Le celebrità ora si fanno i documentari da sé

In particolare dopo “The Last Dance” su Michael Jordan è diventato un genere molto attraente per le piattaforme

(Netflix)
(Netflix)

Il successo di Unica, il documentario che racconta la versione di Ilary Blasi sui problemi che hanno portato alla sua separazione dall’ex marito Francesco Totti, è stata l’ultima dimostrazione di come i documentari sulle celebrità realizzati e spesso anche direttamente prodotti (cioè finanziati) dagli stessi soggetti siano una nuova grande tendenza produttiva delle piattaforme. Unica è il film più visto su Netflix Italia questa settimana, e il sesto più visto nella classifica mondiale dei film non in lingua inglese. Al momento la piattaforma non ha divulgato i dati sui paesi in cui è stato più guardato.

Pochi mesi fa la serie documentaria Beckham, sulla storia dell’ex calciatore David Beckham e sua moglie (ex Spice Girl) Victoria, era stata tra le produzioni più viste in tutto il mondo, e lo stesso è successo per Arnold e Sly, il primo una serie documentaria, il secondo un film documentario, rispettivamente su Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone. Sono tutte produzioni di Netflix, non casualmente. La piattaforma ha investito moltissimo fin dalla sua fondazione sui documentari, di fatto creando la categoria della “serie documentaria” con Making a Murderer nel 2015, ha capito prima di altri il potenziale di questo tipo di racconti e ha cominciato a sfruttarli intensamente. Se la considerazione per i documentari è cambiata profondamente a partire dalla fine degli anni ’90 è anche per il ruolo che ha avuto a partire dal 2010 Netflix, soprattutto nell’estensione dei generi e dei soggetti possibili. Le altre piattaforme l’hanno poi seguita.

I documentari “agiografici”, incentrati su un personaggio molto noto e realizzati con quel personaggio, intervistando lui o lei, le persone vicine, usando i materiali d’archivio della famiglia e fornendo un racconto senza critiche ma anzi perfettamente adeguato all’immagine che quel soggetto vuole dare di sé, esistono da prima che Netflix ne facesse un genere a parte.

Nel 2020 era uscito su Prime Video Ferro, in cui il cantante Tiziano Ferro aveva raccontato la sua vita e la sua carriera. L’anno prima Chiara Ferragni aveva prodotto Chiara Ferragni – Unposted, un film documentario in cui raccontare la sua storia, dall’infanzia alla creazione della propria immagine. In Unposted (presentato alla mostra del cinema di Venezia) sono raccontate le difficoltà nell’inserirsi nel mondo della moda, la creazione della figura dell’influencer, il suo lavoro e la quotidianità di oggi. Dopo una distribuzione in sala il documentario è andato sulla piattaforma Prime Video e poi anche in prima serata sulla Rai (che aveva distribuito il film in sala) in una serata dedicata a Chiara Ferragni, seguito da un’intervista condotta da Simona Ventura.

È stato però nel 2020, con l’uscita della serie documentaria The Last Dance, incentrata sull’ultima stagione dei Chicago Bulls di Michael Jordan, ma più in generale sull’ascesa e la storia del dominio di Michael Jordan nell’NBA, che i documentari sui personaggi famosi hanno avuto uno sviluppo preciso. Quello di The Last Dance fu infatti il caso più clamoroso fino a quel momento di agiografia documentaria: fu una produzione di Jordan stesso (attraverso due dei suoi soci in affari), ma fu realizzato particolarmente bene, e il suo protagonista non volle nascondere i suoi lati più sgradevoli, che anzi furono messi in risalto, pur offrendo la sua prospettiva su molte questioni che ne hanno notoriamente anche altre (per esempio il rapporto con il compagno Scottie Pippen).

Questa combinazione di elementi, unita a una storia capace di appassionare milioni di persone ancora oggi, lo rese un documentario molto apprezzato e influente. Alla fine Jordan esce da The Last Dance come il più grande campione della storia della pallacanestro statunitense (e quindi mondiale) attraverso una dedizione alla vittoria fuori dal comune che lo fa apparire come una persona poco piacevole in campo.

Quest’anno Stephen Curry, uno dei giocatori di pallacanestro contemporanei più famosi, vincenti e rivoluzionari, ha finanziato tramite la sua società di produzione Stephen Curry: Underrated, un documentario andato su Apple TV+ in cui racconta la sua storia, dall’infanzia alle prime difficoltà fino ai trionfi sempre dipingendosi come qualcuno sottovalutato. Tuttavia, come ha scritto Jennifer Wilson su The New Republic: «L’idea che Curry sia ancora oggi sottovalutato [underrated in originale] è risibile se si considera che la sua società di produzione si chiama Unanimous, perché Curry è stato l’unico giocatore nella storia dell’NBA ad essere stato nominato giocatore dell’anno all’unanimità».

