Cent’anni di Disney

Il 16 ottobre del 1923 fu fondato un piccolo studio di animazione che sarebbe diventato una delle più grandi multinazionali al mondo

Walt Disney durante le riprese di “Sinfonie allegre” negli anni Trenta. (Hulton Archive/Getty Images)
Walt Disney durante le riprese di “Sinfonie allegre” negli anni Trenta. (Hulton Archive/Getty Images)

Il 16 ottobre del 1923, cento anni fa, i fratelli Roy e Walt Disney fondarono lo studio di animazione Disney Brothers Studio, con l’obiettivo di creare dei cartoni animati che divertissero e meravigliassero il pubblico. Nel corso dei decenni quel piccolo studio si è ingrandito fino a diventare la Walt Disney Company, la più famosa multinazionale dell’intrattenimento al mondo, con una enorme quantità di società controllate e attività di ogni tipo.

Se l’azienda raggiunse il successo internazionale che ha avuto fu soprattutto grazie alle intuizioni e alla creatività del suo cofondatore Walt Disney, che ne fu amministratore delegato fino al 1966, l’anno della sua morte. È considerato uno dei padri dell’animazione cinematografica e, più in generale, una delle personalità artistiche più carismatiche del Ventesimo secolo. La mitologia da “self made man” incarnata da Disney viene celebrata ancora oggi, assieme ai tanti modi in cui innovò l’animazione rendendola un mezzo adatto a raccontare anche storie lunghe e complesse.

Tra le altre cose, Disney realizzò i primi lungometraggi animati in technicolor (il procedimento di cinematografia a colori più usato negli Stati Uniti), perfezionò l’utilizzo dell’audio sincronizzato e della “Multiplane Camera” (uno strumento e che rendeva possibile ottenere riprese tridimensionali utilizzando immagini in 2D) e gettò le basi per una vera e propria industria dei cartoni animati. Con l’aiuto dei suoi collaboratori creò personaggi che oggi fanno parte dell’immaginario collettivo come Mickey Mouse (Topolino), Goofy (Pippo) e Donald Duck (Paperino), ed è tuttora la persona più premiata della storia del cinema, con 26 premi Oscar su 59 candidature.

Walt Disney disegna due cerbiatti in preparazione del film “Bambi”, nel 1938. (AP Photo)

Come molti dei pionieri del periodo, Disney era perlopiù un autodidatta: la sua formazione si limitava a un corso serale di disegno che frequentò presso la Chicago Academy of Fine Arts quando aveva 16 anni. Ai tempi l’animazione era una forma d’arte poco sviluppata, utilizzata per realizzare brevi spot pubblicitari o illustrazioni umoristiche in movimento di breve durata. È probabile che Disney abbia tratto ispirazione dal lavoro di alcuni artisti statunitensi che, in quel periodo, stavano studiando dei modi innovativi per raccontare storie attraverso questo mezzo espressivo. Era ad esempio il caso dei fratelli Max e Dave Fleischer, autori di personaggi celebri come Braccio di ferro e Betty Boop. Nel 1915 i Fleischer brevettarono il rotoscopio, tecnica che cambiò il modo in cui venivano realizzati i cartoni animati e che utilizzò moltissimo lo stesso Disney. In sostanza girava delle scene vere e proprie, con la partecipazione di attori reali, per poi proiettarle su un pannello di vetro traslucido e ricalcarle, fotogramma per fotogramma, per ottenere delle figure disegnate più realistiche e dinamiche.

Walt Disney a Dublino nel 1946. (Keystone/Getty Images)

Inoltre, Disney ammise di essere stato influenzato dal libro I cartoni animati, scritto dall’illustratore statunitense Edwin George Lutz nel 1920. Era uno dei pochi saggi dedicati all’animazione reperibili al tempo, e fu un testo avveniristico: in quegli anni gli animatori lavoravano principalmente su carta, realizzando una serie di disegni, ciascuno diverso da quello precedente, eseguiti a inchiostro di china e fotografati in sequenza per creare l’illusione del movimento. Lutz descrisse invece l’utilizzo di una nuova tecnica: era basata sull’utilizzo di fogli di cellulosa trasparente, e permetteva agli animatori di risparmiare tempo e velocizzare il lavoro. In sostanza, i fogli venivano appoggiati su un tavolo, illuminati dal basso e poi impilati uno sopra l’altro. In questo modo la luce che passava consentiva all’animatore di turno di vedere i disegni precedenti della sequenza e, quindi, di disegnare le tavole successive in maniera coerente, lasciando invariate le parti che non partecipavano al movimento, come sfondi o oggetti.

