Perché ci si sposa (e non si divorzia)

«Mesi fa mi sono sposata. È stato bello. Ho singhiozzato davanti all’ufficiale di stato civile, ma la vita è continuata come prima. Poi alla festa del Post, a Faenza, mi è stato chiesto se per me fosse cambiato qualcosa; e, più in generale, perché ci si sposi ancora. Dal palco abbiamo girato la domanda al pubblico, in particolare alle donne sposate da tempo. Finito l’incontro, mi ritrovo intorno un capannello di mogli di lungo corso: volevano raccontarmi le loro storie»

Alcuni membri della famiglia reale britannica (in prima fila da destra Elisabetta II, Filippo d'Edimburgo e la Regina Madre) al matrimonio tra la principessa Alexandra e Angus Ogilvy. 
Abbazia di Westminster, Londra, 24 aprile 1963 (Bob Haswell/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
Alcuni membri della famiglia reale britannica (in prima fila da destra Elisabetta II, Filippo d'Edimburgo e la Regina Madre) al matrimonio tra la principessa Alexandra e Angus Ogilvy. Abbazia di Westminster, Londra, 24 aprile 1963 (Bob Haswell/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)

Questo è l’articolo più complicato che abbia mai scritto.
Ho una quantità enorme di parole che mi sono state affidate e mi domando: saprò illuminare con la luce giusta questo patrimonio di confidenze?
Ho raccolto quasi cento pagine di interviste, scritte o trascritte da sbobinatura. Ho stampato e studiato con gli evidenziatori, come se fossi ancora a scuola, il mio dossier di storie – d’amore, di vita, e in qualche caso di liberazione.

Perché?, direte voi. Mesi fa mi sono sposata. Rimandavo da anni per l’ansia dell’organizzazione, alla fine non abbiamo organizzato niente. È stato bello. Ho singhiozzato davanti all’ufficiale di stato civile, non credevo che mi sarei emozionata tanto. La vita è continuata come prima: vivevamo già insieme, solo che la mattina mettevo la fede e per diverse settimane ho infilato le parole mio marito in ogni frase. Poi alla festa del Post, a Faenza, mi è stato chiesto se per me fosse cambiato qualcosa; e, più in generale, perché ci si sposi ancora. Dal palco abbiamo girato la domanda al pubblico, in particolare alle donne sposate da tempo. Finito l’incontro, mi ritrovo intorno un piccolo capannello di mogli di lungo corso: volevano raccontarmi le loro storie.
Ho acceso il registratore del telefono e stilato un questionario. Avrei fatto a tutte le stesse domande. Mi interessava sapere cosa le avesse spinte a sposarsi; e quale fosse, secondo loro, il segreto di una relazione che dura nel tempo.

A Faenza ho registrato sei interviste, e avrei continuato, non avessi avuto il treno. Le domande erano sempre quelle, ma le risposte erano ricche, articolate. Chi mi parlava di matrimoni armoniosi e chi di burrasche, chi aveva alle spalle un divorzio e poi una nuova unione, chi aveva figli e chi no, chi una relazione monogama e chi poliamorosa. Le mogli longeve hanno una gran voglia di parlare.
Arrivata a casa ho scritto un post su Facebook chiedendo se ci fossero volontarie per il mio sondaggio informale. Ho garantito anonimato (infatti i nomi che leggerete – ma solo quelli – sono di fantasia), nessun giudizio, nessun moralismo. Mi aspettavo una decina, forse venti adesioni.
Mi hanno scritto circa cento persone.