Nel 2022 è uscito Halftime, documentario sulla preparazione di Jennifer Lopez al suo spettacolo nell’intervallo del Super Bowl, una maniera per celebrare la sua carriera e per rilanciare la sua immagine di paladina dei diritti delle donne e delle minoranze latine negli Stati Uniti. Nello stesso anno è uscito Selena Gomez: My Mind and Me, mentre nel 2020 era uscito Miss Americana, dedicato a Taylor Swift. Tutti prodotti da Netflix. Anche l’ereditiera Paris Hilton aveva realizzato un documentario su di sé, This Is Paris.

Se i documentari sulle persone note sono un genere che esiste da anni, spesso si sono occupati di persone morte, e nei casi migliori riescono a raccontare quello che la cronaca dell’epoca non aveva colto (come fa Amy di Asif Kapadia su Amy Winehouse). Anche quando riguardano personaggi in vita, normalmente non si trattava di documentari prodotti dagli stessi soggetti: la pratica è diventata sempre più frequente a partire dal successo di The Last Dance e ha avuto un effetto sulla maniera in cui sono realizzati. Il loro successo poi, secondo alcuni documentaristi più tradizionali, fa sì che in questo momento i canali televisivi sacrifichino documentari di altro tipo e vogliano produrre più che altro questi.

Il problema dei documentari prodotti dai propri soggetti è, come si può intuire, che tendono a omettere le parti meno lusinghiere della loro vita o quegli eventi dei quali altrimenti gli verrebbe chiesto conto criticamente. In Harry & Meghan, il documentario sul principe Harry e Meghan Markle realizzato dalla loro società di produzione (Archewell), non viene fatta menzione del primo matrimonio di Meghan Markle; in Beckham, nonostante un momento in cui David Beckham costringe la moglie a essere onesta sulla ricchezza della propria famiglia, si sorvola sugli episodi peggiori della vita da calciatore di Beckham (in particolare un cartellino rosso molto famoso in una partita cruciale contro l’Argentina) e non si parla del suo ruolo di testimonial per lo stato del Qatar.

Anche in documentari che sembrano più inclini a fare rivelazioni clamorose, come la miniserie Robbie Williams, la sensazione è sempre di racconti molto costruiti e controllati, in cui a una sola persona è concesso di parlare e fornire la propria versione dei fatti. Il documentario Unica questo lo mette in chiaro fin dall’inizio, con un espediente utilizzato anche in altri documentari (come quello di Chiara Ferragni): la premessa che, in risposta alle voci, agli articoli fasulli, ai pettegolezzi e al maltrattamento subito dalla stampa per diversi anni, la star di turno ha finalmente la possibilità di fornire la sua versione.

È la stessa motivazione che viene data nell’apertura di Pamela, a Love Story, il documentario su Pamela Anderson uscito quest’anno su Netflix, che ha funzionato come una specie di risposta alla serie tv (andata su Disney+) Pam & Tommy, che raccontava la turbolenta storia di Pamela Anderson con il musicista Tommy Lee, culminata con la divulgazione non autorizzata di una registrazione dei due mentre facevano sesso, che ebbe un profondo effetto sull’immagine di Pamela Anderson. Molti di questi documentari infatti si assomigliano e seguono una formula che unisce un contesto domestico in cui realizzare l’intervista a una racconto della carriera del soggetto in questione fatta da inizi pieni di difficoltà, l’arrivo di un grandissimo successo, seguito da problemi dovuti alla fama, e poi da una qualche forma di redenzione finale.

Questo non significa che non possano essere anche interessanti. Arnold, la serie in tre puntate su Schwarzenegger, per quanto realizzata insieme a lui, ampiamente intervistato, non è anche prodotta da Schwarzenegger. Oltre a costruire un racconto completo (e per molti versi agiografico) non nasconde le infedeltà o diversi problemi, e poterla realizzare così ha comportato un certo grado di trattativa con Schwarzenegger stesso, come ha raccontato il regista della serie al New York Times. Still, il documentario di Apple TV+ su Michael J. Fox, fa un racconto molto accurato della maniera in cui il morbo di Parkinson ha influenzato la carriera del suo soggetto e usa immagini di repertorio delle serie tv o dei film in cui aveva recitato Michael J. Fox per mostrare come per anni cercò di nasconderlo o dissimularlo.