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  • Venerdì 4 agosto 2023

“Uccidi il boero”, la canzone contro l’apartheid di cui si discute in Sudafrica

È stata cantata da un politico di sinistra, provocando la reazione tra gli altri di Elon Musk e di chi sostiene il mito del "genocidio bianco"

Julius Malema, Cape Town, 2009 (FIFA World Cup Organising Committee South Africa)
Julius Malema, Cape Town, 2009 (FIFA World Cup Organising Committee South Africa)
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Alla fine di luglio, per festeggiare il decimo anniversario dalla fondazione dell’Economic Freedom Fighters (EFF), partito politico del Sudafrica filo-marxista e anticapitalista, il suo fondatore Julius Malema e migliaia di sostenitori riuniti nello stadio di Johannesburg hanno cantato alcuni versi di una vecchia canzone anti-apartheid: “Kill the boer, kill the farmer”, cioè “uccidi il boero”, la parola che in olandese e in afrikaans significa “contadino” e che, in generale, indica una popolazione sudafricana che discende dai colonizzatori olandesi.

Il video di quel momento ha cominciato a circolare e a essere criticato sui social dopo essere stato condiviso da alcuni esponenti della destra statunitense e poi da Elon Musk, che è bianco, è nato in Sudafrica e ha spesso posizioni molto vicine a quella dell’estrema destra. I suoi e gli altri commenti simili al video hanno riportato al centro del discorso il mito del “genocidio dei bianchi” e sono stati accolti con entusiasmo da vari suprematisti bianchi e neofascisti, come ha scritto tra gli altri il Washington Post.

Julius Malema guida gli Economic Freedom Fighters dal 2013, partito che ha fondato dopo essere stato estromesso per le sue posizioni provocatorie e radicali dall’African National Congress (ANC), il partito che governa ininterrottamente il Sudafrica dalla fine dell’apartheid: era dell’ANC il primo presidente del paese, Nelson Mandela, e lo è anche l’attuale, Cyril Ramaphosa. Tra le altre cose, Julius Malema è un forte sostenitore della redistribuzione delle terre di proprietà dei bianchi alle persone nere.

La situazione dei terreni agricoli in Sudafrica ha una storia complessa. Nel 1913, durante la colonizzazione, venne approvata una legge chiamata Native Land Act che destinava poco più del 10 per cento dei terreni fertili e adatti all’agricoltura ai cittadini di origine africana (che erano la maggioranza) e la restante parte ai bianchi (che erano una minoranza). La legge obbligava i cittadini neri a vivere in quei limitati terreni e ne impediva anche la compravendita.

Come ha spiegato tempo fa il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, sostenitore a sua volta di una riforma agraria che preveda la redistribuzione, quella legge «costrinse la maggior parte delle persone a lasciare il proprio luogo di nascita, le spogliò dei loro beni e le privò dei loro mezzi di sostentamento». Di una riforma agraria per la redistribuzione si cominciò a parlare solo negli anni Novanta, dopo la fine dell’apartheid e proprio come parte fondamentale dello smantellamento della sua eredità e di un più equo rapporto di proprietà.

Finora il processo è andato però a rilento: quasi tre quarti dei terreni agricoli privati ​​in Sudafrica restano di proprietà dei bianchi e il governo ha spostato più volte l’obiettivo di ridistribuirne il 30 per cento, ora fissato al 2030.

Nel 2018 nel dibattito sull’espropriazione delle terre ai bianchi in favore dei neri era intervenuto anche l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, dopo che su Fox News era andato in onda un servizio sulla riforma agraria in Sudafrica politicamente molto schierato contro la riforma stessa. Trump aveva scritto sui suoi profili social di aver chiesto al segretario di Stato, Mike Pompeo, di studiare la questione delle espropriazioni e anche «gli omicidi su larga scala degli agricoltori bianchi».

I due argomenti, quello dell’espropriazione delle terre ai bianchi e quello dei cosiddetti farm attacks, cioè gli attacchi alle fattorie abitate da boeri, sono sempre stati tenuti insieme nelle retoriche della destra.

