• Mondo
  • Mercoledì 23 agosto 2023

I BRICS vorrebbero aggiungere altre lettere

Alla riunione in corso a Johannesburg si parla di invitare nuovi membri nel club dei paesi emergenti, ma ci sono sospetti e divergenze

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa dà un’onorificenza al presidente cinese Xi Jinping (AP Photo/Themba Hadebe)
Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa dà un’onorificenza al presidente cinese Xi Jinping (AP Photo/Themba Hadebe)
Caricamento player

Martedì è cominciata a Johannesburg, in Sudafrica, la quindicesima riunione dei BRICS, il gruppo di paesi emergenti composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica: BRICS è l’acronimo dei nomi di questi paesi. I BRICS esistono dall’inizio degli anni Duemila ma negli ultimi anni l’influenza del gruppo è progressivamente diminuita, anche a causa delle differenze tra i suoi membri. La riunione di Johannesburg è però molto attesa. Per la prima volta i BRICS stanno discutendo seriamente di accogliere altri grandi paesi in via di sviluppo, su iniziativa della Cina che vorrebbe fare del gruppo uno strumento di contrasto all’influenza mondiale del G7 e dell’Occidente.

L’allargamento dei BRICS è però un argomento piuttosto controverso tra i paesi membri, come lo è un po’ tutto. Il problema principale, e la ragione per cui finora il gruppo ha faticato a ottenere influenza nel mondo, sono le grosse differenze economiche, politiche e sociali tra i paesi che ne fanno parte.

Queste differenze si vedono bene dal modo in cui il gruppo dei BRICS è nato: almeno all’inizio non sulla base della volontà politica dei leader dei paesi che lo compongono, ma grazie all’inventiva di un banchiere statunitense. Nel 2001 Jim O’Neill lavorava nell’importante banca d’affari americana Goldman Sachs quando si inventò l’acronimo BRIC (al tempo mancava il Sudafrica) perché, ha scritto Bloomberg, «aveva bisogno di una sigla orecchiabile per identificare alcuni mercati che sembravano promettenti per gli investitori ma che altrimenti non avevano nient’altro in comune».

Quella sigla divenne estremamente famosa in breve tempo, al punto che nel 2009 i leader di Brasile, Russia, India e Cina decisero effettivamente di tenere una riunione congiunta e creare un club di grandi paesi emergenti. L’anno successivo invitarono il Sudafrica, che divenne la S di BRICS. Già al tempo molti dicevano che l’aggiunta del Sudafrica avesse soprattutto a che fare con il fatto che un club di paesi emergenti non poteva non avere al suo interno un paese africano. Il Sudafrica è però un paese molto più piccolo e periferico degli altri quattro BRIC, in termini di popolazione, di superficie e di forza della sua economia.

All’incontro di Johannesburg stanno partecipando di persona tutti i leader dei cinque paesi dei BRICS tranne uno: sono presenti il presidente cinese Xi Jinping, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, il primo ministro indiano Narendra Modi e ovviamente il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Il presidente russo Vladimir Putin partecipa soltanto in videoconferenza ed è sostituito dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov: se Putin fosse stato presente le forze dell’ordine sudafricane sarebbero state costrette ad arrestarlo a causa del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale a marzo. Il mandato riguarda il trasferimento forzato in Russia di migliaia di bambini ucraini provenienti dalle zone occupate dall’esercito russo.

Aggiungere lettere
Rispetto agli incontri degli anni passati, in cui i BRICS di fatto emettevano contro l’Occidente comunicati minacciosi ma rapidamente ignorati, quello di questi giorni a Johannesburg ha obiettivi che almeno in teoria sono molto più ambiziosi. Su spinta soprattutto della Cina, i BRICS vorrebbero invitare nel club altri paesi emergenti per poter creare un ampio blocco di stati capace di fare da contrappeso all’influenza che l’Occidente ha ancora oggi sulla politica e sull’economia mondiali.

Al momento non si sa quali potrebbero essere i nuovi paesi ammessi tra i BRICS, né con che tempi e in che modi avverrà questa espansione (non si sa nemmeno se l’acronimo sarà ulteriormente ampliato e diventerà via via più impronunciabile, oppure no). Parlando con i giornalisti, nei giorni scorsi l’ambasciatore sudafricano Anil Sooklal ha detto che ci sono già 22 paesi che hanno chiesto formalmente di entrare nei BRICS, e che altrettanti hanno avviato dei contatti informali. Sempre secondo Sooklal, i candidati più promettenti, quelli il cui ingresso potrebbe essere più rapido, sono Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti e Iran.

Dei quattro paesi giudicati più prossimi a entrare nei BRICS ce ne sono due – Arabia Saudita e Iran – che da decenni sono rivali in molte questioni diplomatiche e conflitti regionali. Soltanto da qualche tempo hanno cominciato a dialogare, ma il percorso di normalizzazione dei rapporti è ancora molto lungo.

