Come funziona la “Bidenomics”

La politica economica del presidente americano prevede un grosso ruolo dello stato nell'economia, e sta portando risultati positivi ma anche qualche dubbio

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden (AP Photo/Meg Kinnard)
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden (AP Photo/Meg Kinnard)
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In vista delle elezioni presidenziali del 2024 il presidente statunitense Joe Biden sta insistendo molto sui risultati che ha raggiunto finora in economia, rivendicando i buoni dati sulla crescita e sull’occupazione. Da qualche tempo ha iniziato a parlare del suo approccio economico in modo più strutturato, usando espressamente il termine “bidenomics”, dalla crasi tra il suo cognome ed economics. Fino a poco tempo fa lo usavano solo i giornalisti e i suoi avversari politici per indicare la sua politica economica, impostata in modo molto diverso da quella degli ultimi decenni e anche da un più classico schema di sinistra che vede lo stato come erogatore di sussidi a pioggia.

L’intervento dell’amministrazione Biden nell’economia è stato massiccio e pervasivo: non ha previsto solo enormi investimenti diretti e l’aumento della spesa pubblica, ma li ha anche canalizzati in settori centrali come le infrastrutture e verso obiettivi ambiziosi come la transizione energetica. Ha poi avviato una difesa dell’industria nazionale e uno schema di incentivi per favorire l’imprenditoria locale che molti analisti e governi stranieri hanno assimilato al protezionismo. Tutto questo con un’attenzione particolare verso il benessere della classe media e di quelle più svantaggiate.

Questa politica economica ha suscitato critiche, ma anche molto interesse: alcuni sottolineano come abbia contribuito a un peggioramento notevole del bilancio statunitense e alla peggior inflazione dagli anni Ottanta; altri invece ritengono che sia stato un buon modo di rilanciare l’economia dopo la pandemia da coronavirus, ponendosi allo stesso tempo obiettivi ambiziosi in tema energetico e infrastrutturale.

Effettivamente oggi l’economia statunitense ha più che recuperato la perdita di Prodotto Interno Lordo causata dalla pandemia, l’economia continua a crescere e la disoccupazione è ai minimi storici. E secondo Biden «non è un caso. È merito della bidenomics», come ha detto in un discorso recente a Chicago, dedicato interamente a spiegare la sua visione dell’economia.

Uno dei più importanti consiglieri economici di Biden, Jared Bernstein, ha spiegato cos’è la bidenomics in un’intervista in un podcast dell’Economist. Concretamente si fonda su «tre pilastri»: il primo prevede forti investimenti pubblici in risorse che servono a tutti, come la sanità e le infrastrutture; il secondo mira a una migliore formazione dei lavoratori e al rafforzamento delle politiche attive per il lavoro; il terzo è volto a favorire la concorrenza tra le imprese, in modo che si abbassino i costi di produzione e che si crei un mercato equo e con poche distorsioni.

A livello teorico poi prende spunto da due teorie economiche di fondo, conosciute come bottom up e middle out, secondo le quali il benessere e la ricchezza di una società sono possibili solo se vengono dalle fasce basse e medie della popolazione. Secondo questi approcci se la classe media e quelle più povere hanno un buon livello di benessere – inteso in senso ampio e non solo in termini di reddito, ma anche di istruzione, rete sociale e servizi pubblici – allora con la loro spesa terranno alta la domanda in beni e servizi per le aziende, che a loro volta prospereranno e assumeranno sempre più lavoratori, in un circolo virtuoso che si alimenta grazie anche agli investimenti pubblici a sostegno di questa parte della popolazione.

Lo stato deve quindi puntare molto sulla classe media e sulle istituzioni che la sostengono, come sindacati forti, buone scuole pubbliche, assistenza sanitaria a prezzi accessibili, servizi per l’infanzia e in generale una solida rete di sicurezza sociale.

È un tipo di visione dell’economia praticamente opposto all’approccio cosiddetto trickle down, che implica aumentare il benessere dei più ricchi per favorire la crescita. I più ricchi investirebbero, consumerebbero, creerebbero nuove aziende e posti di lavoro, e la crescita economica arriverebbe infine anche alle fasce più povere, ma in via residuale, con un trickle down, ossia uno sgocciolamento verso il basso.

Questa teoria economica era molto in voga negli anni Ottanta e ha ispirato la politica economica del presidente statunitense Ronald Reagan e della prima ministra britannica Margaret Thatcher. Le loro politiche furono orientate alle privatizzazioni e alla riduzione delle tasse per i più ricchi, volte a limitare il più possibile il ruolo dello stato nella vita economica del paese: tagliarono i fondi ai servizi pubblici causando così enormi conseguenze per la classe lavoratrice, con cui soprattutto Thatcher instaurò un durissimo conflitto sociale.