L’entusiasmo mi ha impressionata. Molte condividevano le domande con amiche, madri, suocere. E qui ho imparato la prima lezione sui matrimoni duraturi: se ne parla poco.
Molte intervistate me l’hanno proprio scritto: non si chiede a una che è sposata da venti, trent’anni, come va o come non va. Si dà per scontato che, comunque, vada.
Forse la colpa è anche della formula più sbrigativa mai concepita: e vissero per sempre felici e contenti è spesso la fine della fiaba, quasi mai della storia. Nel vissero si spalanca una varietà vertiginosa di giorni, di noie, di gioie, di tutto quello che rende la vita meschina e grandiosa. Forse è che oggi il matrimonio è un po’ fuori moda: culturalmente sprofonda nell’immaginario di un tempo passato, se ne parla sempre meno. Al centro del discorso amoroso sono nuove modalità informali di relazione, che mettono in discussione la monogamia, che sperimentano nuove geometrie fra amici e amanti. E se è bello e liberatorio che discorsi, abitudini e pratiche si allarghino, è pur vero che, zitto zitto, il matrimonio esiste ancora. Secondo i dati Istat pubblicati a marzo 2023, nel 2021 (dopo la flessione dovuta alla pandemia nel 2020) sono stati celebrati 180.416 matrimoni, più di uno su due (il 54,1%) con rito civile, e 2.148 unioni civili tra partner dello stesso sesso; e nei primi nove mesi del 2022, secondo i dati provvisori, sia i matrimoni sia, soprattutto, le unioni civili sono cresciuti significativamente (rispettivamente +4,8% e +32%), arrivando a toccare livelli pre-pandemia (già sfiorati nel 2021, peraltro, dai divorzi).
In un clima di liberazioni avvenute e tuttora in corso, il matrimonio finalmente allenta il legame con l’oppressione patriarcale di cui a lungo è stato segno e strumento. La possibilità stessa del divorzio rende il matrimonio, in potenza almeno, qualcosa di tanto più libero e di più significativo: una scelta a tutti gli effetti, da compiere insieme a qualcuno che non ci si fa andar bene per forza; non una costrizione. E del resto, in due parole, quello che ho imparato da questo sondaggio è che non ogni matrimonio longevo è felice; ma ogni matrimonio felice è felice a modo suo.

A commento delle note scritte a mano sul quaderno, c’è chi ha chiosato: “che fatica ricordare il passato!”. Molte invece mi hanno detto che avrebbero scritto anche parecchio di più, ma non volevano essere prolisse. “Non avevo mai messo nero su bianco tante verità su me stessa e il mio matrimonio. Mi spaventa, quello che ho scritto, ma per certi versi mi aiuta”. Quasi tutte mi hanno ringraziata, anche se sono io a dover ringraziare loro.

Delle 67 persone che alla fine hanno risposto all’intero sondaggio, ben più della metà (48) menziona i figli nel racconto della relazione. In un caso la coppia ha deciso di non averne; in due casi, li avrebbero voluti ma non sono arrivati. Fra queste 67 persone, se ne sono proposte 7 che non sono sposate ma hanno relazioni molto lunghe. Anche loro hanno voglia di raccontarsi.
Lia è vedova dopo 53 di matrimonio: si è sposata nel ’67, a 19 anni. “Eravamo giovani, felici, innamorati, lavoravamo, il futuro era roseo”.
Susanna si sta separando dopo 27 anni insieme. Mi racconta perché con una precisione diagnostica che, mi pare, mette in luce una delle prove più ardue per le relazioni durature: “Registro da parte di mio marito la difficoltà di accettare il cambiamento e l’evoluzione della nostra relazione, come se per rimanere insieme fosse necessario perpetuare le emozioni degli inizi. Invece è importante accettare il cambiamento della relazione nel tempo, costruire affettività e tenerezza, sentire l’altro come punto di riferimento solido, piuttosto che come un erogatore di emozioni adolescenziali. Per questo ci stiamo lasciando”.
Due intervistate sono separate in seguito a relazioni ventennali, e mi raccontano proprio di quello che segue la separazione.
Mirella, divorziata due volte, ha capito che la vita coniugale non fa per lei: “Seguivo un progetto familiare, affezionandomi all’idea di un uomo-capofamiglia a cui mi sforzavo di piacere. Ma la mia parte più vera in entrambi i matrimoni rimaneva estranea. La parte mia che voleva il matrimonio era quella che veniva da una famiglia disfunzionale. I due mariti volevano cambiarmi: appena ero io, sentivo il giudizio. Non ero vera, non c’era verità. Vedo amiche con relazioni insulse, irrilevanti: anch’io sono stata una di loro. Ed è stata una buona cosa finirla”.
Gaia è separata da tre anni: “Dopo la separazione si è configurato per noi una sorta di allargamento della famiglia alla nuova compagna di Luca e alla loro bambina. Una situazione strana, ma per ora sostenibile e oserei dire felice. E una sorta di adempimento ulteriore della promessa di rimanere vicini nella buona sorte e in quella difficile… Camminiamo una accanto all’altro da 25 anni”.

