Diecimila diari in attesa di una nuova casa
Storia dell'Archivio Diaristico Nazionale, che fu creato nel 1984 in provincia di Arezzo e oggi ha bisogno di una sede più grande
di Ludovica Lugli
Diecimila diari occupano parecchio spazio. La Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, che dal 1984 raccoglie e conserva scritti autobiografici italiani a Pieve Santo Stefano, un paesino della provincia di Arezzo con meno di tremila abitanti, li custodisce in due appartamenti e un deposito. Ma dato che ogni anno ne riceve in media altri 350, progetta da tempo di spostarsi in una sede più grande. Nel 2021 è stato scelto l’edificio del paese dove si trasferirà, con l’approvazione del ministero della Cultura, ma servono ancora vari passaggi burocratici e una gara d’appalto per arrivare all’inizio dei lavori, e poi probabilmente due anni di cantiere.
Intanto l’Archivio continua a ricevere, catalogare e digitalizzare diari, lettere e memorie, cioè testi autobiografici scritti a distanza di tempo dai fatti narrati, di chiunque scelga di affidarglieli. È stato il primo ente in Europa a raccogliere documenti di questo genere, scritti da persone comuni, e da quando esiste molti studiosi lo hanno consultato per ricerche storiche e sociologiche. Ha anche ispirato vari progetti artistici, ad esempio documentari come quelli realizzati dalla Sacher Film di Nanni Moretti o romanzi come Nonostante tutte di Filippo Maria Battaglia (2022), fatto interamente di frasi e paragrafi di testi autobiografici di varie donne italiane del Novecento che accostati insieme creano la storia di un personaggio immaginario.
I diari veri e propri sono un po’ più di 2.600 e sono i testi di maggior valore storico, insieme alle lettere, perché scritti più vicini agli avvenimenti che raccontano. Il testo più antico nel catalogo è una cronaca di eventi storici e fatti locali scritta alla fine del Cinquecento da una donna veneta, Bosina da Porcia; tra i più recenti ci sono diari e una chat collettiva dei lockdown del 2020. Più di mille parlano degli anni della Seconda guerra mondiale: tra questi dal 2003 ci sono le brevi lettere che Orlando Orlandi Posti, una delle persone uccise nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, riuscì a far avere alla madre e alla ragazza di cui era innamorato dal carcere.
Sappi Marcella che ti volevo bene, ma molto bene e da molto tempo solo ho
saputo far tacere il mio cuore perché non ero degno, secondo la mia idea, fino a che non avessi avuto aperta la via di un avvenire sicuro per poter raggiungere il mio ideale, perciò cara ora che è impossibile che possa realizzare il mio sogno ho voluto confidarti il mio segreto.
La storia dell’Archivio Diaristico cominciò nei primi anni Ottanta con un’idea del giornalista Saverio Tutino, a lungo corrispondente o inviato in vari paesi del mondo per l’Unità prima e Repubblica poi, nonché autore di diari fin dalla sua esperienza come partigiano. Arrivato intorno ai sessant’anni Tutino smise di vivere all’estero per motivi di salute e cominciò a soggiornare nell’Alta Valtiberina, quella regione tra le province di Arezzo e Perugia attraversata dal corso superiore del fiume Tevere. Propose l’idea di istituire un archivio di diari ai sindaci dei paesi della zona e convinse quello di Pieve Santo Stefano, Pietro Minelli.
Contestualmente fu indetta la prima edizione di un premio legato all’Archivio, che aveva lo scopo di convincere un gran numero di persone a inviarvi diari, memorie ed epistolari e che si assegna ancora oggi, ogni anno, a settembre. Tutino lo pubblicizzò su Repubblica e Famiglia Cristiana: «Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi del Duemila. Garantito contro usi impropri, con diritto a partecipare ogni anno a un premio e al concorso per la pubblicazione, la memoria personale o l’epistolario familiare che sarà consegnato all’Archivio di Pieve Santo Stefano (AR) passerà alla storia. Sarà una delle mille pietre di una costruzione nuova per gli studiosi di domani: la banca dei diari».
Ad affidare all’Archivio i diari e gli altri scritti autobiografici possono essere gli autori stessi, oppure persone che li hanno ereditati. C’è chi decide di lasciare all’Archivio gli originali – che in alcuni casi sono decine di quaderni o agende – e chi invece acconsente all’archiviazione di una copia e conserva con sé il manoscritto.