Per lo sviluppo industriale dell’animazione la diffusione di questa tecnica, chiamata “cel” e conosciuta in italiano come “rodovetro”, fu una novità enorme: fu utilizzata ad esempio nel 1937 per realizzare Biancaneve e i sette nani, il primo dei “classici Disney” e il primo lungometraggio animato a colori, riconosciuto dalla critica come un capolavoro che stabilì il canone dell’animazione degli anni successivi.

Quarto di cinque figli, Walt Disney nacque il 5 dicembre del 1901 a Chicago da Elias Disney, un artigiano, e Flora Call, un’insegnante della scuola pubblica. Trascorse la sua infanzia tra l’Illinois e Kansas City, in Missouri, dove suo padre aveva acquisito una licenza per consegnare giornali porta a porta. Nell’estate del 1917 ottenne un lavoro come “news butcher” (ossia venditore di giornali, caramelle, dolciumi e bibite sui treni) per la rete ferroviaria Missouri Pacific: un’esperienza che, come raccontò lui stesso, gli fece sviluppare una certa passione per i treni, elementi che torneranno in molte delle sue opere.

Spesso quando si parla dei due fratelli Disney si tende a sottolineare come si occupassero di due aspetti differenti dell’attività aziendale: Walt si dedicava interamente al comparto creativo, mentre Roy faceva attenzione alle attività amministrative, finanziarie e contabili, aspetti su cui il fratello era carente. In effetti, nel suo libro Vita di Walt Disney, lo storico dell’animazione Michael Barrier racconta che il periodo come “news butcher” non finì benissimo, dato che Disney «si trovava in totale balìa dei suoi stessi clienti» e, a un certo punto, si trovò in debito con il suo datore di lavoro. Negli anni Roy Disney ebbe modo di sottolineare la goffaggine imprenditoriale del fratello. Ad esempio, parlando del periodo in cui lavorava come venditore ambulante sui treni, disse che «[Walt] era semplicemente incapace di fare affari. Volle fare questo lavoretto, ma non era in grado di far mente locale su tutta la merce che aveva all’inizio e alla fine della giornata, quindi andava in perdita, e alla fine chi è secondo te quello che gli pagava i debiti?».

Nel 1919, dopo una breve esperienza come volontario della Croce Rossa in Francia, iniziò a lavorare in un’agenzia pubblicitaria di Kansas City, la Pesmen-Rubin Commercial. Fu un momento decisivo per la sua carriera: strinse infatti amicizia con Ub Iwerks, destinato a diventare il suo più stretto collaboratore nonché coautore di Mickey Mouse. Tre anni dopo fondò il Laugh-O-Gram, il suo primo studio di animazione, coinvolgendo nel progetto persone che, qualche anno dopo, sarebbero diventate dei nomi importanti dell’animazione, come Hugh Harman, Friz Freleng e lo stesso Iwerks.

L’esperienza dello studio Laugh–O–Gram fu breve, soprattutto a causa dell’inesperienza e della cattiva gestione finanziaria di Disney, che contrasse debiti e dichiarò bancarotta dopo pochi mesi. Fu però un periodo di grande fermento creativo, durante il quale furono realizzati i sette cortometraggi animati muti che compongono la serie chiamata per l’appunto “Laugh-O-Grams”.

Il primo in assoluto fu Little Red Riding Hood, una rielaborazione della fiaba di Cappuccetto Rosso con vari stravolgimenti della trama originale (ad esempio, il lupo cattivo fu sostituito da un signore in abiti eleganti) e con l’inserimento espedienti narrativi originali e spiritosi, come il gatto che, nell’introduzione, si occupa di aiutare la nonna a fare i buchi nelle ciambelle sparando con un fucile.