Le cose da allora sono diverse, la classe media si è abituata a un livello di benessere che non è più solo calato dall’alto e ci sono oggi forti dubbi sull’efficacia di questo tipo di misure. «Sono stanco di aspettare gli effetti delle politiche trickle down», ha detto Biden nel suo discorso a Chicago.

In vista delle prossime elezioni presidenziali del 2024, per cui si è ricandidato, Biden sta puntando molto sul ruolo che ha avuto la sua amministrazione nella ripresa economica dopo la pandemia. Ha promosso enormi piani di stimoli e investimenti, con un approccio che molti hanno definito keynesiano, dal nome dell’economista britannico John Maynard Keynes le cui teorie prevedono un forte ruolo dello stato e della spesa pubblica per far ripartire l’economia, il settore privato e l’occupazione in tempi di crisi. Le sue teorie si possono riassumere in una frase che gli è attribuita: in tempi di crisi lo stato dovrebbe assumere alcuni disoccupati per scavare buche e altri disoccupati per riempirle.

Dal punto di vista prettamente contabile le tre principali misure economiche di Biden rappresentano comunque l’intervento economico più consistente degli ultimi decenni e hanno mobilitato complessivamente oltre 3.800 miliardi di dollari: la prima fu l’American Rescue Plan, che ha stanziato 1.900 miliardi di dollari per finanziare stimoli economici in risposta alla crisi provocata dalla pandemia da coronavirus; dopo sono arrivati i 1.200 miliardi dell’Infrastructure and Jobs Act, con cui si finanziavano opere pubbliche per rinnovare strade, ponti e infrastrutture e per ampliare le connessioni a banda larga; infine l’intervento più recente è l’Inflation Reduction Act, che ha stanziato 740 miliardi in investimenti in iniziative per combattere il riscaldamento globale, tra cui sgravi fiscali per la produzione di auto elettriche, la produzione di energia da fonti rinnovabili e le riconversioni di impianti inquinanti, con l’obiettivo di ridurre del 40 per cento rispetto al 2005 le emissioni di gas serra entro il 2030.

In realtà è probabile che l’economia statunitense avrebbe comunque trovato il modo di ripartire dopo la pandemia a prescindere dall’amministrazione in carica, ma la differenza l’hanno fatta le grosse iniziative legislative prese da Biden a sostegno degli investimenti, della transizione energetica e a tutela della proprietà intellettuale sui microchip: per esempio l’Inflation Reduction Act non è importante solo perché stanzia tanti soldi, ma perché è il piano degli Stati Uniti più ambizioso sul clima; lo stesso vale per l’Infrastructure and Jobs Act che promette di migliorare le infrastrutture spesso carenti del paese; infine l’amministrazione Biden ha deciso di limitare, per la prima volta, l’esportazione verso la Cina di chip avanzati e della tecnologia necessaria per produrli, cosa che potrebbe mettere in eccezionale difficoltà lo sviluppo tecnologico cinese, a vantaggio di quello statunitense.

Gli oppositori di Biden e in generale i critici al suo approccio economico evidenziano i limiti e gli effetti collaterali di una strategia di questo tipo. Una cosa che fanno notare molti è di voler raggiungere troppi obiettivi simultanei: rinvigorire il sistema produttivo e le infrastrutture americane, procedere con la transizione energetica e ridurre le disuguaglianze sociali. Tutto questo renderebbe i progetti di Biden estremamente ambiziosi.

I grandi piani di investimento hanno poi peggiorato le finanze pubbliche e aumentato notevolmente il debito pubblico. Inoltre, a livello strutturale i fortissimi incentivi che hanno ricevuto le aziende statunitensi hanno distorto la concorrenza globale e molti governi stranieri, per la maggior parte europei, hanno accusato l’amministrazione Biden di aver creato un ambiente quasi protezionista, in netto contrasto con le politiche liberiste degli ultimi decenni.

In più la critica che viene soprattutto dagli avversari politici di Biden è legata al ruolo che queste ampie politiche di stimolo hanno avuto nell’alimentare l’inflazione, accusando l’amministrazione di non aver fatto nulla per impedire l’aumento del costo medio della vita e spesso di esserne addirittura la causa: gli investimenti su larga scala e l’aumento della spesa pubblica avrebbero contribuito a stimolare un’economia già surriscaldata, in cui le aziende facevano fatica a tenere il passo della richiesta da parte dei consumatori. Con la conseguenza che l’inflazione si sarebbe fatta più persistente.

Un adesivo raffigurante Joe Biden e la scritta “I did that!” di fianco all’alto prezzo della benzina (J.C.Rice/New York Post)

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