Che cosa fu la italo disco

Il genere musicale che ha dato il nome a una delle canzoni più ascoltate dell'estate fece ballare mezzo mondo tra gli anni '70 e '80

(Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
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Tra le canzoni più ascoltate dell’estate in Italia c’è “Italodisco”, singolo del trio pop italiano The Kolors, attualmente al primo posto nella classifica della FIMI, la Federazione Industria Musicale Italiana, e in quella di EarOne, che permette di conoscere in tempo reale quali sono le canzoni e gli artisti più trasmessi in radio e televisione. “Italodisco” ha totalizzato più di 50 milioni di ascolti su Spotify, mentre il video ha superato i 12 milioni di visualizzazioni su YouTube.

La canzone riprende alcuni suoni e cita esplicitamente, fin dal titolo, la disco music che veniva prodotta in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Nel testo vengono menzionati anche musicisti che in quel periodo resero quel tipo di musica famoso in tutto il mondo, come Giorgio Moroder e i Righeira, e anche il video è girato imitando l’estetica di quegli anni.

Il termine “italo disco” fu coniato da Bernhard Mikulski, un produttore discografico polacco emigrato in Germania. Nel 1971 Mikulski aveva fondato l’etichetta discografica indipendente ZYX, che tra le altre cose si specializzò nell’importazione di musica italiana in Germania e nel Nord Europa. Inizialmente la definizione aveva una motivazione puramente geografica: serviva per l’appunto a indicare il tipo di disco music – come si indicava la musica di generi diversi, spesso riconducibili al funk, pensata per essere ballata in discoteca – che veniva prodotta in Italia, e che Mikulski raccoglieva in alcune compilation dedicate.

Come accade spesso quando si cerca di stabilire l’origine di un genere musicale, le opinioni sulla nascita della italo disco sono discordanti: ad esempio, alcune persone ne fanno risalire le origini al 1974, con la pubblicazione del singolo “Nessuno mai”, scritto da Giancarlo Bigazzi e Gianni Bella e interpretato dalla sorella di quest’ultimo, Marcella. Altre ne attribuiscono la paternità ai fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda, altre ancora al musicista e produttore altoatesino Giorgio Moroder e al suo utilizzo innovativo dei sintetizzatori alla fine degli anni Settanta.

Come scrive il musicologo Dario Martinelli, l’espressione coniata da Mikulski acquisì una certa popolarità verso la fine degli anni Settanta, quando furono pubblicati dei singoli di successo come “Disco Bass” dei D. D. Sound (lo pseudonimo con cui erano conosciuti i fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda), “California U.S.A.” dei Barbados Climax e “Body To Body” dei Gepy & Gepy. Con l’inizio degli anni Ottanta, grazie al successo internazionale ottenuto da band e cantanti come Righeira, Baltimora, Gazebo e Jo Squillo, il termine “italo disco” smise di avere un’accezione soltanto geografica, e contribuì a definire uno stile musicale.

La diffusione fu tale che, da un certo momento in poi, il termine “italo disco” fu associato anche a musicisti non necessariamente  italiani, tra cui interpreti piuttosto popolari come il gruppo tedesco Boney M., l’austriaco Falco, l’inglese Tracy Spencer e il croato Sandy Marton. Inoltre, in quegli anni, anche artisti che in precedenza si erano dedicati a generi diversi, come il rock progressivo e melodico, decisero di convertirsi all’italo disco per via del suo successo commerciale: fu ad esempio il caso di Alan Sorrenti, che nel 1977 incise “Figli delle stelle”, e di Raf, che riscosse successo in Nord America con “Self Control”.

Come spiega Martinelli, le canzoni inquadrabili nel genere italo disco presentavano delle caratteristiche ricorrenti che le rendevano molto riconoscibili. I giri di basso erano caldi, incalzanti e ripetitivi, ispirati al funk, le melodie orecchiabili, spesso mixate e post-prodotte “all’italiana” (cioè, nel gergo degli ingegneri del suono, con le parti vocali più in evidenza rispetto al resto). Erano canzoni che si ballavano, in cui la sezione ritmica era centrale e l’accompagnamento di pianoforte e chitarra elettrica essenziale, e in cui compariva spesso il contrappunto dei fiati o degli archi.

