Urca urca tirulero, “Robin Hood” fu un riciclo

Uno dei classici Disney più amati, uscito 50 anni fa, fu realizzato recuperando scene, personaggi e musiche dai film precedenti

Un fermo immagine da Robin Hood (Disney)
Un fermo immagine da Robin Hood (Disney)
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All’inizio degli anni Settanta la Walt Disney Productions, l’attuale Walt Disney Company, stava attraversando un periodo difficile dal punto di vista creativo. Walt Elias Disney, fondatore dell’azienda e supervisore di tutti i “classici” (come oggi definiamo la serie di lungometraggi animati che la Disney iniziò a produrre a partire dal 1937, con l’uscita di Biancaneve e i sette nani) realizzati fino a quel momento, morì nel 1966 a causa di un collasso cardiocircolatorio. Negli anni successivi la gestione dell’azienda passò a Card Walker, che decise di prendere una direzione differente e di concentrare gli sforzi sulla realizzazione di film in live action (cioè con attori veri).

Le risorse destinate ai cartoni diminuirono e, per ridurre i costi, gli animatori dovettero arrangiarsi in vari modi. Uno di questi fu il riutilizzo di scene estrapolate da film realizzati in precedenza, espediente che consentiva di risparmiare e velocizzare il lavoro. Nessun classico della Disney è rimasto influenzato da questo contesto e da queste esigenze quanto Robin Hood, che uscì nei cinema degli Stati Uniti l’8 novembre 1973, cinquant’anni fa, e che per questo motivo è poco apprezzato dalla critica specializzata, pur rimanendo uno dei film di animazione più amati e ricordati da diverse generazioni.

Dopo la morte di Walt Disney la direzione dei lungometraggi animati fu affidata a Wolfgang Reitherman, uno dei “Nine Old Men”, soprannome che Disney aveva dato a un gruppo di nove animatori esperti che partecipò alla realizzazione dei primissimi classici, come Biancaneve, Fantasia e Dumbo. Reitherman diresse tutti i film d’animazione che la Disney realizzò tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, un periodo considerato di declino per la compagnia (anche a causa dei budget sempre più ridotti che venivano destinati agli autori) e, non a caso, definito da una parte di appassionati come “Dark Era”, epoca oscura.

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Uno dei film più rappresentativi di quegli anni fu Robin Hood, il ventunesimo classico Disney. Tra le altre cose, fu il primo lungometraggio animato in cui Walt Disney non venne coinvolto in alcun modo: aveva infatti partecipato alla produzione del Libro della Giungla (1967) e degli Aristogatti (1970), anche se entrambi i film furono ultimati dopo la sua morte. Reitherman e lo sceneggiatore Ken Anderson si lasciarono però ispirare da un’idea che Disney aveva in mente già di sviluppare negli anni Quaranta: la realizzazione di una trasposizione animata di Le Roman de Renart, una raccolta di brevi poemi in lingua francese risalente al Dodicesimo secolo e incentrata sulle avventure di Renart, una volpe che vive in un regno abitato da altri animali.

Disney, però, accantonò l’idea perché riteneva che un personaggio come Renart (che nelle storie originali raggirava spesso gli altri animali del regno per raggiungere i propri obiettivi) potesse risultare ambiguo per il suo pubblico di riferimento, composto principalmente da bambini. Reitherman e Anderson decisero così di riprendere l’idea di Disney e di adattarla al mito dell’eroe popolare inglese Robin Hood, un fuorilegge (o, in altre versioni, un nobile arciere fedele al re Riccardo Cuor Di Leone) protagonista di molte ballate che si diffusero nell’Inghilterra del Tredicesimo secolo.

Secondo la docente di storia medievale Esther Liberman Cuenca, si trattò comunque di una scelta potenzialmente rischiosa a livello di immagine e percezione da parte del pubblico: Robin Hood, infatti, rimaneva un personaggio moralmente ambiguo, proprio come Renart. Inoltre, ricorda sempre Cuenca, probabilmente Reitherman e Anderson sottovalutarono un aspetto: il motto «rubare ai ricchi per dare ai poveri», ripetuto spesso dal Robin Hood della Disney, avrebbe potuto dare al film una connotazione troppo politica e indurre la critica a etichettarlo come “socialista”. Questo rischio, però, fu scongiurato: dopo l’uscita del film nei cinema statunitensi, la critica espresse pareri positivi nei confronti del film, e nessuno si soffermò sul suo eventuale significato “politico”.

