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  • Martedì 31 ottobre 2023

Chi sono gli israeliani?

Quando si parla di Israele si parla di una popolazione a maggioranza ebraica, ma sorprendentemente eterogenea

(David Silverman/Getty Images)
(David Silverman/Getty Images)
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Molto spesso i media parlano di Israele come di “stato ebraico”: è una definizione tendenzialmente corretta che però trascura la notevole diversità che esiste all’interno del paese. Definire la composizione della popolazione israeliana, “chi sono gli israeliani”, è sorprendentemente complesso, ma può aiutare a capire meglio alcune caratteristiche storiche e politiche di Israele e il suo rapporto controverso e conflittuale con la popolazione araba e palestinese.

Secondo gli ultimi dati, che risalgono a settembre del 2023, la popolazione di Israele è composta da 9,7 milioni di persone. Di queste, il 73,3 per cento sono ebrei, il 21,1 per cento sono arabi (cioè cittadini palestinesi di Israele) e il 5,6 per cento sono classificati come “altri” (categoria che comprende per esempio i cristiani non arabi, alcune fazioni ebraiche lontane dall’ortodossia e così via). All’interno di queste classificazioni apparentemente semplici, però, ci sono enormi differenze e varietà.

Il sistema politico israeliano, peraltro, è stato pensato proprio per dare rappresentanza a tutte queste componenti e minoranze estremamente varie. È un sistema politico proporzionale puro, che consente l’elezione anche di partiti piuttosto piccoli ma che, negli anni, ha portato a una grossa instabilità politica.

Israele
La prima questione complicata per definire la popolazione di Israele è definire Israele. Lo stato israeliano, in contrasto con numerose risoluzioni dell’ONU, occupa militarmente alcuni territori che dovrebbero appartenere all’Autorità palestinese o, come nel caso delle alture del Golan, alla Siria. Per questo vari governi cercano di distinguere tra gli israeliani che vivono nel territorio dello stato riconosciuto dalla legge internazionale e i coloni, cioè coloro che vivono in territori che Israele controlla illegalmente, come parte della Cisgiordania.

Per esempio il “World Factbook”, una pubblicazione della CIA, l’agenzia d’intelligence statunitense, conteggia separatamente le persone che vivono in Israele dai coloni, pur considerando tutti israeliani allo stesso modo (ma anche qui ci sono distinzioni politiche, perché nel 2019, sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti riconobbero la sovranità di Israele sulle alture del Golan, e quindi gli abitanti di quella regione ora non sono più considerati “coloni” dal governo americano).

– Leggi anche: La cronologia del conflitto israelo-palestinese

Ebrei
La definizione di “stato ebraico” associata a Israele non è semplicemente un modo per dire che i due terzi della popolazione del paese sono ebrei, ma è il centro del progetto politico dello stato. Dopo la Shoah, cioè il genocidio di milioni di ebrei da parte della Germania nazista e dei suoi alleati durante la Seconda guerra mondiale, Israele nacque con l’obiettivo di costruire uno stato che avrebbe accolto e protetto gli ebrei e avrebbe garantito loro un luogo sicuro dove vivere.

Il simbolo più forte di questo progetto politico è la “Legge del ritorno”, che fu approvata nel 1950 e poi più volte emendata e che garantisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di trasferirsi in Israele e di ricevere automaticamente la cittadinanza (senza per questo perdere la cittadinanza del loro paese d’origine). Questo non vale per tutti gli altri: i non ebrei che vogliono diventare cittadini di Israele devono risiedere nel paese per almeno tre anni, dimostrare di avere una certa conoscenza della lingua ebraica e rinunciare alla loro cittadinanza precedente.

Questa particolare condizione rende necessario trovare una definizione di chi è ebreo e chi non lo è, cosa su cui in Israele si discute di fatto da decenni. Semplificando molto un dibattito enorme, possiamo dire che nello stato di Israele sono utilizzate due differenti definizioni. Una, più lasca, è quella che serve per applicare la Legge del ritorno: ha diritto a goderne chiunque abbia un parente ebreo (da parte di padre o di madre) o si sia convertito alla religione ebraica (con certe limitazioni). Non ne hanno diritto invece gli ebrei che si siano convertiti a un’altra religione.

