Le principesse della Disney sono in crisi

Gli incassi deludenti di “Wish” testimoniano il momento di difficoltà dei personaggi su cui lo studio aveva fondato il suo più recente rilancio

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L’ultimo film d’animazione della Disney, intitolato Wish, è uscito in Italia in questi giorni, mentre negli Stati Uniti la distribuzione era partita il 22 novembre: e non è andata bene. Il film in quattro settimane sembra aver esaurito il suo incasso arrivando a 50 milioni di dollari, molto meno delle attese. Per fare un paragone il grande successo Frozen II, uscendo a sua volta il 22 novembre del 2019, al suo quarto weekend aveva incassato 288 milioni di dollari, quasi sei volte tanto.

Quello di Wish è l’ultimo di una serie di insuccessi per i cartoni della Disney, che negli anni Dieci aveva recuperato la tradizione delle storie di principesse riportando un grande pubblico in sala dopo un decennio difficile, quello degli anni Zero. Tuttavia ora sembra che proprio i film di principesse siano il problema.

Sempre quest’anno la versione di La sirenetta (un’altra principessa Disney) in live action, cioè con attori e non disegnata, non era andata come sperato, incassando quasi 600 milioni di dollari in tutto il mondo a fronte di un budget di 300 milioni. Può sembrare un buon incasso, ma occorre ricordare che per ogni biglietto la metà del ricavo (circa) è trattenuta dalle sale e che oltre al costo di fare un film c’è quello di promuoverlo. Nel caso specifico, la promozione di La sirenetta costò 140 milioni di dollari. In più c’è da considerare il valore del marchio della “Sirenetta”, che si pensava avrebbe portato in sala molte più persone. Le recenti versioni in live action di cartoni degli stessi anni di La sirenetta, come Aladdin, La bella e la bestia e Il re leone, uscite tra il 2017 e il 2019, avevano incassato cifre tra il miliardo e il miliardo e mezzo di dollari.

In generale non è buon momento per la Disney, perché anche gli altri cartoni dello studio che non hanno a che vedere con le principesse sono stati delle delusioni: Strange World, quello del 2022, era andato anche peggio di Wish, e anche uno degli ultimi film Pixar, Lightyear, è andato male. Ma se è capitato spesso che i film “non di principesse” non funzionassero, che anche la parte più distintiva della produzione Disney sia in crisi è una questione più preoccupante e con ripercussioni a catena più grandi.

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In particolare l’insuccesso di Wish è molto sentito perché è il film che celebra il centenario della Disney, fondata nel 1923. Non solo racconta una storia in un’ambientazione tradizionale (un regno magico), ma coinvolge molta della mitologia Disney. L’aiutante della protagonista è il classico animale parlante e a lui si unisce la stella alla quale in numerosi film Disney i personaggi affidano i propri desideri. Nella storia una ragazza scopre che, a differenza di quanto credeva, l’adorato re del regno in cui vive non custodisce i sogni delle persone per poi realizzarli magicamente. Invece li ruba per poi esaudire unicamente i più innocui, tenendo per sempre rinchiusi e irrealizzati quelli che potrebbero minacciare il suo potere.

In uno sforzo di celebrazione di tutto il catalogo Disney, intorno a questi personaggi ci sono continui richiami a classici dello studio e anche apparizioni di personaggi noti come Peter Pan. In questo senso Wish era stato pensato per essere un trionfo e ha sancito quanto al momento esista un problema di principesse, una crisi artistica che è diventata una crisi industriale. Per effetto degli scarsi incassi di Wish ora le bambole e quindi tutto il merchandising legato al film, da sempre una parte importantissima dei proventi della società, si vende alla metà del prezzo rispetto a un mese fa.

Le “principesse Disney” sono una cosa precisa
La definizione “principessa Disney” è più complicata di quel che si possa immaginare. Non è una locuzione generica ma un marchio registrato, che identifica un novero preciso di personaggi, facendoli rientrare in una categoria di marketing. Le principesse Disney tecnicamente sono un media franchise (cioè un conglomerato di proprietà intellettuali che possono essere sfruttate su media diversi), nella pratica sono una linea di giocattoli e più in generale di merchandising, centrata su questo gruppo di personaggi o solo su alcuni di essi. Spesso sono raffigurate insieme e come tali fanno per esempio un’apparizione nel film del 2018 Ralph spacca Internet. Tutto quello che ha il marchio “principesse Disney” è quindi identificato da uno stesso stile e coinvolge solo quei personaggi.