La storia segue le vicende di una volpe di nome Robin Hood, del suo amico orso Little John e degli abitanti di Nottingham, che combattono contro le ingiustizie del principe Giovanni, un avido leone che governa al posto di suo fratello, il re Riccardo, partito per le Crociate.

Quando critici e addetti ai lavori parlano di Robin Hood, spesso si soffermano sulle molte scene “riciclate” da altri cartoni e inserite nel film. In effetti, il gruppo di animatori che lavorò al lungometraggio utilizzò diversi fotogrammi estrapolati da altri classici Disney, riadattando le immagini in base alle esigenze del caso.

A questo proposito viene citata in particolare la famosa sequenza musicale chiamata “The Phony King of England” (Il re fasullo di Inghilterra), che è un collage di animazioni riprese da alcuni lungometraggi Disney: Biancaneve e i sette Nani (1937), Il libro della Giungla (1967) e Gli Aristogatti (1970).

Anche la caratterizzazione di alcuni personaggi si basò su disegni realizzati in passato: lo si percepisce in particolare nei casi di Little John e Sir Biss, che sono identici all’orso Baloo e al pitone Kaa del Libro della Giungla. Persino i vestiti furono ripresi da classici precedenti: l’abbigliamento di Robin Hood è uguale quello di Peter Pan (1953), mentre il principe Giovanni indossa la stessa vestaglia del Re Leone, uno dei personaggi secondari di Pomi d’ottone e manici di scopa, un film realizzato in tecnica mista (animazione e live action) e uscito nel 1971. Per quanto riguarda il comparto sonoro, le musiche realizzate dal compositore George Burns furono affiancate da motivetti ed effetti sonori presi da altri cartoni, come gli Aristogatti, La bella addormentata nel bosco (1959) e Cenerentola (1950). Inoltre, nel corso del film alcune sequenze vennero ripetute più volte, per esempio quelle in cui compare il personaggio dello Sceriffo di Nottingham, l’esattore delle tasse del principe Giovanni, antagonista secondario del film.

Per questi motivi, Robin Hood è ricordato come uno dei classici Disney che fecero più ampio utilizzo del riciclo di materiali precedenti. In realtà, non si trattava di qualcosa di particolarmente scandaloso: ai tempi riutilizzare fotogrammi di vecchie opere era una pratica piuttosto normale, anche perché non c’erano ancora le videocassette né tantomeno internet, e non ci si poneva il problema che qualcuno, in futuro, avrebbe potuto farci caso.

Se oggi i professionisti del settore lavorano soprattutto ai computer o su apposite tavolette grafiche (strumenti che permettono di disegnare a mano direttamente sul computer) quando Robin Hood uscì al cinema l’animazione era ancora un lavoro artigianale e quasi del tutto fatto a mano. “Quasi del tutto” perché, con il passare del tempo, furono perfezionate alcune tecniche che consentirono di velocizzare il lavoro, come l’uso di fogli lucidi sovrapposti tra loro per evitare agli illustratori di ridisegnare ogni volta, per ogni immagine, tutta la scena (quando magari a muoversi era solo una bocca di un personaggio). O anche grazie alla scelta di far muovere solo certe figure in primo piano e di lasciare uno sfondo fisso.

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Nella prima metà del Novecento, il metodo che ebbe maggiore diffusione fu il cosiddetto rotoscopio, brevettato dai fratelli Max e Dave Fleischer (autori di personaggi famosi come Braccio di Ferro e Betty Boop) nel 1915: in sostanza, venivano girate delle scene vere e proprie, con la partecipazione di attori reali, che poi venivano proiettate su un pannello di vetro traslucido e ricalcate, fotogramma per fotogramma, per ottenere delle figure disegnate più realistiche e dinamiche.

Questi metodi diventarono indispensabili per rispettare quello che divenne piuttosto in fretta lo standard dei “24 fotogrammi al secondo”: per dare all’occhio l’illusione di un movimento fluido, gli animatori dovevano, per ogni secondo, disegnare e colorare 24 immagini. Che vuol dire quasi 1.500 immagini per ogni minuto. È facile capire, insomma, perché si cercassero modi per semplificare un po’ il lavoro.