Nel mio campione, il matrimonio più recente risale a un mese fa, dopo 21 anni di relazione (la sposa di anni ne ha 37, quindi ha trascorso più della metà della sua vita finora insieme allo sposo). Il più remoto è stato celebrato 59 anni fa.
L’età media delle intervistate è 55 anni. La durata media dei matrimoni che mi raccontano è di 25; quella complessiva delle relazioni, 30.

Di 60 matrimoni, alcuni (in 13 casi mi viene specificato) non sono stati preceduti da convivenza: perché “non si usava”, e in molti casi il matrimonio è stato, se non motivato, almeno sollecitato proprio da questa circostanza.
Fra le intervistate, ce ne sono 6 che hanno contratto più di un matrimonio. Delle attualmente conviventi senza essere sposate, 2 lo sono state in passato (una per ben due volte) e ora non intendono essere recidive. 3 sono seconde mogli; sul tema della reiterazione del matrimonio molte scherzano: “primo e per ora unico”.
Una coppia è “pacsata” (in Francia, dopo un primo matrimonio di lei), una è un’unione civile fra due donne; due coppie, sposate, vivono in regime poliamoroso.
Alcune coppie lavorano insieme.

Salta fuori che ci si sposa per motivi ricorrenti. Per burocrazia e per allegria (come mi dice Anna), innanzitutto. Per Carlotta il matrimonio è stato “una festa e una protezione”, e molte sottolineano come abbia rappresentato una forma di tutela legale, soprattutto per i figli. C’è chi, come Patrizia che aveva 19 anni, o Gelsomina di soli 14, ha affrettato i tempi del matrimonio perché incinta. Michela si è sposata con Giovanni, che ha la nazionalità statunitense: “il matrimonio mi ha permesso di vivere e lavorare lì con permesso di soggiorno. Ci siamo sposati negli USA scrivendo noi tutto il rito con le nostre famiglie accanto e dopo un anno abbiamo rifatto una grande festa in Italia rinnovando le promesse. Venendo tutti e due da madri orfane crediamo molto anche nelle tutele legali che il matrimonio dà ai nostri figli”.
L’unione civile, per Fabiana che già da anni conviveva con la sua compagna, è stata un atto politico: “dimostrare alle ragazze e ai ragazzi che era possibile stare insieme bene e alla luce del sole. Finalmente potevamo dire al di fuori della nostra cerchia di amici e conoscenti che avevamo una relazione riconosciuta legalmente. Non pensavamo che avere una fede al dito potesse renderci felici, e invece indossarla e poterla vedere è un simbolo fortissimo che ci accompagna (abbiamo già un nostro simbolo: lo stesso tatuaggio; ma è sulla schiena). Il matrimonio ha cambiato lo sguardo degli altri nei nostri confronti, rendendoci totalmente felici”.
In diversi casi, un problema di salute, di un membro della coppia o di qualcuno di prossimo, ha rotto gli indugi. Tania mi racconta: “un nostro amico è finito in ospedale, in coma per un incidente: la compagna, da 15 anni insieme a lui, non aveva nessun potere decisionale. Appena è stato bene, ci ha detto: sposatevi. Comprate una marca da bollo da 16 euro, e via. Ci siamo sposati lo stesso giorno, scambiandoci le poltrone, da sposi a testimoni”.
Sposarsi per allegria, in molti casi, significa far festa. Qualcuna fa le cose in grande, come Serena che trent’anni fa l’ha organizzata “in un teatro, un po’ come i matrimoni medievali, e tutti i nostri amici si sono dati da fare: chi suonava, chi cucinava, chi preparava spettacoli”. C’è chi conserva, come Angela, il ricordo “meraviglioso di un momento di festa specialissimo”, e chi dice che la cerimonia “non è stata granché”. Per Lucia, organizzarla è stata l’occasione per cambiare idea sul matrimonio: “Avevo sempre pensato di non essere la persona adatta a queste formalità, non credevo di averne bisogno. È stato importante celebrarlo a modo nostro. Che fosse una festa per tutti”.