Perlomeno inizialmente, tra gli anni Settanta e Ottanta, l’italo disco rimase legata alla disco music americana, nata nelle discoteche e popolare soprattutto nelle comunità afroamericane e LGBT delle grandi città. Gruppi come Earth, Wind and Fire, Bee Gees e Chic furono d’ispirazione per cantanti italiani come Pino D’Angiò, che con la sua “Ma quale idea” ottenne nel 1980 un enorme successo internazionale, arrivando per esempio in cima alle classifiche spagnole e olandesi. Umberto Tozzi e Raffaella Carrà furono altri cantanti italiani, a metà tra il pop e l’italo disco, che ottennero grande seguito all’estero in quegli anni.

Dell’italo disco viene spesso sottolineato l’aspetto “tecnologico”: nella maggior parte dei casi, le canzoni prevedevano l’utilizzo di un sintetizzatore, e spesso anche di un vocoder (l’apparecchio digitale spesso usato per rendere “elettronica” la voce dei cantanti) e di una drum machine, un dispositivo utilizzato per riprodurre suoni di batteria e percussione sintetizzati o campionati. In quegli anni, i sintetizzatori più utilizzati erano quelli prodotti dalla Moog e dalla Korg, mentre le drum machine più diffuse erano la Linn LM-1 e, a partire dal 1980, la più economica Roland TR–808.

Tra i più innovativi musicisti italiani che sfruttarono queste nuove tecnologie ci fu Moroder, nato e cresciuto in Val Gardena, che negli anni Sessanta si trasferì in Germania dove ebbe la fortuna di incontrare una giovane modella e cantante di nome Donna Summer, con la quale iniziò a scrivere canzoni pop modellate intorno agli arpeggi e alle sequenze dei suoi sintetizzatori. “Love To Love You Babe” e “I Feel Love” ebbero un successo pazzesco, consacrarono Summer e Moroder come icone della musica degli anni Settanta e Ottanta ed ebbero una grande influenza sullo sviluppo della italo disco negli anni successivi.

Nel documentario Italo Disco. Il suono scintillante degli anni ’80, uscito nel 2022, il compositore Pierluigi Giombini racconta come l’attenzione per le nuove tecnologie musicali fu un elemento fondamentale per il successo dell’italo disco, perché «l’uso di questi nuovi sintetizzatori costringeva il compositore a creare espressamente per questi strumenti». Sul punto concorda il collega Roberto Zanetti, che in quegli anni era conosciuto con il nome d’arte Savage: «Ogni due, tre mesi usciva una tastiera nuova. E questo dava al compositore e al produttore la possibilità di usare una palette sonora diversa». Stefano Righi, componente di uno dei gruppi più famosi di quel periodo, i Righeira, considera quell’attitudine a sperimentare nuove tecnologie propria dell’italo disco come un esempio di “futurismo”: «Noi eravamo futuristi (…), ci mettevamo in pose futuristiche, pose plastiche che indicavano il futuro, quando nel punk c’era stato chi diceva: “No future”».

L’interesse per il futuro e la tecnologia era presente anche nei testi, che in molti casi facevano riferimento a temi come la fantascienza, la cibernetica e lo spazio. Una caratteristica che si può riscontrare in canzoni come “Spacer Woman” di Charlie, “Cosmic Voyager” di Kano, “Robot is Systematic” di ‘Lectric Workers e “Vamos a la playa”, la canzone più famosa dei Righeira e una delle più rappresentative dell’italo disco. Il testo, scritto in spagnolo, richiama uno scenario postapocalittico: fa riferimento alla bomba atomica e a un “viento radioactivo” (vento radioattivo) che “despeina los cabellos” (spettina i capelli). A questo proposito, intervistato dal giornalista musicale noto con lo pseudonimo Demented Burrocacao su Vice, Johnson Righeira ha raccontato: «Volevo fare una canzone da spiaggia ma postatomica, con abbondante utilizzo di elettronica, e lì in quella cantina mi venne improvvisamente, mettendo le mani un po’ a casaccio su una tastiera… eh, mi venne in testa il ritornello di “Vamos a la playa” e devo dire che sicuramente è stato uno dei momenti più importanti della mia vita».

