Non importa se eravate d’accordo con Michela Murgia

«È stata un’intellettuale, nel senso più puro del termine: una dei pochi, peraltro, che avesse avuto e prodotto il nostro Paese negli ultimi vent’anni. Diceva cose che nessuno aveva detto prima e altre che avevamo già sentito ma che lei sapeva dire meglio. Affrontava questioni note da punti di vista laterali, era spiritosa anche quando parlava delle cose più serie e profonda quando parlava delle più leggere. A questo servono gli intellettuali (aver scritto questa frase mi ha appena aggiunto vent’anni di età)»

Michela Murgia al Salone del Libro di Torino, 12 maggio 2012 (Valerio Pennicino/Getty Images)
Michela Murgia al Salone del Libro di Torino, 12 maggio 2012 (Valerio Pennicino/Getty Images)
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Da anni mi pago le bollette e il mutuo scrivendo, anche con qualche gratificazione, eppure ho sempre trovato difficile ai limiti dell’impossibile scrivere di un personaggio pubblico dopo la sua morte.

Non parlo qui della scrittura di un cosiddetto “coccodrillo”, cioè uno di quegli articoli con le principali informazioni biografiche sulla persona morta che spesso vengono scritti quando la suddetta persona morta è ancora viva, per quanto anche quella sia un’arte sottovalutata. Parlo di quegli articoli che ambiscono a individuare e raccontare il significato di ciò che la persona morta era stata e aveva fatto, scritto, detto, ottenuto e rappresentato mentre era in vita: del senso collettivo e generale che ha avuto il suo passaggio sul mondo. Di «cosa ci ha lasciato», come si dice in questi casi, di cosa rimarrà, di quanto ci abbia cambiati. Chi può sentirsi all’altezza di un compito del genere? Di sintetizzare il senso di una vita? Chiunque abbia un briciolo di consapevolezza di sé dovrebbe rinunciare a un esercizio così impudente e presuntuoso prima ancora di cominciare: come ci permettiamo?

Dall’altra parte, non trovo convincente nemmeno l’idea che la cosa migliore sia astenersi da questo genere di esercizi, reagire alla morte di un personaggio pubblico con un sacrale silenzio collettivo o limitandosi a esprimere la propria tristezza, men che meno nel caso di persone che siano state in grado di toccare – nel bene e nel male, come si dice – un numero di vite superiore a quello di chi le conosceva direttamente, che abbiano avuto un qualche ruolo e impatto nella società: trovare, capire e raccontare quel lascito è necessario per trovare, capire e raccontare noi stessi. Non se ne esce: più la vita appena conclusa è stata grande, più l’esercizio è impossibile; più l’esercizio è impossibile, più è opportuno.

Credo che sia anche per queste ragioni, e non soltanto per vanità, che in questi casi si finisce per scrivere soprattutto di se stessi: forse non posso dire cosa abbia significato quella persona per tutti, ma posso dire insindacabilmente cosa abbia significato per me. Solo che è difficile individuare e poi rispettare il confine che separa un racconto personale dal suo valore generale. Che poi, ce l’avrà un valore generale? Non mi starò soltanto cimentando nello sport nazionale del racconto dei fatti miei? Non starò esibendo la mia – presunta, peraltro – vicinanza alla persona morta? C’è il rischio di produrre la versione testuale della «foto con il morto», il rischio del photobombing, del mettersi davanti al soggetto della foto finendo per oscurarlo. C’è anche il rischio di dare l’impressione di aver soltanto voluto timbrare il cartellino, oltre che quello di farlo effettivamente.

Nessuno di questi fenomeni è nuovo, ma tutti sono stati portati all’estremo dai social media: l’eterno presente in cui si incontrano e scontrano milioni di inconsapevoli dipendenze, dallo scroll compulsivo o dalla polemica o dal pettegolezzo o dai like. Il contesto in cui qualsiasi cosa diventa content e qualsiasi content diventa nel peggiore dei casi una scarica di dopamina e nel migliore soldi, soprattutto se tratta la notizia del momento. Il contesto di infinite performance che produce un insidioso surrogato della confidenza tra seguiti e seguitori, in cui le persone si sentono in dovere di scusarsi se non hanno postato qualcosa per una settimana, mentre altre in giorni come questi scrivono ai personaggi pubblici per chiedergli come mai non abbiano ancora dedicato un post, un reel, almeno una story santo cielo, alla persona morta. E quindi alle brutte tanto vale timbrare il cartellino, limitandosi all’indispensabile per pigrizia, perché non si ha nulla da dire o per tentare di sottrarsi alla trappola di cui sopra: condividere un post di qualcun altro, quindi senza neanche scrivere qualcosa di proprio, e aggiungere una banalità o un cuore o una faccina che piange, così che dalla story successiva possano ricominciare inesorabili le foto delle vacanze.

Alla luce del fallimento evidente delle istituzioni che più di ogni altre dovrebbero teoricamente sviluppare il cosiddetto dibattito pubblico fuori dalle cosiddette élite (giornali, riviste, sto parlando di noi), il suddetto dibattito si è trasferito principalmente in luoghi – i social media – che non sono stati costruiti per ospitarlo, e che anzi cercano in ogni modo di peggiorarlo e scoraggiarlo con gli incentivi sanciti dai loro algoritmi. Questo tragico trasloco, insieme al lavoro poverissimo delle istituzioni che avrebbero il compito di insegnare alla popolazione intera a discutere, e quindi a partecipare al dibattito pubblico con argomenti logici e conoscenza (scuole superiori, televisione di Stato, sto parlando di voi), ha prodotto un’altra triste conseguenza oltre all’instupidimento generale di cui siamo insieme responsabili e testimoni, ognuno per la sua parte: la perdita della capacità di distinguere un influencer da un politico da un intellettuale.