Soprattutto, comunque, ci si sposa per amore. Per Miriam è stata “una dichiarazione del nostro amore anche verso il mondo. Ci sembrava romantico, denso, forte”.
Dafne, che suo marito l’ha conosciuto alle superiori (“sul mio diario di adolescente, che ho conservato e riaperto per questa occasione, scrissi: “lui non lo saprà mai, anche perché mi è molto antipatico, ma io lo sposerò”), dice che a un certo punto ha capito “che non avrei mai potuto immaginare il mio futuro senza avere lui al mio fianco”.
Fiamma, sposata da 20 anni, mi manda una foto della fede tatuata sul dito: “Comunque andrà lui sarà sempre una parte di me. E lo trovo ancora molto bello, il che non guasta”.
Carolina ha stupito tutti sposandosi in bianco: “Nell’adolescenza dicevo io non mi sposerò mai perché non voglio essere come mia madre. Però lui era molto appassionato. E il fatto di stringere questo legame (senza preti, però!), beh, mi è piaciuto. Certo sarebbe bello riuscire ad avere un legame riconoscibile multiplo, un matrimonio plurale. Ma anche se abbiamo aperto la nostra coppia al poliamore, anche se sposerei pure qualcun altro, per me è lui la persona di riferimento”.
Per Alice, sposata da 42 anni, “i primi 25 sono stati amore e passione (del genere ci davamo appuntamento a casa durante le pause del lavoro e l’ora libera a scuola per incontri d’amore), poi piano piano è diventato un amore più tranquillo”.
In molte risposte il tema dell’amore come motore del matrimonio è declinato nel senso più pragmatico possibile: tante si sono sposate, semplicemente, “perché avevamo voglia di svegliarci insieme alla mattina e di dormire insieme la sera”, mi dice Diletta. Le fa eco Ivana, ancora più sintetica: “per stare insieme più tempo”. “Stavamo benissimo insieme e volevamo fosse per il tempo intero,” dice Eva.

E chi non si sposa, ma sta vivendo una relazione lunga con la stessa persona? Fra le mie intervistate in questa situazione, c’è chi non esclude tassativamente il matrimonio, come Daria: “Abbiamo voluto evitare il matrimonio che la famiglia di Marco si aspettava: ha un esercito di parenti. Se mai ci sposeremo sarà una cerimonia semplice, poi magari faremo una bella festa con gli amici a parte”. O Federica: “Ci diciamo sempre che ci sposeremo verso i cinquant’anni, per fare festa degli anni in cui ci siamo scelti”.
Diana invece ha incontrato il suo attuale compagno, dopo due matrimoni, proprio a 50 anni, e “ci è sempre sembrato buffo, forse anche poco opportuno, fare gli sposini… Non abbiamo mai deciso di non sposarci ma neanche di sposarci, siamo stati insieme scegliendo di stare insieme giorno per giorno”.
E poi c’è Valeria, che oltre a non essere sposata, ha scelto di evitare anche la convivenza: “Viviamo a meno di un chilometro di distanza. L’abbiamo deciso da subito. Lui è un nottambulo e io vado a dormire presto. Ma sulle cose importanti la pensiamo esattamente nella stessa maniera”. Del resto, anche se non vivono insieme, proprio con la metafora della casa descrive il loro rapporto: “Ci siamo conosciuti in quarta ginnasio, lui era il mio migliore amico. Ci siamo persi di vista e ritrovati per il matrimonio di mio fratello nel 2004. Rivederci è stato come tornare a casa”.

