La recessione che tutti si aspettavano non è ancora arrivata

Dopo un anno e mezzo di inflazione e di aumento dei tassi molti economisti prevedevano una grave crisi economica, e invece adesso si parla di “atterraggio morbido”

(Mario Tama/Getty Images)
(Mario Tama/Getty Images)
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Quando lo scorso anno le banche centrali di tutto il mondo hanno iniziato ad aumentare i tassi di interesse per far rallentare l’economia e fermare così l’aumento dei prezzi, molti si aspettavano che l’economia di gran parte dei paesi avanzati non si sarebbe fermata a un lieve rallentamento, ma che sarebbe finita in recessione. Ci si aspettava cioè di arrivare a una situazione di profonda crisi economica in cui molte aziende sarebbero entrate in difficoltà, nel peggiore dei casi sarebbero fallite, le persone avrebbero iniziato a perdere il lavoro e la disoccupazione sarebbe aumentata.

Se prendiamo le economie occidentali più grandi, come quella statunitense e quella europea, possiamo dire che finora questa aspettativa non si è realizzata, seppur con differenze tra le due: l’economia va tutto sommato bene (anche se quella statunitense molto meglio di quella europea) e la disoccupazione è ai minimi storici. La maggior parte degli osservatori internazionali ormai inizia a sperare che si sia verificato quello che in economia è conosciuto come soft landing, un atterraggio morbido da un mondo con altissima inflazione a uno con inflazione più bassa ma senza lo scossone di una grave recessione e di un grande aumento della disoccupazione. Lo scenario opposto è il cosiddetto hard landing, ossia uno schianto dell’economia, conseguenza del tentativo delle banche centrali di fermare l’aumento dei prezzi.

Nell’ultimo anno e mezzo le banche centrali di Stati Uniti e Unione Europea (ossia la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea) hanno aumentato in modo consistente e sollecito i tassi di interesse di riferimento, proprio per contrastare un’inflazione che non si vedeva da decenni e che penalizzava soprattutto le persone con i redditi bassi. La FED li ha portati dallo 0,5 per cento di marzo 2022 al 5,5 attuale e la BCE dallo 0 per cento di luglio 2022 al 4,5 di oggi. Dopo le ultime rispettive riunioni di politica monetaria, che si svolgono circa ogni mese e mezzo, sia la FED che la BCE hanno deciso di fermare per il momento l’aumento dei tassi.

La pausa è dovuta al fatto che l’inflazione è scesa molto: a settembre negli Stati Uniti era del 3,7 per cento, contro il picco del 9,1 di giugno dell’anno prima; nell’area dei paesi dell’euro a ottobre è stata del 2,9 per cento, contro il picco del 10,6 di ottobre del 2022.

L’inflazione è ancora a livelli elevati ed è probabile che i tassi di interesse resteranno alti ancora a lungo per farla scendere ulteriormente. È comunque scesa molto, ma la recessione che ci si attendeva, l’hard landing, non c’è stata. Al contrario gli Stati Uniti hanno un’economia che va molto bene: la disoccupazione è al 3,9 per cento, leggermente sopra i livelli di prima della pandemia ma comunque a un livello piuttosto basso; il PIL continua a salire, nel terzo trimestre di quest’anno è cresciuto del 4,9 per cento (molto sopra le aspettative) e a livello annuale dovrebbe crescere complessivamente del 2,1 per cento.

Anche l’Eurozona ha un’economia che va bene, benché in modo meno dirompente rispetto a quella statunitense perché ci sono più incertezze e problemi, soprattutto legati a una difficile situazione economica della Germania. A parte una breve e lieve recessione tra la fine del 2022 e l’inizio di quest’anno, il PIL è tornato in crescita e secondo le stime per il 2023 dovrebbe finire con un rialzo dello 0,7 per cento. La disoccupazione è al 6 per cento, un livello addirittura inferiore rispetto a prima della pandemia. Per ritrovare valori simili bisogna andare indietro fino a prima della crisi finanziaria del 2008.

