Il Financial Times si è accorto del nostro “inglese farlocco”

Negli Stati Uniti o nel Regno Unito nessuno capisce cos'è un “self-bar” o un “lifting”, o cosa fa una persona in “smart working”

Adriano Celentano e Claudia Mori al Festival di Sanremo nel 1968 (ANSA/OLDPIX)
Adriano Celentano e Claudia Mori al Festival di Sanremo nel 1968 (ANSA/OLDPIX)

In un articolo uscito questa settimana il Financial Times ha definito “inglese farlocco” – così, in italiano – quelle parole di uso comune nella nostra lingua che sembrano provenire dall’inglese ma che fuori dall’Italia nessuno capisce, perché hanno un significato diverso oppure nemmeno esistono. La giornalista Amy Kazmin ha scritto di quanto sia strano per lei vedere per esempio i distributori automatici di bevande e snack chiamati self-bar, parola ibrida che non esiste in inglese, oppure sentire parlare di pullman (che prende nome dall’imprenditore George Pullman) e autostop, due parole che gli italiani usano sempre, ma i cui veri corrispettivi inglesi sono intercity bus e hitchhiking.

Con la canzone “Prisencolinensinainciusol” del 1972 Adriano Celentano inventò un linguaggio che scimmiottava i suoni e la cadenza dell’inglese, e in particolare dell’inglese americano, con risultati formidabili che ciclicamente peraltro attraggono l’attenzione degli utenti anglofoni sui social network, grazie a nuovi momenti di viralità del video. Ma quello di cui parla Kazmin è un’altra cosa: si tratta di termini composti dall’unione di parole inglesi esistenti, oppure di parole usate comunemente in inglese che in italiano hanno assunto significati completamente diversi, che vengono definiti pseudoanglicismi.

Altre due espressioni di questo tipo sono smart working per indicare il lavoro da casa (che in inglese si chiama remote work e che in italiano diventa anche “lavoro in smart“) e green pass, ossia il documento che attesta la vaccinazione contro il Covid-19. Anche i beauty case, i bloc notes, le baby gang e i telefilm sono chiamati diversamente nei paesi anglofoni, nonostante qui abbiano nomi inglesi.

Il Financial Times ha chiesto chiarimenti alla linguista Licia Corbolante, secondo la quale l’infatuazione degli italiani per l’inglese è iniziata durante la Seconda guerra mondiale, quando le truppe alleate ebbero un importante ruolo nella liberazione del paese dal nazifascismo. Come in molti altri paesi del Sud Europa, l’insegnamento dell’inglese non è centrale nel sistema scolastico italiano (nelle scuole primarie è formalmente obbligatorio soltanto dagli anni Duemila), e intere generazioni non l’hanno imparato correttamente, nonostante la musica e la cultura anglosassone fossero molto popolari.

Anche per questo è stato possibile il diffondersi di quello che il Financial Times definisce “inglese farlocco”, che in certi casi, pur essendo formalmente scorretto, ha assunto la funzione di segnalare cosmopolitismo ai propri interlocutori. «Se usi l’inglese trasmetti l’idea di modernità, freschezza, progresso tecnologico e, in un certo senso, status» e quindi le parole inglesi diventano «come contenitori vuoti che possono essere riempiti con qualunque significato si voglia attribuire loro», spiega Corbolante.

La lingua italiana infatti non è solo piena di ibridi che all’estero non hanno senso, ma anche di parole che esistono ma che da noi prendono significati alternativi, come ad esempio la parola golf, che in inglese indica solo lo sport, ma che in italiano si usa come sinonimo di maglione (sweater in inglese). In inglese, to lift significa “sollevare” e viene anche usato per indicare l’azione di alzare pesi in palestra, mentre il lifting in italiano è una procedura estetica, che in inglese si dice facelift. Poi ci sono i nomi dati alle leggi, come il Jobs Act di Matteo Renzi, o a eventi particolari come i click day, ossia giorni in cui si può prenotare online qualcosa che di solito ha a che fare con la pubblica amministrazione.

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Gli italiani sono così abituati a “inglesizzare” le parole che il termine francese stage, che significa tirocinio e si dice “staj”, viene spesso pronunciato all’inglese, “steig”, che però significa palco. Anche la parola hotspot in inglese indica tante cose, fra cui la funzionalità presente nei telefoni di fornire una connessione internet per altri dispositivi, ma non viene mai usata per indicare i luoghi dove vengono portate e identificate le persone migranti appena arrivano in un nuovo paese. Il termine in realtà si è diffuso a partire da un documento della Commissione Europea del 2015 chiamato Agenda per la migrazione, e quindi non è una parola che è stata creata e viene usata solo in Italia, anche se qui è molto diffusa con questo significato.

A queste parole, che sono solo una parte dei termini che rientrano nella categoria dell’inglese “farlocco”, si aggiungono anche tutte quelle espressioni che provengono dall’italianizzazione di parole inglesi, come “brieffare” e “schedulare un meeting”, usate quando nell’ambito lavorativo si vuole riassumere ad un collega il lavoro che è stato fatto o si vuole pianificare una riunione. Fra i giovani, molti di questi termini provengono dal linguaggio di internet. Ad esempio, una “boomerata” è una cosa che farebbe un boomer, cioè una persona nata fra gli anni Quaranta e Sessanta. In questa categoria rientrano anche tutti i termini derivati dall’espressione cringe, che in inglese descrive una sensazione di imbarazzo e disagio e che in Italia i ragazzi talvolta declinano in “cringiare” o “fare una cringiata”.

Di fronte all’uso considerato da alcuni spropositato dell’inglese nella lingua italiana, anche quando si tratta di termini che non esistono in altri paesi, alcuni membri di Fratelli d’Italia avevano proposto a marzo di vietare l’inglese in qualsiasi comunicazione pubblica, con multe fino a 100mila euro. L’articolo del Financial Times fa però notare come l’attuale governo abbia istituito un ministero per il Made in Italy e che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si sia definita più volte un underdog, cioè una persona che all’inizio era considerata una perdente ma che poi ha vinto.