“Lui mi ha regalato un anello e io l’ho interpretata come una proposta di matrimonio”, mi dice Giulia raccontandomi il passaggio dalla convivenza alla vita coniugale. Come per lei, per la maggior parte delle mie intervistate, che hanno vissuto insieme ai futuri mariti prima di sposarli, il matrimonio di per sé non ha scombussolato particolarmente la relazione. In molti casi, il cambiamento maggiore è rappresentato dai figli – che arrivano e creano scompiglio, oppure non arrivano ma la cosa crea scompiglio lo stesso. E naturalmente, da un fattore invisibile quanto inesorabile: il tempo. Il tempo che trasforma gli amori, smussa angoli o scava distanze, invecchia i genitori, fa crescere i bambini.
Ma chi dice che i cambiamenti debbano essere sempre in peggio? “I figli – mi dice Manuela – sono un cemento, per l’amore e il rispetto”.
E non è detto nemmeno che il tempo peggiori le cose: anzi. “Il nostro è sempre stato un amore molto forte, oggi che ne abbiamo affrontate tante, forse anche più intenso. C’è molta complicità e tanta passione che ci fa desiderare di rimanere soli a volte”, mi dice Alessandra. Che peraltro descrive come un errore il fatto di essersi sposata prima della laurea, e con un lavoro che adorava “ma i guadagni erano ridicoli”. La laurea poi però se l’è presa eccome: “mi sono laureata da vecchia, a 41 anni, quando avevo il più piccolino di un anno e mezzo”. E oggi è avvocata – lo stesso lavoro di suo marito.
Molte a distanza di anni ricordano i primi tempi del matrimonio come quelli più complicati: le cose, per alcune coppie, col tempo migliorano. Come per Elisabetta: “All’inizio bisogna imparare a conoscersi meglio, confrontarsi e ciò significa scontrarsi. Ora che abbiamo affrontato tante difficoltà e questo ci tiene legati. A questo punto della vita abbiamo più bisogno l’uno dell’altra, la notte dormiamo ancora abbracciati, ci vogliamo bene”.
O come Rossana, 65 anni, sposata da 38: “Ci abbiamo creduto, ecco. Siamo andati avanti e questa, credo, è la stagione più bella. Lo posso dire? spero che ci accompagni ancora per tanto tempo”.
Molte, pur non negando la difficoltà di contrastare l’ostinazione con cui la fatica quotidiana appanna la gioia dello slancio iniziale, mantengono anche in questo campo il pragmatismo (“finché dura fa verdura”, dice Angela) che mi pare animare, fra afflati romantici, prese di coscienza battagliere e rimpianti, con una certa persistenza il mio campione di intervistate. Benedetta riassume il pensiero di tante, quando dice: “è cambiato l’ordine del giorno: si vuole stare bene insieme. Per me, è liberatorio”.

La fedeltà è forse il tema più spinoso; ma, anche qui, le risposte mi sorprendono. Intanto perché le confidenze sono intime e articolate. Poi, perché sono piene di spirito. Per qualche coppia la monogamia non è stata mai messa in discussione: “Io, e sono convinta anche mio marito, non abbiamo mai messo in dubbio la fedeltà e l’onestà nel nostro rapporto”, mi risponde Manuela e come lei, con parole diverse, molte altre. Ma sul tema registro una varietà di reazioni che provo a ricondurre a filoni principali. Per qualcuna proprio l’esperienza di un’infedeltà possibile – vissuta o solo immaginata – ha (per paradosso solo apparente) rafforzato la coppia: mettendola di fronte alla necessità di stabilire un proprio codice, più personale, più legato al rapporto, che in molti casi viene definito con una parola diversa da fedeltà: lealtà.

“All’inizio della nostra relazione – dice Fabiana – una piccola (e ingenua) infedeltà ci ha costrette a fare i conti con la definizione della nostra relazione, fortificandola e rendendola più leggera. Quel piccolo evento lo abbiamo collocato nel suo ambito di appartenenza, senza grandi drammi. Da quel momento in poi la fedeltà non è mai stata più un discorso, sostituita da una discussione profonda sulla verità e sull’onestà: ci siamo confrontate sempre su ciò che siamo l’una per l’altra”.

