La castrazione chimica non è una soluzione

Ma piace molto a Salvini e alle destre e viene periodicamente proposta per affrontare la questione della violenza maschile sulle donne

Il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini nell'aula del Senato, Roma, 20 luglio 2023 (ANSA/ANGELO CARCONI)
Il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini nell'aula del Senato, Roma, 20 luglio 2023 (ANSA/ANGELO CARCONI)
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Dopo lo stupro di gruppo denunciato da una donna a Palermo e molto ripreso dai giornali nel weekend, Annalisa Tardino, deputata al Parlamento Europeo per la Lega e coordinatrice del suo partito in Sicilia, ha avviato una raccolta firme per una proposta di legge sulla “castrazione chimica per stupratori e pedofili”. Su Facebook Matteo Salvini ha approvato l’iniziativa dicendo che, per stupratori e pedofili, servirebbe un approccio a «tolleranza zero».

Quello della castrazione chimica è un argomento che torna periodicamente nei discorsi dei politici di destra e che è stato molto criticato, nel tempo, da associazioni che si occupano di diritti civili, medici, giuristi e movimenti femministi. E per diverse ragioni: una delle principali è che la castrazione chimica sarebbe del tutto inefficace allo scopo per cui viene proposta: si basa infatti su una lettura completamente sbagliata del fenomeno della violenza di genere, che ha un’origine culturale e sociale, non biologica. Il sesso non è cioè il nodo della questione, e inibire il desiderio sessuale non risolverebbe un comportamento sessuale violento o inappropriato.

Non è la prima volta che Matteo Salvini e la Lega citano la castrazione chimica come una «soluzione», e l’hanno fatto spesso dopo casi di violenza che sono finiti sulle prime pagine dei giornali. Nel 2005 la proposta venne fatta dall’allora ministro per le Riforme istituzionali Roberto Calderoli, attuale ministro per gli Affari regionali e le Autonomie nel governo Meloni; nel 2009 la Lega, come oggi, avviò una raccolta firme per una proposta di legge che poi finì nel nulla e nel 2019, in occasione della discussione del cosiddetto “Codice rosso” (legge che ha introdotto alcune modifiche nella gestione dei casi di violenza di genere) Lega e Fratelli d’Italia presentarono un emendamento specifico, poi respinto. Lo scorso novembre Salvini era tornato a parlarne dopo che a Modena un uomo era stato accusato di aver violentato la figlia di sei anni della convivente.

La castrazione chimica consiste in una terapia farmacologica a base di ormoni, a volte associata a psicofarmaci, che ha l’effetto di ridurre la produzione e il rilascio degli ormoni sessuali, come il testosterone, e di inibire l’azione della dopamina, portando a un conseguente calo del desiderio sessuale. Nella maggior parte dei casi si tratta di un procedimento reversibile, che quindi termina dopo la fine della somministrazione dei farmaci, ma su questo ci sono molti dubbi tra i ricercatori. Andrea Salonia, urologo, andrologo e esperto di medicina sessuale, aveva già spiegato nel 2019 come fosse possibile, una volta finita la terapia, che il desiderio sessuale non fosse più quello di prima.

Il trattamento farmacologico per la castrazione chimica è attualmente riservato in Italia a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale e, come ha spiegato l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha degli effetti collaterali specifici (riduzione della massa muscolare, importanti effetti negativi sul metabolismo osseo e osteoporosi, anemia) destinati a ripercuotersi sullo stato di salute generale dei pazienti e sulla loro qualità di vita.

La castrazione chimica è prevista nell’ordinamento giuridico di alcuni stati degli Stati Uniti e, su base volontaria, anche di alcuni paesi d’Europa. Contro questa pratica, nel tempo, si sono pronunciate diverse associazioni per i diritti civili e nel 2013 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, con la risoluzione numero 1945, ha stabilito che «nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione può essere considerata legittima nel XXI secolo».

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Nel 2019 in un articolo sul Messaggero anche Carlo Nordio, oggi ministro della Giustizia nel governo Meloni, si era opposto alla proposta di Salvini. Aveva spiegato che nella proposta della Lega di allora (che sembra essere identica a quella per cui si stanno raccogliendo le firme ora) la castrazione sarebbe stata opzionale per il condannato: accettarla avrebbe rappresentato un’alternativa al carcere. Ma questo, scriveva Nordio, avrebbe sovvertito «completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione» dove la pena ha una funzione retributiva e rieducativa: attribuire alla castrazione chimica una funzione retributiva significherebbe tornare «alla vecchia pena corporale» e per quanto riguarda la funzione rieducativa, essa si fonda «sul libero convincimento, non sull’effetto materiale di qualche molecola».