Sopravvissuti alla Shoah arrivano in Israele nel 1945 (Zoltan Kluger/GPO via Getty Images)

C’è poi una seconda definizione che aderisce più strettamente all’ortodossia religiosa e che viene usata dal ministero dell’Interno israeliano per definire chi è ebreo nelle procedure civili, e che prevede che possa essere definito ebreo soltanto chi lo è per discendenza matrilineare (quindi ha la madre o la nonna materna ebree). Questo fa sì per esempio che attualmente in Israele vivano decine di migliaia di persone che immigrarono nel paese negli anni Novanta dall’ex Unione Sovietica, che poterono godere della Legge del ritorno ma che non sono considerate formalmente ebree perché la discendenza ebraica proveniva dalla parte paterna della famiglia. Queste persone si autodefiniscono ebree, ma nei censimenti e nei dati forniti dal governo israeliano sono inserite tra gli “altri”, e non tra gli “ebrei”.

In ogni caso, la Legge del ritorno ha fatto sì che, nei decenni, nello stato di Israele arrivassero ebrei provenienti da ogni parte del mondo.

La distinzione tradizionale tra gli ebrei – quella che si trova anche sui libri di scuola – è tra ashkenaziti e sefarditi. Questa distinzione è antica di secoli e ha origine nella diaspora del popolo ebraico in Europa, Africa e Asia. Gli ashkenaziti (la parola significa: germanici) sono gli ebrei che dopo la diaspora si stabilirono nell’Europa centrale e dell’est, mentre i sefarditi (la parola proviene dall’ebraico per Spagna) sono gli ebrei che nel 1492 furono cacciati dalla Spagna e si stabilirono principalmente nell’Africa settentrionale. La fondazione di Israele nel 1948, però, ha complicato le cose e fatto spostare alcuni significati.

Oggi gli ebrei ashkenaziti sono quelli originari dell’Europa ma anche di altri luoghi genericamente identificati come l’Occidente, come l’America del nord (anche perché quasi tutti gli ebrei dell’America del nord arrivarono dall’Europa). Quasi tutti gli altri ebrei, cioè quelli che provengono da Africa, Medio Oriente e Asia, sono invece identificati come mizrahi (che significa orientali). In alcuni contesti questa categoria ha finito per inglobare quella di sefarditi, anche se dipende molto dai casi.

Un aspetto piuttosto controintuitivo della popolazione ebraica di Israele è che gli ebrei mizrahi, originari cioè di Africa e Asia, sono di gran lunga la maggioranza. Non esistono conteggi ufficiali, ma vari studi hanno stimato che gli ebrei israeliani siano al 45 per cento mizrahi e al 30 per cento ashkenaziti, cioè di origine europea (ci sono poi moltissime altre comunità ebraiche dentro a Israele).

Questo fatto viene spesso contrapposto a chi, soprattutto in Occidente, cerca di inquadrare quello israelo-palestinese come un conflitto postcoloniale, o addirittura razziale, che mette in contrapposizione una popolazione “bianca” ed “europea” che opprime una popolazione “di colore”. In realtà oggi la maggior parte della popolazione ebraica di Israele proviene da paesi come il Marocco, l’Egitto e l’Iraq, soltanto per citarne alcuni.

Un altro elemento piuttosto importante da ricordare: mentre il 44 per cento degli ebrei di Israele si definisce “laico”, gli ultraortodossi, cioè gli ebrei fondamentalisti religiosi, sono il 14 per cento della popolazione. La percentuale di ultraortodossi è destinata ad aumentare, perché è la comunità che fa di gran lunga più figli: soltanto nel 2009 era il 10 per cento della popolazione. Alla lunga, questo potrebbe cambiare notevolmente la demografia e la politica dello stato di Israele: si ritiene che, soprattutto nei prossimi anni, la crescita della popolazione ebraica arriverà quasi esclusivamente dalla comunità ultraortodossa.