Per le coppie poliamorose, la relazione è per definizione plurale, anche se le mie intervistate in coppia aperta mantengono al centro della galassia amorosa l’uomo che hanno sposato. Una via di uscita ingegnosa anche da un lessico implicitamente colpevolizzante: come mi dice Lorena, 40 anni, in coppia da 20, che non immagina l’apertura come una possibilità praticabile, ma non per questo smette di interrogarsi sul tema: “A me l’obbligo alla fedeltà pesa. E odio il termine “tradimento” o “tradire” perché suona come una condanna morale che ritengo inadeguata… Se uno ha un’avventura fuori dal matrimonio, sta facendo un piacere a sé stesso, non tradisce l’altro, l’altro non c’entra in quelle storie. Secondo me l’unica cosa brutta nell’infedeltà è la sofferenza dell’altro, ed è inevitabile. Purtroppo la gelosia scatta per forza (la proverei sicuramente anch’io) e non è giusto far subire un sentimento così devastante a una persona a cui si vuole bene”.

Vittoria si è resa conto che lei e suo marito chiamano “cose diverse con lo stesso nome”: lui pensa alla fedeltà come puramente fisica, per lei importa il patto di lealtà. “Ed è un problema che ancora non abbiamo risolto”. E Stefania: “Più evolviamo, come individui e come coppia, e più ci interroghiamo sulla validità o meno della monogamia. Su cosa si intenda per “fedeltà” e sul suo effettivo valore (e se sia un valore…)”.

In certi casi l’infedeltà mi viene raccontata come una pura ipotesi che rimane irrealizzata, forse anche perché legata ad altri nodi emotivi: la rivalsa, come nella storia di Lucilla (“Non l’ho mai fatto, ma per mancanza di coraggio, non perché ritenessi la cosa moralmente riprovevole”) o al rimpianto, come per Rossella, rimasta turbata dall’incontro con un amore del passato. Suo marito le ha lasciato una libertà assoluta che l’ha aiutata a vedere le cose con chiarezza: “Lui mi disse: ‘se ti fa bene vederlo, vedilo e poi decidi’. L’ho visto tre o quattro volte, poi ho capito che per me era un fantasma”.

Molte, soprattutto le più giovani, mi dicono che non accetterebbero un tradimento, ma alcune ammettono che non avendolo vissuto, di fatto non sanno: e forse questa è un’altra lezione impartita dalle lunghe relazioni. A volte, non sempre, si cambia idea.

Diverse coppie di lungo corso risolvono l’antico dilemma monogamico sportivamente, con meditata leggerezza: come Prisca. “Sulla fedeltà non sono mai stata una campionessa. Tuttora non credo che una sola persona possa darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno, però devo ammettere di aver anche commesso errori di valutazione e che alla fine l’uomo a cui voglio veramente bene è mio marito”.

O come Anna: “Io non lo avrei mai tradito, troppo innamorata, lui, affascinante e femminiere probabilmente qualche volta lo ha fatto (giurando di no)… qualche tensione, poi superata o ingoiata, non saprei”.
Il marito di Serena l’ha dichiarata “patrimonio dell’umanità”. Ma lei dice “anche se fra noi non c’erano divieti, non ho mai sentito il bisogno di cercare altrove”.
Vengono fuori, da queste storie, ritratti di uomini consapevoli e aperti; ma anche di altri che vivono un’insicurezza emotiva forse legata a stereotipi machisti per cui mostrarsi colpiti o vulnerabili è poco virile. Un’educazione affettiva mancata che causa, a giudicare dalle parole delle intervistate, le impasse più dolorose: come quella di Leandra. “La fedeltà lui non l’ha avuta e non ne ha voluto parlare sufficientemente. Poi siamo stati lontani sessualmente. Per me è stato sì un problema immenso. Molto è stato difficile: la sua freddezza, la sua rigidità e lontananza empatica e la sua anaffettività. E poi la mia malattia fisica e cronica che lui non ha saputo accettare”.