 

Oltre ai corti della serie Laugh–O–Grams lo studio realizzò altre produzioni come Tommy Tucker’s Tooth, un corto finanziato da alcune associazioni di dentisti e dedicato all’igiene orale, e Alice’s Wonderland, episodio pilota di una serie intitolata Alice Comedies. Per realizzarlo Disney usò una tecnica mista, ibridando live action e animazione: la protagonista era un’attrice in carne ossa, Virginia Davis, che però si muoveva in un’ambientazione animata. Fu anche il primo esperimento di metanarrazione – una tecnica che consiste nell’intervento diretto dell’autore all’interno della propria opera – realizzato da Disney: il corto mette infatti in scena la visita di Alice allo studio Laugh–O–Gram e il suo incontro con gli animatori (tra cui lo stesso Disney).

Dopo il fallimento di Laugh–O–Gram Disney andò a vivere da suo fratello Roy, che nel frattempo si era trasferito a Burbank, in California. Qui fondarono il Disney Brothers Studio, antesignano dell’attuale Walt Disney Company, che come prima cosa vendette le Alice Comedies alla produttrice cinematografica Margaret J. Winkler. La serie ottenne un discreto successo e permise a Disney di assumere nuovo personale, in buona parte animatori che avevano lavorato in Laugh–O–Gram, come Iwerks.

La storia dello studio ebbe una svolta nel 1928 con la pubblicazione di Plane Crazy, il corto in cui fece la sua prima apparizione Mickey Mouse, un topo antropomorfo che negli anni successivi sarebbe diventato un’icona della cultura pop mondiale. Il film fu proiettato il 15 maggio 1928 a Hollywood, ma non suscitò particolare interesse. Le cose cambiarono pochi mesi dopo, a novembre, con l’uscita di Steamboat Willie, il corto di Topolino più celebre in assoluto, in cui lo si vede fischiettare alla guida di un battello e battagliare con Putrid Pete (personaggio che, in Italia, conosciamo come Pietro Gambadilegno).

 

Steamboat Willie ebbe un impatto enorme nella storia dell’animazione: fu uno dei primi cartoni animati con audio sincronizzato – prima di lui c’erano stati Dinner Time di Paul Terry e Song Car-Tunes dei fratelli Fleischer – e nel 1998 fu selezionato per entrare nel National Film Registry, che raccoglie i film scelti per la conservazione nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Capitalizzando il successo riscosso da Topolino, Disney decise di continuare a esplorare le possibilità dell’audio: il risultato fu Sinfonie allegre, una serie di corti animati musicali realizzata con la collaborazione del compositore Carl Stalling. Andò avanti fino al 1939 e, tra le altre cose, presentò al pubblico un personaggio centrale dell’immaginario Disney, Donald Duck (Paperino): fece la sua prima apparizione nel 1934 in uno dei corti della serie, La gallinella saggia.

 

Nello stesso anno cominciarono i lavori di Biancaneve e i sette nani, che tre anni dopo sarebbe diventato il primo lungometraggio animato in technicolor della storia del cinema. Fu proiettato per la prima volta al Carthay Circle Theatre di Los Angeles, il 21 dicembre 1937. Prima della proiezione, Disney aveva qualche timore, perché non poteva essere sicuro che il pubblico che amava i suoi corti avrebbe apprezzato un cartone animato lungo dieci volte tanto.

E invece fu un successo: come scrive Barrier, «Biancaneve scombussolò completamente la situazione finanziaria dello studio Disney», incassando più di 4 milioni di dollari nel 1938 (sarebbero quasi 80 milioni di euro, oggi). Disney ottenne un Oscar alla carriera per il film, che nel 2008 fu eletto miglior film d’animazione americano di tutti i tempi dall’American Film Institute, la prestigiosa associazione non profit statunitense che si occupa di conservazione e storia del cinema e della televisione.