Il riutilizzo da parte di Disney di certi suoi vecchi disegni per i suoi nuovi film fu quindi, semplicemente, uno di quei modi. Negli anni si diffuse la convinzione che questo espediente servisse a risparmiare tempo e denaro. Alcuni lavoratori del settore, però, nel tempo hanno proposto interpretazioni diverse: ad esempio, in un’intervista data a GeekDad nel 2015, Floyd Norman (il primo animatore afroamericano a lavorare per Walt Disney) disse che ridisegnare delle sequenze esistenti «è più difficile e richiede più tempo», e che «è molto più semplice e veloce realizzare nuove animazioni da zero». Il “riciclo”, infatti, costringeva gli animatori a trascorrere molto tempo negli archivi per cercare le immagini che desideravano, e poi altro ancora per adattarle al film che stavano realizzando. Reitherman fu uno dei più convinti sostenitori di questa pratica, che negli anni divenne uno dei tratti distintivi del suo lavoro: «Gli piaceva andare sul sicuro e utilizzare cose che sapeva avrebbero funzionato», disse a questo proposito Norman.

Non tutti gli animatori della Disney comunque vedevano di buon occhio la possibilità di utilizzare immagini di vecchi film. Uno di loro era Milt Kahl, che lavorò alla realizzazione di diversi film d’animazione, tra cui proprio Robin Hood. In un’intervista del 1976 data allo storico dell’animazione Michael Barrier, autore di una famosa biografia di Walt Disney, Kahl espresse giudizi negativi sull’operato di Reitherman e sul suo periodo alla direzione dei lungometraggi animati. «Mi spezza il cuore», disse Kahl parlando del riutilizzo di una sequenza di Biancaneve, un film del 1937, in Le avventure di Bianca e Bernie, uscito quarant’anni dopo. «Mi uccide e mi mette in imbarazzo fino alle lacrime», aggiunse.

Reitherman la pensava diversamente: in una delle puntate della serie Disney Family Album, che racconta le vite di vari importanti animatori della Disney, disse che alcune scene dei classici erano diventate talmente famose e apprezzate che non riutilizzarle sarebbe stato uno spreco: dal suo punto di vista, insomma, il “riciclo” rappresentava un omaggio al lavoro delle generazioni di animatori precedenti.

In ogni caso, ai tempi Robin Hood fu accolto favorevolmente da pubblico e critica: Judith Crist scrisse sulla rivista New York di averlo trovato «di classe» e che «non insulta l’intelligenza dei bambini e neppure quella degli adulti», Vincent Canby del New York Times lo descrisse come «incantevolmente convenzionale», mentre Charles Champlin del Los Angeles Times sottolineò che «i tratti distintivi della Disney ci sono come sempre: l’animazione incomparabilmente ricca e completa, i personaggi umanizzati vivaci, individuali e incantevoli». Tuttavia, una piccola parte della critica del tempo si rese conto che in Robin Hood c’era qualcosa di già visto: ad esempio, in una recensione pubblicata dallo Hollywood Reporter pochi giorni dopo l’uscita del film, Alan R. Howard scrisse che, pur avendo apprezzato la maggior parte del film, considerava l’ultimo segmento «monotono e poco interessante», un «rimaneggiamento di tecniche Disney familiari».

Decenni dopo una parte di critica ha cambiato idea su Robin Hood, soprattutto perché, con la diffusione di internet e la pubblicazione di decine di video, la questione del riciclo delle immagini è diventata di pubblico dominio. Su Rotten Tomatoes, sito che aggrega recensioni in lingua inglese e le sintetizza in una percentuale che esprime quante di queste siano positive, Robin Hood ha ottenuto un gradimento del 58% ed è stato definito «uno degli adattamenti Disney più deboli». Su questo giudizio, condiviso soprattutto da esperti e appassionati di animazione, prevale comunque un esteso affetto per Robin Hood, diffuso tra diverse generazioni che, al di là delle convenzioni storiche, lo considerano insieme agli Aristogatti ancora un film del periodo classico della Disney, e non uno dei primi della cosiddetta “epoca oscura” degli anni Settanta e Ottanta.

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