Ma più che le divergenze tra i paesi candidati, il problema principale sono le divergenze tra i paesi attualmente membri. Il maggiore sostenitore dell’allargamento dei BRICS è la Cina, che vorrebbe usare il gruppo per crearsi un sistema di alleanze simile a quello degli Stati Uniti. Attualmente la Cina ha un trattato di mutua difesa con un unico paese al mondo, la Corea del Nord, e benché abbia intensi rapporti economici con moltissimi paesi, non è ancora stata in grado di creare alleanze politiche e militari solide e paragonabili a quelle di cui dispongono gli Stati Uniti.

– Leggi anche: Chi sta con chi in Asia

Questo proposito della Cina di fare dei BRICS un contrappeso al G7 e al sistema di alleanze statunitense è sostenuto ovviamente dalla Russia, che a causa della guerra in Ucraina si trova isolata a livello diplomatico e politico. Ma gli altri tre paesi, benché a parole sostengano l’idea dell’allargamento, in realtà mostrano una certa esitazione. Brasile e Sudafrica ottengono molti benefici dall’essere rispettivamente l’unico paese dell’America Latina e l’unico dell’Africa a far parte dei BRICS. Il Sudafrica, in particolare, non è né il paese più grande, né il più ricco né quello militarmente più avanzato del continente, e facendo parte dei BRICS riesce a ottenere una buona dose di prestigio a livello regionale, che potrebbe ridursi se entrassero nuovi membri.

L’India non ha particolari problemi ad ammettere nuovi paesi nel gruppo, ma è preoccupata della possibilità che, come ha scritto il Financial Times, i paesi dei BRICS diventino «satelliti della Cina».

Attualmente i BRICS producono il 26 per cento del PIL mondiale (era l’8 per cento nel 2001), contro il 43 per cento generato dai paesi del G7 (era il 65 per cento nel 2001): i trend di crescita sono chiaramente a favore dei paesi emergenti. All’interno del gruppo, però, il ruolo della Cina è sproporzionato: da sola produce il 70 per cento del PIL di tutti i BRICS (per fare un paragone, gli Stati Uniti producono il 58 per cento del PIL dei paesi del G7).

L’enorme ruolo della Cina si vede anche dai progetti finanziari del gruppo. Negli scorsi anni i BRICS hanno cercato di creare alcune istituzioni finanziarie proprie. Tra il 2014 e il 2015 i BRICS hanno creato l’Accordo di riserva contingente, un’istituzione che avrebbe il compito di aiutare i paesi membri in difficoltà (un ministro delle Finanze russo lo definì un «mini Fondo monetario internazionale») e la Nuova banca per lo sviluppo, un’istituzione che si occupa di investire in progetti infrastrutturali e di sviluppo (lo stesso ministro la definì una «nuova Banca mondiale»). Negli ultimi anni la Nuova banca per lo sviluppo ha concesso prestiti per 32,8 miliardi di dollari: è una buona cifra, ma che non è nemmeno paragonabile ai 1.000 miliardi che si stima che la Cina abbia prestato nello stesso periodo a paesi terzi senza passare per le istituzioni dei BRICS.

È per questo che paesi come l’India e il Brasile stanno sì sostenendo il progetto politico dei BRICS, ma mantengono una certa esitazione e un certo sospetto soprattutto nei confronti della Cina.

Una nuova valuta
Un’altra proposta di cui i BRICS potrebbero discutere a Johannesburg riguarda la possibilità di creare una valuta comune con l’obiettivo di soppiantare il dollaro statunitense come moneta degli scambi mondiali. È un’ipotesi che era stata avanzata inizialmente da Lula (che ha una certa passione per le monete comuni) e che poi è stata in parte ripresa anche da Putin.

La maggior parte degli economisti, però, la ritiene una proposta irrealizzabile e tutto sommato balzana: perfino Jim O’Neill, l’inventore dell’acronimo, l’ha definita «ridicola».

Anzitutto perché nessuno dei paesi membri ha una moneta con un ruolo sufficientemente forte nei commerci internazionali: l’unica eccezione è lo yuan cinese, che tuttavia è soltanto la quinta valuta più usata al mondo. Anche il grosso dei prestiti della Nuova banca per lo sviluppo, tra l’altro, avviene in dollari o in euro.

In secondo luogo perché, come ha dimostrato l’esperimento dell’euro, creare una valuta comune tra paesi economicamente eterogenei richiede enormi sacrifici e compromessi. I BRICS dovrebbero per esempio rinunciare alla possibilità di regolare autonomamente i propri tassi d’interesse tramite le rispettive banche centrali e rinunciare all’autonomia delle proprie istituzioni finanziarie: nessun paese al momento sembra minimamente intenzionato a farlo.

– Leggi anche: Perché l’economia mondiale ruota attorno al dollaro