In Sudafrica gli attacchi ai proprietari di fattorie sono un problema, ma sono anche una minima parte dei crimini commessi nel paese: sono spesso a scopo di rapina, ne sono vittime anche braccianti neri, ma soprattutto non ci sono mai state uccisioni di massa né su larga scala. Non ci sono insomma prove di una violenza eccessiva in Sudafrica diretta contro gli agricoltori bianchi, ha scritto il Washington Post: anzi i dati «suggeriscono il contrario» e cioè che gli agricoltori bianchi hanno molte meno probabilità «di essere oggetto di crimini violenti rispetto alla popolazione generale sudafricana». La falsa narrazione sul “genocidio dei bianchi” promossa dalle destre è comunque «molto potente» ed è stata invocata anche nei manifesti e nei discorsi dei suprematisti bianchi responsabili di sparatorie di massa a Christchurch, in Nuova Zelanda, a El Paso e a Buffalo.

La critica più recente al video in cui Malema canta “Kill the boer” si inserisce in questo contesto. Il video ha cominciato a essere criticato su Internet da diversi esponenti dell’estrema destra statunitense. E poi l’ha commentato anche Elon Musk, che su X, cioè su Twitter, di cui è proprietario, ha scritto: «Stanno apertamente promuovendo il genocidio dei bianchi in Sudafrica». Chiedendo esplicitamente al presidente Ramaphosa di prendere una posizione, Musk stava rispondendo al commentatore politico conservatore Benny Johnson che a sua volta aveva criticato il video definendolo scioccante e che aveva fatto un improprio paragone tra il Sudafrica e gli Stati Uniti.

Il video è stato criticato anche da John Steenhuisen, il leader bianco dell’Alleanza Democratica, il principale partito di opposizione del Sudafrica che ha presentato una denuncia contro Malema presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Inoltre Steenhuisen ha detto, senza fornire prove, che «i brutali omicidi degli agricoltori continuano a intensificarsi sulla scia della demagogia di Malema».

Malema ha risposto a Steenhuisen dicendo: «Fatti sotto, ragazzino». Replicando a Musk durante una conferenza stampa, ha detto invece di non avere tempo per istruire Musk sulla canzone e che se non fosse «un analfabeta» avrebbe potuto farlo da solo: «L’unica cosa che lo protegge è la sua pelle bianca».

Più in generale, Malema ha risposto alle critiche dicendo che l’indignazione pubblica per la canzone non gli impedirà di cantarla ancora e che comunque non dovrebbe essere presa alla lettera: «Abbiamo sempre affermato che i boeri e gli agricoltori non si riferiscono a individui, ma a un sistema di oppressione», ha spiegato. Secondo Malema così come secondo altri esponenti storici della lotta contro l’apartheid e diversi accademici, la canzone è semplicemente «un appello a mobilitarsi contro un sistema oppressivo».

La canzone esiste da decenni, appartiene storicamente al movimento anti-apartheid ed è stata resa popolare all’inizio degli anni Novanta da Peter Mokaba, un ex leader dell’African National Congress. Nel 2010 un tribunale di Johannesburg aveva dichiarato incostituzionale l’uso dell’espressione «uccidi il boero» e aveva proibito a Malema, allora leader della lega giovanile dell’ANC, di cantarla. Anche l’ANC aveva preso le distanze dalla canzone, ma Malema aveva continuato a cantarla. AfriForum, un’organizzazione che difende gli interessi dei discendenti dei colonizzatori bianchi del Sudafrica, aveva dunque fatto causa a Malema.

L’anno scorso il giudice Edwin Molahlehi aveva però stabilito che l’AfriForum non era riuscito a dimostrare che il testo potesse ragionevolmente essere interpretato come «una chiara intenzione di danneggiare o incitare a danneggiare e a propagandare odio». La canzone, diceva ancora la sentenza, faceva riferimento al regime dell’apartheid «e più in particolare all’espropriazione della terra della maggioranza dei membri della società da parte delle potenze coloniali».

Le critiche al video di Malema, soprattutto quelle di Musk, hanno entusiasmato vari suprematisti bianchi negli Stati Uniti, come ha documentato in queste ore il periodico statunitense Mother Jones. «Nel 2016 il genocidio dei bianchi sudafricani era una questione marginale: ora l’uomo più ricco del mondo, che possiede anche Twitter, sta attirando l’attenzione sulla questione», ha scritto ad esempio Patrick Casey, ex leader dell’organizzazione neonazista Identity Evropa: «Le cose si stanno muovendo nella giusta direzione!».