Si diventa “principessa Disney” diverso tempo dopo l’uscita del proprio film, quindi non lo si è a priori, e non occorre davvero che il personaggio sia una principessa (la protagonista di Wish non lo è), proprio perché è una questione di marketing. Le principesse Disney ad oggi sono 13, tutte caratterizzate dall’essere umane, femmine e protagoniste del proprio film (anche se magari quel ruolo è condiviso, come avviene in Aladdin). Non devono essere comparse per la prima volta in un sequel e devono essere legate a storie di liberazione e conquista di un’autonomia (anche quando non hanno un grande ruolo in questa conquista, come avviene per Biancaneve o Cenerentola).

Soprattutto, caratteristica più importante di tutte, per essere una principessa Disney il proprio film deve aver incassato molto. Per questo è principessa Disney anche Mulan: pur non avendo titoli nobiliari lo è per meriti commerciali. E da quando la Disney ha comprato la Pixar anche Merida, protagonista del film Brave – Ribelle, è diventata una “principessa Disney”. L’unica eccezione è quella di Elsa e Anna, le protagoniste di Frozen, che non rientrano nella categoria nonostante siano effettivamente principesse (e addirittura poi regine) nella loro storia. La potenza del marchio a cui sono legate, cioè Frozen, è tale da poter funzionare in autonomia, senza bisogno di andare sotto l’ombrello delle “principesse Disney”.

La Disney racconta storie di principesse a partire dal suo primo lungometraggio, Biancaneve e i sette nani, ma è stato negli anni Novanta che il marchio “principesse Disney” fu creato, per poi diventare ufficiale negli anni Duemila. Le storie di principesse sono andate ciclicamente in crisi, per poi ritrovare il successo a seguito di un rinnovamento. Quando negli anni Ottanta i film dello studio avevano perso molta della loro forza al box office, un mutamento drastico diede vita al periodo che poi è stato chiamato “Rinascimento Disney” lungo gli anni Novanta.

Nei film del Rinascimento si tornò a puntare su storie di principesse come La bella e la bestia, La sirenetta, Mulan, Aladdin e Pocahontas, film diversi dal passato molto più vicini al musical di Broadway nell’impianto, che raccontavano storie di ragazze che si ribellano ai genitori o all’autorità, per inseguire i loro sogni di libertà (salvo poi tornare sempre all’equilibrio iniziale, ma con una nuova consapevolezza).

Negli anni Duemila la concorrenza dell’allora emergente Pixar spinse la Disney a sperimentare altro, con scarso successo, finché una parodia non dimostrò che c’era molta richiesta per un nuovo classico. Come d’incanto, film di piccole pretese del 2007 con attori in carne e ossa (Amy Adams, James Marsden e Patrick Dempsey), raccontava della principessa di un cartone animato che finisce per errore a New York, nel mondo reale, facendo scontrare le sue idee da film d’animazione con il cinismo della realtà. Era la Disney che prendeva in giro la propria eredità culturale in una commedia autoironica: in una scena la protagonista chiamava a raccolta gli animaletti per pulire casa cantando, ma invece dei soliti uccellini arrivavano ratti, piccioni e blatte tipiche di New York ad aiutarla.

Come d’incanto fu un successo inaspettato che portò lo studio a voler provare a rinnovare le storie di principesse con Rapunzel, dopo il quale ci fu Frozen, il maggiore incasso della storia dell’animazione Disney (superato solo dal suo sequel). Erano di nuovo film di rottura rispetto al passato, in cui le protagoniste non solo sognavano un futuro migliore in autonomia (come nel Rinascimento Disney), ma in più non avevano bisogno di nessuno che le salvasse, come rende evidente il finale di Frozen. La storia è quella di due sorelle che si inseguono per tutto il film: alla fine una magia congela la protagonista che potrà essere salvata solo dal vero amore, ma il personaggio maschile che corre per salvarla non arriva in tempo. Così l’amore che compie il miracolo e basta a scaldarla è in realtà quello della sorella: le due protagoniste si salvano da sole, senza uomini.

