i vestiti per i bimbi?», la retruca Fernando. «Ha visto quanto costano? Deve andare a Once», dice parlando del quartiere dove vive, anche se la donna non gli ha chiesto niente. «Lì ho comprato camicia, pantaloncini e calze a 11.000 pesos. Incredibile, no?». Neanche Fernando è andato a votare e lo racconta con una risata. «Son una manga de ladrones», ride mentre la signora continua a fissare le macchinine.

C’è un racconto di Jorge Luis Borges che si intitola le Tigri azzurre. Narra di Alexander Craige e della sua ossessione infantile per le tigri:

«La tigre mi ha sempre attirato. Da bambino, so che indugiavo davanti a una certa gabbia del giardino zoologico: le altre non mi interessavano affatto. Giudicavo le enciclopedie e i libri di storia naturale in base alla loro rappresentazione della tigre. Quando mi furono rivelati i Jungle Books, mi spiacque apprendere che Shere Khan, la tigre, era il nemico dell’eroe».

Diventato professore scozzese di logica all’università di Lahore, oggi in Pakistan, Craige giunge in un villaggio immerso in una giungla alla Rudyard Kipling dove abita un popolo che possiede le tigres azules, dei misteriosi dischi blu, capaci di moltiplicarsi senza una causa apparente. Gli unici oggetti non numerabili dell’universo.

Contavo con gli occhi i pezzi e annotavo la cifra. Poi li dividevo in due pugni che riversavo sul tavolo. Contavo le due cifre, le annotavo e ripetevo l’operazione. Inutile fu la ricerca di un ordine, di un disegno segreto nelle rotazioni. Il massimo di pezzi che ottenni fu 419; il minimo, tre. Ci fu un momento in cui sperai, o temetti, che scomparissero. Dopo alcune prove accertai che un disco isolato dagli altri non poteva moltiplicarsi, o sparire. Naturalmente, le quattro operazioni di sommare, sottrarre, moltiplicare o dividere erano impossibili. Le pietre si sottraevano all’aritmetica e al calcolo delle probabilità. Quaranta dischi potevano, divisi, dare nove; i nove, divisi a loro volta, potevano essere trecento. Non so quanto pesassero. Non ricorsi a una bilancia, ma sono certo che il loro peso era costante e leggero. Il colore era sempre quell’azzurro. Queste operazioni mi aiutarono a salvarmi dalla follia. 

In questi dieci giorni argentini tutto mi è sembrato un disco blu – i mazzi di gelsomini, le corse in taxi, lo smalto sulle unghie, il latte, l’apparecchio per il bruxismo – e mi è parso di aver scoperto che, come in Tigri azzurre,«nell’universo c’è posto per il disordine», e che quel posto oggi è l’Argentina.

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Dolores Alvarez
Dolores Alvarez

È laureata in Scienze politiche all'Universidad de Buenos Aires e ha un Master in Relazioni internazionali all'Università di Bologna. Ha lavorato per Diario, Ansa Latina (sito dell'Ansa in spagnolo) e Pagina 12 ed è stata inviata in Italia dei quotidiani di Buenos Aires Crítica de la Argentina e Tiempo Argentino. Da quasi vent’anni vive in Italia.

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