Dopo il successo di Biancaneve lo studio affrontò anni difficili: l’effetto novità per i lungometraggi animati si perse e i due film successivi, Pinocchio e Fantasia (un musical animato realizzato con la collaborazione del compositore britannico Leopold Stokowski) non riuscirono a sbancare al botteghino, portando Disney a disporre una serie di licenziamenti. A complicare la situazione economica fu anche la Seconda guerra mondiale, che chiuse il mercato europeo a varie aziende, comprese quelle che si occupavano di animazione.

Per Disney fu un periodo complicato: alla fine degli anni Trenta i dipendenti dello studio, guidati dall’animatore Art Babbitt, iniziarono a organizzarsi per chiedere un miglioramento delle loro condizioni lavorative. Le lamentele erano dovute in particolare ai bonus, che venivano distribuiti in modo casuale, e alla disparità salariale che vigeva in azienda: gli animatori di alto rango guadagnavano fino a 300 dollari a settimana, i dipendenti con minore esperienza meno di 20.

Il 26 maggio del 1941 Babbitt fu licenziato e, tre giorni dopo, alcuni lavoratori sistemarono dei picchetti davanti all’ingresso dello studio, dando inizio a uno sciopero che ebbe una forte attenzione mediatica.

Barrier spiega che Disney considerò lo sciopero una «pugnalata alle spalle» da parte di uomini e donne che riteneva di avere «coccolato e viziato» oltre ogni limite, e che «per due mesi qualsiasi tentativo di negoziazione fu mandato all’aria dalle sue esplosioni di rabbia e dalle sue ripicche». «Fu la Guerra civile dell’animazione», scrisse a questo proposito l’animatore Tom Sito in un articolo pubblicato su Animation World Network nel 2005, «ma aiutò a far ottenere pensioni, assicurazioni mediche e gli standard di vita più alti del mondo per un animatore».

Alla fine Disney fu convinto dagli investitori della Bank of America e da suo fratello Roy a trattare con il sindacato, e nel settembre del 1941 lo studio tornò a funzionare a pieno regime: i salari per la nuova settimana lavorativa (40 ore spalmate su cinque giorni) furono duplicati. I dipendenti ottennero un altro risultato importante: la garanzia della loro menzione nei crediti del film, da cui venivano spesso esclusi. Lo sciopero segnò moltissimo l’approccio di Disney alle questioni sindacali: cominciò ad accusare pubblicamente i leader della protesta di “agitazione comunista” e, per un breve periodo, entrò a far parte della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, un’organizzazione ultraconservatrice di produttori dell’industria di Hollywood. Inoltre collaborò attivamente con l’FBI, ai tempi guidata da John Edgar Hoover, con il compito di segnalare i nomi di alcuni personaggi di Hollywood sospettati di essere comunisti.

I disegnatori Ward Kimball e Fred Moore negli studi Disney nel 1941. (AP Photo)

In quel periodo circolarono altre dicerie su Disney, in tutti i casi mai confermate, su tutte il suo presunto antisemitismo. Si parlò di questo aspetto soprattutto nel 1938, quando Disney accolse a Hollywood la regista tedesca Leni Riefenstahl, autrice di pellicole di propaganda nazista, per promuovere il suo film Olympia. Cominciarono anche a circolare notizie, mai verificate, relative a presunti insulti antisemiti che Disney era solito rivolgere ad alcuni dipendenti ebrei, come Art Babbitt e David Hilberman. Tuttavia secondo Neal Gabler, autore di un famoso libro biografico dedicato a Walt Disney, nessuno dei suoi impiegati avrebbe notato comportamenti di questo tipo, compresi gli stessi Babbitt e Hilberman.

Negli anni che seguirono lo sciopero, Disney cominciò a studiare qualche strategia che potesse permettergli di trasferire l’immaginario che aveva creato nel mondo reale. Il modo più semplice era costruire un parco divertimenti a tema, in cui il pubblico avrebbe potuto avere l’illusione di interagire realmente con le ambientazioni e i personaggi dei suoi cartoni. Disneyland fu inaugurato a Anaheim, in California, il 17 luglio del 1955, e fu qualcosa di mai visto prima. Esistevano infatti parchi meccanici (con attrazioni, giostre e chioschi) ma non esistevano, prima di quel 17 luglio, parchi tematici costruiti per ricreare un mondo, per raccontare una storia e non solo per far divertire con montagne russe o ruote panoramiche. Disneyland fu anche l’unico parco divertimenti di cui Disney curò direttamente la progettazione, e l’unico di cui vide l’apertura.