Già nei primi anni arrivarono a Pieve documenti notevoli. Nel 1986 vinsero il Premio le lettere di una contessa milanese al suo amante scritte tra il 1872 e il 1881, e nello stesso anno l’Archivio ricevette uno dei suoi documenti più noti: l’autobiografia di Clelia Marchi, una anziana contadina della provincia di Mantova che scrisse la storia della sua vita su un lenzuolo del suo corredo. Nel 1987 il vincitore del Premio Pieve fu l’architetto Sergio Lenci per il memoriale in cui raccontò dell’attentato subito nel 1980 dai terroristi di estrema sinistra del gruppo Prima Linea: nonostante fosse stato colpito da un proiettile alla nuca sopravvisse. Nel 1990 vinsero le lettere alla famiglia che Natalia Berla scrisse da San Patrignano, la controversa comunità per persone dipendenti dall’eroina, prima di suicidarsi nel 1988.
Inizialmente Tutino non aveva pensato nello specifico a Pieve Santo Stefano come sede dell’Archivio, tuttavia chi ci lavora descrive il paese come il luogo ideale per ospitarlo. Nel 1944, lo stesso anno in cui Tutino cominciò a tenere un diario, le truppe tedesche che si stavano ritirando dall’Italia centrale minarono il paese, distruggendolo quasi interamente. Per questa ragione Pieve è una cittadina «bruttina», anche a detta di chi ci vive, rispetto alla maggior parte dei centri abitati toscani, noti per le architetture medievali e rinascimentali: fu ricostruito nel Dopoguerra, con la priorità di ridare una casa agli sfollati.
Al di là dell’aspetto estetico, la guerra privò Pieve della sua storia e oggi pare particolarmente appropriato che proprio un paese del genere sia diventato la “città del diario”, il luogo dove sono custodite le storie di tante persone.
La prima sede dell’Archivio era all’interno del palazzo comunale, uno dei pochi edifici della cittadina a non essere saltati in aria durante la Seconda guerra mondiale. Nel tempo l’istituzione ha avuto bisogno di più spazio e si è via via allargata, e oggi la sede dell’Archivio è in due appartamenti nella vicina piazza Amintore Fanfani. Invece nelle stanze che occupava nel palazzo comunale, dal 2013, c’è il Piccolo Museo del Diario. In precedenza chi visitava Pieve Santo Stefano attratto dal suo soprannome di “città del diario” poteva al massimo vedere gli scaffali con le cartelle rosse e verdi usate per conservare in modo ordinato i diari, ed eventualmente farsene mostrare e raccontare qualcuno dal personale dell’Archivio. Grazie al museo si possono fare visite più approfondite, che potranno esserlo ancora di più quando sarà trasferito, insieme all’Archivio, nella nuova sede.
Per il momento è davvero piccolo: è fatto di tre stanze espositive, una biglietteria e bookshop e una sala d’ingresso. «Continuerà a chiamarsi Piccolo Museo anche quando sarà più grande», assicura Natalia Cangi, direttrice organizzativa dell’Archivio. Dice che nel 2023 i visitatori sono stati più di 7mila, il massimo da quando esiste: quasi ogni giorno di apertura dell’anno sono state accolte delle scolaresche.
C’è un unico diario fisicamente esposto, il lenzuolo di Marchi, a cui è dedicata una delle stanze. Molti altri diari, epistolari e memoriali sono raccontati attraverso un’installazione interattiva ideata dallo studio di design di Milano Dotdotdot. Descriverla a parole è per forza di cose riduttivo, ma in breve si tratta di una parete di cassetti e sportelli: aprendoli si attivano delle registrazioni sonore di attori che leggono estratti di alcuni documenti dell’Archivio. Mentre le si ascolta si possono vedere copie di alcune pagine dei diari e fotografie dei loro autori. È un museo pensato per essere visitato insieme a una guida, che spiega la storia dell’Archivio e dei suoi diari, risponde alle domande dei visitatori e propone loro l’ascolto di una selezione dei cassetti, raccontando il contesto di ciascuno.