Con questi dati sono tutti più o meno concordi sul fatto che anche le prospettive per il prossimo anno saranno più o meno di stabilità rispetto a quest’anno e che quindi la condizione sia molto più vicina a uno scenario di soft landing. Per gli Stati Uniti era ormai piuttosto accertato: fino a poco tempo fa, tra gli economisti il gruppo di chi prevedeva questo scenario era piuttosto ristretto (e spesso veniva anche accusato di incauto ottimismo), mentre ora lo danno quasi come certo anche alcuni tra gli economisti più importanti, come il premio Nobel ed editorialista del New York Times Paul Krugman e la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti ed ex presidente della FED Janet Yellen.

Per l’Eurozona le cose sono ancora incerte, anche perché la crescita non è altrettanto forte. Tuttavia, nel periodico aggiornamento delle previsioni economiche il Fondo Monetario Internazionale lo vede come lo scenario più probabile.

Non esiste comunque una definizione univoca e quantitativa di soft e hard landing o delle soglie oggettive che dividono l’uno dall’altro scenario: generalmente si ritiene che il soft landing sia quella condizione in cui le politiche per ridurre l’inflazione non causino una grave recessione e un aumento serio del tasso di disoccupazione, ma rientrano comunque in questa definizione i casi in cui ci siano anche solo lievi contrazioni dell’economia o aumenti contenuti della disoccupazione.

Secondo la Brookings Institution, un centro di ricerca statunitense che si occupa di politiche economiche, una possibile definizione di soft landing potrebbe riguardare tutti quei casi in cui l’economia non si contrae più dell’1 per cento dopo i rialzi dei tassi di interesse. Al contrario, l’hard landing prevede una recessione profonda. Un esempio è quello che riguardò l’economia statunitense all’inizio degli anni Ottanta, quando ci fu profonda recessione e il tasso di disoccupazione superò il 10 per cento (un valore altissimo per gli Stati Uniti) come conseguenza delle decisioni dell’allora presidente della FED Paul Volcker, che aumentò i tassi di interesse fino al 19 per cento per contrastare l’aumento dei prezzi generato dalle due crisi petrolifere degli anni Settanta.

L’inflazione degli anni Settanta e Ottanta è stato il termine di paragone più calzante per ciò che si è riproposto negli ultimi due anni e molti pensavano che infine anche il percorso successivo sarebbe stato simile. L’hard landing era dunque ritenuto lo scenario più probabile all’inizio dello scorso anno. Allora l’economia stava uscendo dalla crisi creata dalla pandemia, sebbene con tutte le storture e le difficoltà che c’erano, tra la crisi dei commerci globali e la carenza di materie prime. Poi è iniziata anche la guerra in Ucraina, che ha innescato la crisi energetica e aggravato tutte le cause che stavano facendo aumentare i prezzi. Gli scenari erano dunque già molto preoccupanti, quindi era ritenuto probabile che il rialzo dei tassi di interesse potesse essere l’ennesimo colpo da infierire a un’economia già diretta verso una crisi.

L’obiettivo dell’aumento dei tassi di interesse è quello di “raffreddare” un’economia che sta crescendo troppo, e che in gergo viene definita “surriscaldata”. È un’economia in cui le persone vogliono consumare molto di più di quanto il sistema riesca a produrre: la domanda supera di molto l’offerta, con un conseguente aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione. Semplificando molto, con tassi più alti fare investimenti e consumi diventa meno conveniente: per esempio, diventa più costoso chiedere un mutuo per comprare una casa, un prestito per comprare un’auto, o un finanziamento per aprire una nuova impresa. Il risultato è che spesso consumatori e imprenditori rimandano gli investimenti, provocando così un rallentamento dell’economia e dunque una diminuzione dell’inflazione: si compra meno, si investe meno, e i prezzi smettono di crescere.

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