Da quel successo in poi le principesse hanno tutte imitato Frozen e sono sempre state connotate da un’etnia precisa, calate nei corretti luoghi geografici di provenienza, messe a confronto con le proprie tradizioni. E anche i problemi di quelle protagoniste, come nei film successivi (Encanto e Oceania), erano prettamente femminili: c’è un rapporto malato con la madre al centro di Rapunzel, e quello tra sorelle unito all’imposizione di trattenere le emozioni in Frozen (il cui titolo fa proprio riferimento al raffreddamento emotivo della protagonista). La principessa di Oceania non è ritenuta all’altezza della sua avventura e in Encanto la protagonista deve gestire la diffidenza della nonna verso di lei. Già da quest’ultimo film però, complice il periodo pandemico di bassi incassi, gli introiti non erano più stati al livello sperato.

Il futuro delle principesse
Per effetto di questa crisi la futura produzione Disney è tornata a orientarsi verso sequel di proprietà intellettuali di successo, che solitamente garantiscono circa tre volte l’incasso del film originale. Lo studio non può intervenire sulle uscite dei prossimi anni, di cui al momento non si sa niente, perché quei cartoni sono già in produzione da tempo, ma ha comunque annunciato di avere in programma due sequel di Frozen (il terzo e quarto film della serie), un altro di Toy Story (il quinto della serie), uno di Zootropolis e uno con attori in carne e ossa di Oceania.

Oltre a questo però c’è la questione dello scarso successo dei film originali, e in molti si chiedono su cosa agirà la società, se sui costi o su Disney+, i due problemi che con maggiore frequenza vengono indicati. I cartoni Disney infatti costano più di quelli della concorrenza, circa il doppio. Super Mario Bros., il film animato di maggior successo della stagione, è costato circa 100 milioni di dollari; Prendi il volo, il film della Illumination in sala questo Natale, invece 75 milioni. Non è nemmeno una questione di crisi dell’animazione in generale: negli anni scorsi i successi di Minions 2, Il gatto con gli stivali 2 e Spider-Man: Across the Spider-Verse hanno confermato che la domanda di film animati esiste. Semmai è la maniera in cui questi cartoni sono realizzati, e quindi il loro costo, che non sembra più adeguato alla dimensione degli affari.

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E poi c’è il problema di Disney+, piattaforma verso la quale dopo il 2020 la società sembrava voler indirizzare tutti i suoi affari e le sue uscite maggiori (Soul, Red e Luca sono tre film animati importanti e costosi usciti direttamente sulla piattaforma). Ma questa formula si è rivelata molto meno redditizia del solito sfruttamento, quello che prevede prima un’uscita al cinema, poi il noleggio e poi la piattaforma streaming. Ad oggi quindi i cartoni Disney arrivano in streaming pochi mesi dopo essere stati al cinema, sottraendo unicità e senso dell’evento a quel momento in cui invece dovrebbe avvenire il grosso del guadagno.

Questa è la maniera industriale di guardare al problema, ma c’è anche quella creativa. Rapunzel, Frozen e Oceania sono stati dei successi che hanno raccolto anche un buon gradimento di critica e un seguito importante tra chi li ha visti. Che poi è quello che giustifica la produzione di sequel. Frozen in particolare è considerato il più rivoluzionario tra i film d’animazione di questi anni e ha guidato anche gli studi rivali verso una maggiore insistenza sul rinnovo dei personaggi femminili. A idearlo, scriverlo e co-dirigerlo fu Jennifer Lee, alla quale proprio a seguito di quell’enorme successo fu chiesto di collaborare in vesti diverse a quasi tutti i film animati dello studio, e che nel 2018 fu nominata Chief Creative Officer della Disney, cioè la persona a capo di qualsiasi cosa abbia a che fare con la parte creativa dell’animazione.

I film di minore successo economico però non sono stati al medesimo livello creativo degli altri, a detta della critica e anche del pubblico: non solo sono stati poco visti in sala, ma anche su Disney+. L’unica eccezione è stata Encanto, andato male al cinema ma poi diventato un successo da piattaforma. Ora è probabile che i sequel previsti possano riportare gli incassi sperati, ma come fa notare la newsletter di settore The Ankler la Disney oggi può permettersi di ricorrere ai sequel delle sue proprietà intellettuali maggiori perché a un certo punto ha realizzato dei film originali di successo. Se vuole continuare a sfruttare sequel, non può prescindere troppo a lungo dall’ideazione di nuovi film originali.