Oltre al lenzuolo di Marchi c’è un altro testo di memorie che ha una stanza tutta per sé all’interno del Piccolo Museo, sebbene non si trovi fisicamente lì: sono le 1.027 pagine dattiloscritte in cui Vincenzo Rabito, un siciliano semianalfabeta nato nel 1899, raccontò la propria vita tra il 1969 e il 1975. È uno dei documenti più noti e notevoli dell’Archivio di Pieve Santo Stefano, prima di tutto per la ricchezza delle storie che racconta: Rabito combatté durante la Prima guerra mondiale, fece un matrimonio di interesse, andò in Libia e in Etiopia negli anni del colonialismo fascista, dopo il 1945 fu cantoniere e cercò di migliorare le condizioni economiche sue e della sua famiglia.
È però una testimonianza particolarmente interessante anche dal punto di vista stilistico. In parte perché Rabito, che non sapeva usare bene la macchina da scrivere, lo scrisse tutto senza usare spazi e senza lasciare interlinee tra una riga e la successiva. Ma soprattutto perché sebbene non scrivesse in un italiano corretto, era un narratore molto capace, abile a costruire scene comiche, e quindi la lettura risulta anche divertente non appena ci si abitua al suo stile inconsueto.
Nel 2007 le memorie di Rabito – o meglio, questa prima parte visto che poi continuò a scrivere fino alla morte nel 1981 – furono pubblicate da Einaudi, che si limitò ad aggiungere spazi e interlinee, con il titolo Terra matta: il libro ebbe un buon successo di vendite.
Tutti i diari vincitori del Premio Pieve vengono pubblicati. Negli anni l’Archivio ha collaborato con diverse case editrici per farlo. Dal 2001 soprattutto con Terre Di Mezzo, l’editore di Milano che organizza anche la fiera sul «consumo critico e gli stili di vita sostenibili» Fa’ la cosa giusta!. Ma l’Archivio collabora anche con il Mulino, che dal 2007 nella collana “Storie italiane” pubblica testi di diari di particolare valore storico o saggi che li utilizzano come fonti.
Il lenzuolo di Marchi invece è pubblicato da Il Saggiatore – a febbraio uscirà una nuova edizione, con il titolo originale dell’autrice, l’espressione dialettale Gnanca na busia, “Neanche una bugia”– a cui l’editore Luca Formenton è particolarmente legato perché Marchi era di Poggio Rusco, lo stesso paese d’origine di suo nonno, Arnoldo Mondadori.
Esistono poi varie piattaforme online in cui si possono leggere alcune parti dei diari dell’Archivio. Una è nata da una collaborazione con l’Espresso ed è dedicata alla Prima guerra mondiale, un’altra fatta insieme al ministero degli Esteri alle migrazioni degli italiani nel resto del mondo. Dalla fine di novembre poi è online I diari di Pieve, un sito curato dall’Archivio in cui si possono leggere e ascoltare vari estratti. Non tutti i diari, sebbene digitalizzati, sono accessibili con questi strumenti perché per la stragrande maggioranza appartengono tuttora alle persone che li hanno affidati all’Archivio, che quindi ne controllano anche i diritti d’autore: per ciascun brano mostrato su internet, nel Piccolo Museo o altrove, l’Archivio chiede loro permesso. C’è anche chi ha affidato alla fondazione i propri scritti con la clausola che nessuno possa leggerli prima della propria morte o di una certa data. Qualcuno ad esempio ha specificamente imposto il 2072.
Per allora l’Archivio dei diari, la sua biblioteca e il suo museo si troveranno probabilmente nella loro prossima sede, cioè nell’ex asilo infantile di Pieve Santo Stefano, un altro dei pochi edifici storici del paese che non furono distrutti durante la Seconda guerra mondiale. Di proprietà del comune, anticamente era un convento di suore, nel Dopoguerra divenne appunto un asilo e attualmente viene usato da alcune associazioni a cui l’amministrazione concede lo spazio.
Cangi spera che per il 2026, dopo i lavori necessari, potrà ospitare i diari. «Nell’autunno del 1944 questo edificio consentì alla popolazione di Pieve di rientrare al paese», racconta, «e per questo ha un valore storico importante. Anche per via di un’altra storia, quella del fotografo dell’epoca: prima dello sfollamento aveva murato la sua macchina fotografica e le lastre delle fotografie del paese nell’asilo, che così si conservarono e preservarono la memoria di com’era il paese prima che fosse distrutto».