– Leggi anche: Quando iniziò tutto, tra Israele e Palestina

“Arabi”
I cittadini palestinesi di Israele – che il governo israeliano definisce “arabi” – costituiscono più del 20 per cento della popolazione. Fanno parte di Israele fin dalla fondazione e sono stati quasi sempre oggetto di un qualche tipo di discriminazione.

La comunità palestinese israeliana ebbe le sue origini dalla Nakba, il grande esodo dei palestinesi dopo la guerra del 1948 tra Israele da una parte e i paesi arabi e i palestinesi dall’altra. Israele vinse la guerra e occupò ampi territori abitati da palestinesi, che furono costretti a fuggire in Giordania e in Libano: circa 700 mila persone lasciarono le proprie case. Rimasero però meno di 200 mila palestinesi, da cui oggi discende il grosso dei palestinesi israeliani.

I cittadini palestinesi di Israele sono dunque un gruppo differente rispetto sia ai palestinesi della Cisgiordania, che sono governati dall’Autorità palestinese e non sono cittadini israeliani, sia ai palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, che sono governati da Hamas.

I palestinesi rimasti dopo la Nakba del 1948 ottennero quasi immediatamente la cittadinanza israeliana: due politici palestinesi furono eletti nella prima Knesset, cioè nel primo parlamento israeliano. Al tempo stesso, però, subirono subito forme di discriminazione. Fino al 1966 furono sottoposti alle legge marziale, che consentiva al governo israeliano di imporre coprifuoco, arresti arbitrari e di rendere necessari permessi speciali per viaggiare. Questa condizione di subalternità, tra le altre cose, permise allo stato israeliano di espropriare la gran parte delle terre di proprietà di famiglie palestinesi. Tuttora i palestinesi israeliani vivono a maggioranza nelle zone più povere e meno sviluppate di Israele.

Dal 1966, i cittadini palestinesi di Israele hanno formalmente tutti i diritti e i doveri degli altri cittadini israeliani, tranne la leva obbligatoria (che per gli arabi è facoltativa). Subiscono tuttavia ancora varie forme di discriminazione economica e sociale.

Una donna araba a Taybeh, nel centro di Israele (AP Photo/Ariel Schalit)

I cittadini palestinesi di Israele hanno una rappresentanza politica piuttosto articolata: hanno sempre eletto vari partiti nel parlamento israeliano, e per la prima volta nel 2021 riuscirono a formare una coalizione ed entrare nel governo, anche se quell’esecutivo durò soltanto pochi mesi.

I cittadini palestinesi di Israele sono per oltre l’80 per cento musulmani, anche se c’è una buona rappresentanza di cristiani (circa il 9 per cento: di fatto circa l’80 per cento dei cristiani israeliani è arabo) e di drusi (che professano una religione di derivazione musulmana e anche in questo caso sono circa il 9 per cento).

Le dinamiche demografiche tra gli ebrei israeliani e i palestinesi israeliani sono da tempo al centro di enormi conflitti, preoccupazioni e polemiche, soprattutto da parte della destra israeliana e degli ebrei più ortodossi, che vedono nell’aumento della popolazione palestinese israeliana una minaccia al progetto politico di uno stato ebraico, cioè di uno stato governato da ebrei. Per questo nel corso degli anni ci sono state numerose iniziative per rendere più complicato ai palestinesi ottenere la cittadinanza israeliana.

Per esempio, nel 2003 fu approvata una legge che vieta agli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza di ottenere la cittadinanza israeliana – o perfino un permesso di soggiorno – anche se sposano un cittadino o una cittadina israeliana. La legge, approvata inizialmente come misura di emergenza in un periodo di forti scontri, è stata rinnovata più volte, l’ultima l’anno scorso. Sempre negli ultimi anni la destra israeliana ha spinto per formalizzare l’idea di Israele come stato unicamente ebraico, facendo tra le altre cose approvare una legge in cui il paese è definito «stato della nazione ebraica» e in cui soltanto l’ebraico è considerato lingua ufficiale.

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