Il racconto di Leandra tocca il colmo della difficoltà delle vite insieme. Quella che, alla fin fine, risulta essere la vera sfida della relazione longeva: riuscire ad accettare i cambiamenti imposti dal tempo. Una malattia, ma anche semplicemente l’usura quotidiana. A emergere, quando chiedo quali siano le complicazioni maggiori e il segreto per far funzionare le cose, è l’esigenza di riconoscersi ed essere riconosciute attraverso il tempo che passa.
Non mi sorprende, che sia così banale e così profonda insieme, la conclusione a cui approda la mia ricerca.
Passare tanto tempo insieme – la ragione per cui tante delle mie intervistate hanno scelto di sposarsi – significa attraversare, insieme, molti anni: che modellano la relazione in nuove forme, perché chi dà vita a quella relazione nel tempo cambia. Che, sottraendo (“con il tempo vengono meno alcune cose”, mi dice semplicemente Patrizia), tendono a confermare, a trattenere: la routine, la fatica quotidiana, l’organizzazione. “La noia”, riassume efficacemente Ivana.
È questa una delle difficoltà che con più frequenza vengono segnalate. Yvonne parla della sensazione di essere “in trappola”. Liliana mi dice che il problema è “quando per abitudine si sa già cosa pensa e cosa dirà l’altra persona, e si perde il gusto di raccontarsi le cose, anche quelle da ridere”. Le abitudini, la routine sono un problema per molte. Anche perché spesso le consuetudini domestiche sono mutuate dalle famiglie d’origine (spesso a loro volta problematiche, per ingerenze suoceresche soprattutto), e si finisce per litigare per l’ordine in cui disporre le pentole nei pensili della cucina.
Bianca è molto chiara: la difficoltà più grande “è il sesso: perché a me se ne è andata tutta la fantasia e invece a lui no”.

Gli uomini sembrano in media, dai racconti che ho ricevuto, un po’ pantofolai, con l’andar degli anni e l’irrobustirsi della routine: meno inclini alla leggerezza, alla vita fuori casa. Ma le mie intervistate non si perdono d’animo e cercano, e spesso trovano, soluzioni.
Per qualcuna funziona molto bene il fare “cose separate”, per qualcun’altra è importante continuare a farle insieme. Qualcuna trova la quotidianità confortante, ma non per questo nega la consapevolezza delle insidie che nasconde: “Non escludo che prima o poi inizi ad andarmi più stretta di quanto mi vada ora, e non decida di andare avanti da sola, nonostante l’età che avanza”.
Le risposte che rilevo con maggiore frequenza alla domanda sul segreto per una relazione duratura riguardano il sentirsi indipendenti benché uniti: la giusta distanza e la possibilità costante dell’attenzione sono elementi ricorrenti (“rispetto”, “dialogo”, “mantenere i propri spazi”): “Sapere di essere il centro di qualcuno e trovare il centro in qualcun altro”. Spesso ritornano, nelle risposte, anche l’intesa sessuale, i cui cambiamenti inevitabili è importante rispettare; l’umorismo, il prendersi in giro e ridere insieme. La pazienza (“delle donne”, specifica Lucilla; “che è una dote forte, non debole”, per Margherita).
Straordinariamente sintetica e efficace Agata: “il segreto di un buon matrimonio è avere gli stessi gusti in fatto di arredamento”.
“Non aspettarsi mai che l’altro capisca ciò che noi per primi non capiamo”, dice Perla.
Essere “buoni equilibristi, ma mai equilibrati”, secondo Diletta. Essere “prima individui e poi ruoli”, per Eva. O rifiutarsi categoricamente di caricare la lavapiatti (anche se molti uomini ancora hanno bisogno di essere sollecitati a collaborare: “se non chiedo esplicitamente devo farle da sola”, come racconta Eleonora).
E soprattutto, ricordarsi che, se come mi dice Fabiana, “in 25 anni siamo rimaste identiche all’inizio ma anche cambiate (è possibile? credo di sì, perché è quello che è accaduto)”, è “bellissimo riconoscerci ogni volta”.
Sperando che magari succeda come a Benedetta: “Una volta in una riunione di gruppo ho sentito una voce che mi piaceva e solo in un secondo momento mi sono accorta che era mio marito… ecco, il segreto è quando lui (o lei) non è scontato, lo ri-incontri e ti piace”.

Ilaria Gaspari
Ilaria Gaspari

È nata a Milano. Il suo ultimo libro è Vita segreta delle emozioni (Einaudi 2021). Vive a Roma, collabora con diverse testate e con Rai Radio 3, e tiene corsi di scrittura.

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