La castrazione chimica non rispetterebbe dunque la Costituzione, nei punti in cui garantisce la tutela della salute psicofisica (articolo 32: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana») e quando garantisce i principi della finalità rieducativa della pena e quelli di umanità (articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»).

Sempre nel 2019, il giurista e giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese disse che «intervenire sul corpo di una persona» con la castrazione chimica sarebbe stato «inumano e contrario alla dignità umana»: dunque incostituzionale.

L’altra critica che Nordio aveva fatto nel 2019 alla proposta di Salvini aveva a che fare con la provvisorietà della pratica e dunque con la sua conseguente inefficacia: «Una volta esaurito il tempo di espiazione e “di cura” la pericolosità infatti riemerge, probabilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente all’interruzione della somministrazione del farmaco».

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Quello dell’inefficacia è anche il principale argomento dei movimenti femministi e di chi si occupa con competenza e da decenni di violenza di genere: la violenza sessuale non ha nulla a che fare con il sesso o con la libido, ma con la differenza di potere nelle relazioni tra i generi che è sistemica nella società, ha a che fare cioè con il patriarcato.

La Convenzione di Istanbul – che è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica e che l’Italia ha ratificato nel 2013 – nelle sue premesse afferma chiaramente che: «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione». Dice subito dopo che la violenza contro le donne è di «natura strutturale» ed «è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Non ha insomma a che fare con il sesso, né (nella maggior parte dei casi) con comportamenti sessuali deviati da curare o trattare.

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Antonella Veltri, presidente della rete dei centri-antiviolenza D.i.Re, che rispettano la Convenzione di Istanbul, ha detto che «bisogna smetterla di dire che la violenza maschile contro le donne si affronta con la castrazione chimica». Secondo Veltri infatti la proposta della castrazione chimica si basa su una lettura del fenomeno della violenza maschile contro le donne completamente sbagliata: «Non ha a che fare con un impulso sessuale irrefrenabile che si può contrastare con dei farmaci». Tale lettura del fenomeno porta all’approvazione o alla proposta di provvedimenti punitivi o emergenziali che sono però inefficaci: «Sembra ormai retorico ripeterlo, perché lo diciamo da almeno trent’anni, ma le motivazioni della violenza maschile contro le donne stanno nella cultura». E più tardi si inizia dunque a intervenire su questo fronte «più tardi si arriva».

Per Veltri, così come per i movimenti femministi, serve dunque «un impegno responsabile, strutturale e trasversale da parte di tutti i soggetti coinvolti, in particolare su formazione e prevenzione. E servono finanziamenti». È necessario intervenire nei luoghi dove si fa informazione, dove si fa cultura, nei tribunali e nella scuola con un’adeguata educazione sessuale e affettiva. L’Organizzazione mondiale della sanità in un rapporto sugli impatti dell’educazione sessuale ha dimostrato come nei paesi in cui è stata attuata ha portato nel tempo a una diminuzione non solo delle gravidanze adolescenziali, degli aborti e delle malattie sessualmente trasmissibili, ma anche dei casi di omofobia e degli abusi sessuali.

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Alcune e alcuni fanno poi notare come la pratica della castrazione chimica potrebbe comportare un rischio di deresponsabilizzazione della persona coinvolta, portandola a credere di poter attribuire la propria condotta a un fattore “biologico” e non a una scelta che, nella maggior parte dei casi, è consapevole.

Paolo Giulini, criminologo che lavora con gli autori di reati sessuali, a sua volta spiega che «non è necessario avere il pene eretto o essere eccitati per mettere in atto delle cattive condotte sessuali» così come non è soltanto con gli organi genitali che si possono commettere delle violenze: le condotte sessuali violente «vanno trattate con un lavoro culturale e sulla persona», spiega, aggiungendo infine che l’efficacia della pratica della castrazione chimica sul piano del rischio di recidiva e sul piano della gestione del fenomeno «non è mai stata provata».