Si è scritto molto in questi anni della combinazione tossica eppure inevitabile dei meccanismi del consenso politico con quelli della celebrità, in un mondo e nell’altro: dal cibo orrendo fotografato da Matteo Salvini alle story di Chiara Ferragni sulla criminalità a Milano, dalle «bimbe di Giuseppe Conte» agli influencer che si sono costruiti un pubblico – e un reddito – alternando i contenuti #adv e quelli che fomentano la sassaiola indignata del giorno attorno a questa o quella causa. Ma quando i meccanismi del consenso e della celebrità si applicano ai cosiddetti intellettuali (dovremmo evidentemente trovare una parola migliore), rischiamo di pensare che il loro valore, il valore dei cosiddetti intellettuali, non possa che dipendere da quante volte i loro argomenti abbiano dato ragione ai nostri, da quanto abbiano provocato in noi la sola semplice reazione del dire «giusto!», a cui reagire ovviamente con un like e una condivisione. Da quanti amici e nemici abbiamo avuto in comune o da quanto la loro opera – chiedo scusa: il loro content – ci abbia intrattenuti. Diventiamo incapaci di riconoscerli.

E quindi arriviamo a Michela Murgia, alla sua vita, alla sua morte e al nostro modo di raccontarla.

Il valore riconosciuto alle cose che ha detto, fatto, ottenuto e rappresentato Michela Murgia non dovrebbe dipendere dal numero di volte che ci siamo trovati d’accordo con lei. Aver trovato puntualmente convincenti tutte le sue idee non dovrebbe essere una condizione necessaria ad apprezzarne il contributo al dibattito pubblico, a piangerne una morte così prematura, a dispiacersi di tutte le sue cose che avremmo ancora potuto leggere e ascoltare negli anni a venire e alle quali invece dovremo rinunciare. E questo perché Michela Murgia, prima ancora che una scrittrice, un’attivista o un personaggio televisivo o social, è stata un’intellettuale.

Che cos’è, quindi, anzi, chi è un’intellettuale? È una domanda paralizzante a cui hanno risposto nel corso dei secoli persone immensamente più attrezzate del sottoscritto, ma azzardo una sintesi: qualcuno la cui attività culturale produce una qualche forma di cambiamento, prima ancora che appagamento, approvazione, polemica o intrattenimento (che comunque non mancheranno). E che produce quel cambiamento attraverso talenti che vanno oltre l’abilità tecnica nella loro arte o la capacità di combattere una qualche battaglia, bensì attraverso il dono del vedere quello che non vediamo, e mettercelo davanti rendendolo improvvisamente chiaro; del dirci qualcosa che non ci piacerà ma a cui comunque ci ritroveremo a pensare per settimane o mesi o anni, se saremo disposti ad ascoltarla; del saper argomentare un’idea con originalità, efficacia e rigore, inchiodando le incoerenze altrui e provocando pensieri prima ancora che emozioni.

Se il valore di un intellettuale dovesse dipendere dalla coincidenza delle sue idee con le nostre, e quindi celebrarlo in assenza di quella coincidenza fosse sbagliato oppure necessariamente opportunista o ipocrita, il nostro intellettuale di riferimento sarebbe quel vecchio amico con cui siamo sempre d’accordo quando parliamo al bar davanti a uno spritz (temo che per qualcuno sia effettivamente così e infatti, a proposito della confusione di cui sopra, siamo pieni di politici e influencer e sedicenti intellettuali che si sforzano di apparire uno di noi, quando tragicamente non lo sono davvero).

Michela Murgia è stata un’intellettuale, nel senso più puro del termine: una dei pochi, peraltro, che avesse avuto e prodotto il nostro Paese negli ultimi vent’anni. Diceva cose che nessuno aveva detto prima e altre che avevamo già sentito ma che lei sapeva dire meglio. Affrontava questioni note da punti di vista laterali, era spiritosa anche quando parlava delle cose più serie e profonda quando parlava delle più leggere. Sapeva andare contropelo rivolgendosi agli amici come ai nemici, e a entrambe le categorie di persone rendeva prima o poi inevitabile farci i conti: spesso ottenendo di far emergere la loro, la nostra inadeguatezza, e magari così facendo insegnando ogni tanto qualcosa – magari una cosa diversa da quella che voleva dirci, certo: si insegna anche esibendo i propri limiti – a chi fosse disposto a non arrendersi alla prima reazione, o lasciandoci comunque un po’ diversi da come eravamo prima. Ed è riuscita a fare tutto questo a fronte della debolezza delle vecchie istituzioni culturali e della vacuità di quelle nuove. A questo servono gli intellettuali (aver scritto questa frase mi ha appena aggiunto vent’anni di età).

Ho il sospetto ma soprattutto la speranza che la straordinaria partecipazione di questi giorni si debba innanzitutto a questo, prima ancora che alle circostanze della sua morte o alle volte in cui ci siamo eventualmente trovati d’accordo con le cose che diceva. Che forse non siamo più in grado di riconoscere un intellettuale, ma quando ce ne troviamo una davanti ce ne accorgiamo ancora, per quanto inconsapevolmente: e che questo – sto sognando, lo so – ci porti da qui in poi a sottrarre gli intellettuali al gioco delle squadre e delle fazioni, delle shitstorm e del «da che parte stai», e cercare in loro non qualcuno che la pensi come noi ma qualcuno che faccia pensare noi. A desiderare strumenti più che idoli. Meno risposte e più domande. Meno banalità e più rigore. Meno conferme e più coraggio.

Francesco Costa
Francesco Costa

È vicedirettore del Post e autore, ogni mattina, del podcast Morning. Con Mondadori ha pubblicato tre libri, l’ultimo si intitola California (2022).

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