Lo Stato e ArcelorMittal non si sono messi d’accordo sull’ex ILVA

Dovevano concordare un aumento di capitale per far proseguire le attività delle acciaierie, ma l'ultima riunione ha portato a una rottura definitiva

Una panoramica dell'ex Ilva, a Taranto
Una panoramica dell'ex Ilva, a Taranto (ANSA/UFFICIO STAMPA ILVA)
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Lunedì pomeriggio si è tenuta una riunione tra alcuni membri del governo e i rappresentanti di ArcelorMittal, una multinazionale franco-indiana che è l’azionista di maggioranza di Acciaierie d’Italia, l’impianto siderurgico di Taranto meglio conosciuto come ex ILVA. La riunione riguardava le difficoltà economiche dell’ex ILVA e la possibilità di aumentarne il capitale per far fronte a una situazione di grave crisi di liquidità dell’azienda.

L’ex ILVA è posseduta per il 68 per cento da ArcelorMittal e per il restante 32 dallo Stato tramite Invitalia, la società che si occupa proprio degli investimenti dello Stato. Era atteso che i due soci si mettessero d’accordo per ripianare la situazione, con un grosso versamento di liquidità e un aumento di capitale a cui avrebbero dovuto partecipare entrambi i soci, e lo Stato in misura maggiore: alla fine dell’operazione, lo Stato si sarebbe ritrovato ad avere una quota di maggioranza di almeno il 66 per cento dell’azienda. Tuttavia l’accordo non è stato trovato e il governo ha comunicato di aver «preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza, e ha incaricato Invitalia di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale».

Da anni l’ex ILVA è in una condizione di grave dissesto finanziario, a cui da qualche mese si è aggiunta anche una crisi di liquidità: la società non aveva più le risorse per pagare i suoi debiti, mandare avanti la produzione e fare le manutenzioni necessarie, col risultato che la maggior parte dei suoi impianti si è gradualmente fermata. Per ripristinare la produzione e mantenere i posti di lavoro servono molti soldi, soldi che secondo lo Stato italiano la società indiana ArcelorMittal non è disposta a investire, neanche in minima parte.

Secondo le stime, per ripianare la situazione di dissesto dell’ex ILVA sarebbero necessari circa 1,5 miliardi di euro. I soci si sono incontrati diverse volte a dicembre per tentare di trovare un accordo, senza riuscirci. Non è chiaro quindi come si risolverà questa grave situazione di crisi dell’azienda, soprattutto in una condizione di così ampie divergenze tra i soci. Il governo ha convocato i sindacati giovedì per discuterne.

Da qualche settimana si parlava anche della nazionalizzazione della società, una possibilità che avrebbe consentito all’ex ILVA di continuare a funzionare. Era un’operazione richiesta soprattutto dai sindacati, che chiedono anche il cambio di tutta la dirigenza, ritenuta ormai inadeguata a portare avanti l’azienda.

Attualmente la gestione di Acciaierie d’Italia è in mano a rappresentanti di ArcelorMittal, in quanto azionista di maggioranza. L’azienda aveva comprato l’ex ILVA all’asta nel 2018, prendendosi il difficile compito di risanare una società già molto compromessa da anni di indagini per danni ambientali. Il risanamento però non è mai avvenuto e alla fine del 2020 lo Stato aveva quindi deciso di intraprendere un percorso per diventarne il proprietario: benché sia in crisi da anni l’acciaieria di Taranto di proprietà dell’ex ILVA è la più grande d’Europa e considerata ancora strategica proprio per questo motivo. La sua chiusura avrebbe inoltre costi sociali ed economici altissimi, visto che impiega 10.500 dipendenti senza contare l’indotto, ossia tutte le aziende a cui vengono affidati lavori non direttamente collegati alla produzione di acciaio, come la manutenzione degli impianti.

Nel dicembre del 2020 era quindi stato approvato un accordo per rilanciare l’azienda, con cui lo Stato sarebbe arrivato a detenere il 60 per cento del capitale entro il maggio del 2022, poi il passaggio è stato rinviato di due anni. In queste settimane si era parlato della possibilità che non solo lo Stato anticipasse il momento di ottenere la maggioranza, ma che addirittura sarebbe riuscito a ottenere una quota più alta: si era parlato della possibilità che arrivasse all’85 per cento, ma in realtà durante l’incontro di lunedì ha infine proposto di arrivare al 66.

Parlando a Radio24 il giornalista Domenico Palmiotti, che ha seguito la vicenda, ha spiegato che l’operazione sarebbe avvenuta in due fasi. Con la prima lo Stato sarebbe passato dall’38 al 60 per cento e lo avrebbe fatto grazie alla conversione di un grosso prestito che lo Stato aveva elargito all’ex ILVA alla fine del 2022 per aiutarla con la liquidità (il decimo nella storia della società fatto con i soldi pubblici): era di 680 milioni ed era un prestito definito convertibile, che può essere convertito in capitale sociale da parte dello Stato. In pratica i soldi dati in prestito dallo Stato sarebbero poi diventati quote della società. Con questa operazione di fatto non ci sarebbero stata liquidità fresca per l’azienda.

La liquidità sarebbe poi arrivata con una seconda fase, ossia con un ulteriore aumento di capitale da 320 milioni di euro, di cui la parte più grande l’avrebbe messa lo Stato in quanto nuovo socio di maggioranza: con queste somme sarebbe infine arrivato ad avere il 66 per cento delle azioni. Ma ArcelorMittal ha rifiutato di mettere parte di questo prestito e non si è dichiarata disponibile a ripianare le perdite neanche come socio di minoranza. Da tempo il governo sta cercando un nuovo socio che subentri ad ArcelorMittal, che non vuole più investire in Acciaierie d’Italia, senza però riuscirci.

L’ex ILVA ha una storia molto travagliata e il suo perenne stato di crisi non la rende appetibile per gli investitori privati sul mercato. Inoltre la sua presenza a Taranto è da tempo assai contestata per l’inquinamento che produce e i rischi per la salute dei residenti: si trova molto vicina al centro abitato e i suoi metodi di produzione dell’acciaio, con grandi cumuli di scorie lasciati all’aria aperta, sono stati problematici soprattutto in passato e in parte lo sono ancora.

Per anni è stata al centro di inchieste e sequestri che hanno costretto gli impianti a caldo, cioè gli altiforni, a lavorare a regime ridotto oppure fermarsi, cosa che ha aggravato le sue condizioni finanziarie. La crisi energetica del 2022 ha poi ulteriormente peggiorato le cose perché con i rincari dell’energia far funzionare gli impianti è diventato ancora più costoso.

La crisi di liquidità è proseguita per tutto il 2023. Dalla scorsa estate l’azienda ha rallentato molto la produzione di acciaio. Su quattro altiforni, i grandi impianti usati nelle acciaierie per produrre ghisa a partire da minerali di ferro e carbone, da dicembre ce n’è attivo soltanto uno. Già da agosto però quelli funzionanti erano rimasti due. Nel 2023 l’acciaio prodotto nello stabilimento non ha raggiunto i tre milioni di tonnellate, mentre negli anni precedenti la media era stata di 7 milioni. Se per tutto il 2024 dovesse funzionare un solo altoforno, si prevede che la produzione diminuirà ancora fino a 1,7 milioni di tonnellate di acciaio, secondo i sindacati.

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