Il giorno dell’inaugurazione però non andò benissimo. Disney aveva organizzato un’apertura in anteprima per la stampa e per un numero limitato di ospiti. Gli invitati effettivi erano circa 15mila, ma quel giorno ne furono registrati più di 28mila: quasi la metà di loro era riuscita a entrare usando dei biglietti finti. Gli ospiti ebbero molti problemi e videro molte cose che non funzionavano: Walt Disney aveva accelerato i tempi dei lavori di completamento del parco, che avrebbero in realtà richiesto più mesi. In un’attrazione, la “Mr. Toad’s Wild Ride”, saltò la corrente; il ponte della “Mark Twain Steamboat”, una nave ancora presente nel parco, si allagò. Ci furono anche molte code: per l’ingresso, per le attrazioni, per le toilette. Chioschi e ristoranti finirono la maggior parte del cibo e delle bevande molto prima del previsto e quel giorno faceva molto caldo. Gli ospiti del parco cercarono allora delle fontanelle di acqua potabile, ma non ne trovarono nemmeno una.

L’inaugurazione di Disneyland nel 1955. (AP Photo)

Quel giorno diventò conosciuto come “Black Sunday”, la domenica nera della storia di Disney, ma il pubblico si accorse comunque che Disney aveva realizzato qualcosa di innovativo. La pulizia, la cura del dettaglio paesaggistico e architettonico del parco erano senza precedenti, e così anche l’idea di raccontare una storia e offrire un mondo, anziché un semplice gruppo di attrazioni. Quel parco fu anche il primo a capire l’importanza dei bambini come clientela di riferimento: la maggior parte dei luna park guardava agli adolescenti e agli adulti, offrendo esperienze “adrenaliniche”. Disney capì che i bambini erano un importante target e che per conquistarli non serviva solo l’adrenalina, ma la fascinazione.

L’attività di Disney come amministratore delegato dell’azienda finì nell’estate del 1966, quando gli fu diagnosticato un tumore al polmone sinistro: morì il 15 dicembre di quell’anno, in seguito a un collasso cardiocircolatorio. Dopo la morte di Disney la gestione dell’azienda passò a suo fratello Roy: gli studi continuarono a produrre film in live action (cioè con attori veri) in modo prolifico, ma abbandonarono quasi del tutto l’animazione fino alla fine degli anni Ottanta, quando iniziò il cosiddetto “Rinascimento Disney”, inaugurato nel 1989 da La sirenetta. Il corpo di Walt Disney fu cremato e trasferito nella cappella familiare al cimitero privato Forest Lawn Memorial Park di Glendale, in California.

Dopo la sua morte Disney è stato spesso accusato di razzismo, soprattutto per diverse produzioni pubblicate tra gli anni Trenta e Cinquanta. Nel suo libro, Gabler smentisce anche questo aspetto: a suo dire i personaggi ambigui presenti in alcuni cartoni della Disney (come Sunflower, la centaura nera ritratta a servire le altre centaure in Fantasia e successivamente rimossa) sarebbero da rileggere alla luce della sensibilità dell’epoca, ancora poco attenta a certi temi.

Walt Disney con Salvador Dalí a Cadaqués, in Catalogna, nel 1957. (AP Photo)

Oggi il piccolo studio che Disney fondò nel 1923 è una delle più grandi aziende al mondo. I suoi 220mila dipendenti si occupano di cose che vanno al di là dell’animazione: produzione di film e serie tv, sviluppo e organizzazione di parchi a tema e di una linea di crociere, gestione di etichette musicali, case editrici, alberghi, servizi per lo streaming, villaggi vacanze, negozi e molto altro. Disney controlla inoltre alcune delle case di produzione cinematografica più redditizie e di successo come Marvel Studios, Lucasfilm, Pixar e 20th Century Studios.