Nell’italo disco a essere “futuristiche” erano spesso anche le voci, che venivano rielaborate attraverso l’uso del vocoder per ricreare una specie di effetto “robotico”, come accade ad esempio in “Take a Chance” del 1983 di Mr. Flagio, gruppo che riuniva i produttori Aldo De Scalzi, Flavio Vidulich e Giorgio Bacco.

La tecnologia, però, non era l’unico argomento ricorrente dei testi: come spiega Martinelli, oltre alle canzoni d’amore, la italo disco aveva una spiccata «tendenza alla “meta-canzone”, cioè a rivolgersi alla canzone stessa, alle sue caratteristiche e funzioni sociali (pertanto: inviti a ballare, argomenti a favore del ritmo della canzone, descrizioni delle abilità cinetiche di un certo strumento musicale ecc.)».

Un’altra caratteristica dell’italo disco aveva a che fare con l’estetica: diversi produttori, visto il successo delle canzoni italo disco all’estero, iniziarono a scrivere canzoni in inglese per conquistare il mercato internazionale. In moltissimi casi queste canzoni venivano interpretate da persone che avevano poco o nulla a che fare con la musica, ma che erano molto funzionali allo scopo dal punto di vista dell’immagine. In sostanza, se nel disco serviva una voce, in copertina e nei video servivano un volto, un corpo e un look. E così capitava spesso che chi cantava non era l’artista sull’immagine di copertina. Fu, ad esempio, il caso di Den Harrow, uno dei volti più famosi di quel periodo: quando si esibiva non cantava per davvero, ma mimava in playback la voce di Tom Hooker, il vero cantante. Un altro caso famoso fu quello del frontman dei Baltimora, Jimmy McShane, che mimava la voce del produttore Maurizio Bassi.

I luoghi dove l’italo disco veniva suonata erano le discoteche: nel corso degli anni Settanta questi locali avevano iniziato a diffondersi nelle grandi città italiane come Milano e Roma, ma anche sulla riviera romagnola, dove alcune, come la Baia degli Angeli di Gabicce, acquisirono una fama internazionale. Altri locali solitamente citati quando si parla di italo disco sono lo Xenon di Scandicci, il Picchio Rosso di Formigine, il Kiwi di Piumazzo, il Mac2 di Modena, il Marabù di Reggio Emilia, l’Embassy di Rimini e l’Eden Discoteque a Piubega. Nel documentario Italo Disco. Il suono scintillante degli anni ’80, il sociologo dei processi culturali e comunicativi Ivo Stefano Germano sottolinea l’importanza di questi luoghi «molto democratici, preposti a una nuova forma di tempo libero» e fondamentali per l’affermazione dell’italo disco come fenomeno di costume.

In quegli anni di grande fermento creativo, artisti poco conosciuti contribuirono a caratterizzare il sound dell’italo disco grazie ad alcune produzioni che sul momento non raggiunsero il successo internazionale, ma che furono riscoperte anni dopo. Fu il caso del dj calabrese Salvatore Cusato, in arte “Casco”, che con la sua “Cybernetic Love” (1983) influenzò moltissimo la musica degli anni successivi. Su Vice, Angus Harrison ha scritto che «basta ascoltarla bene per sentire la nascita della techno di Detroit e della acid house».

Il successo dell’italo disco durò fino agli anni Novanta, quando cominciarono ad affermarsi nuovi artisti influenzati dalla musica house e techno come Gigi D’Agostino, Benny Benassi, Claudio Coccoluto e Amerigo Provenzano. Le loro canzoni inaugurarono una nuova stagione, quella della cosiddetta “italo dance”, la disco music prodotta in Italia tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, che perlopiù perse la dimensione legata agli strumenti tradizionali e diventò prettamente elettronica.

La italo disco ha continuato a essere un riferimento molto importante per la musica dance europea. I Daft Punk, duo francese tra i più importanti e acclamati esponenti della musica elettronica di sempre, presero ispirazione dai suoni e dalle idee della italo disco mettendone un po’ in diversi dischi, e nell’ultimo, Random Access Memories del 2013, dedicarono una canzone proprio a Moroder. Tra gli altri, in anni più recenti il gruppo napoletano dei Nu Genea ha rielaborato alcuni elementi della italo disco, genere molto frequentato nei loro concerti e nei loro dj set che recentemente, proprio per la riconoscibilità e per il fascino della musica dance italiana degli anni Settanta e Ottanta, hanno ottenuto un notevole successo internazionale.