Perché le luci a LED non sono sufficienti per ridurre l’inquinamento luminoso

I comuni le presentano come una possibile soluzione, ma potrebbero peggiorare il problema anziché risolverlo

di Carlo Cignarella

(DANIEL DAL ZENNARO/ANSA)
(DANIEL DAL ZENNARO/ANSA)

In Italia il principale intervento per ridurre l’inquinamento luminoso è stato finora l’installazione di lampade a LED (Light Emitting Diode) negli impianti di illuminazione pubblica. Lo hanno fatto diversi comuni, tra i quali Bologna, Firenze e Bergamo, che di recente hanno presentato progetti per il rinnovamento dei propri impianti di illuminazione pubblica: tra gli obiettivi c’erano la riduzione dei consumi di energia elettrica, dei costi e appunto dell’inquinamento luminoso. I LED effettivamente consumano meno delle vecchie lampade a sodio o a incandescenza, ma ci sono forti dubbi sulla loro efficacia nel ridurre l’inquinamento luminoso.

Ogni fonte di luce artificiale genera inquinamento luminoso, che è dannoso non solo per le osservazioni astronomiche, ma anche per gli ecosistemi e la salute umana. In Italia il fenomeno è particolarmente presente: secondo una ricerca pubblicata nel 2019 la quantità di luce pro capite emessa è tre volte quella della Germania.

L’inquinamento luminoso è l’alterazione dei livelli naturali di luce notturna, causata da un uso eccessivo o inappropriato della luce artificiale. Il fenomeno è evidente soprattutto nelle città, dove è più intensa l’illuminazione pubblica e ci sono molte superfici riflettenti, come le vetrine dei negozi e i parabrezza delle auto. Ma i forti bagliori sono visibili e quindi dannosi anche a diversi chilometri di distanza dai centri urbani. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Science,  circa l’80 per cento della popolazione mondiale e il 99% di quella europea e statunitense vive in aree esposte all’inquinamento luminoso. Il fenomeno è in rapido aumento: si stima che tra il 2011 e il 2022 il bagliore notturno sia aumentato del 6,5% ogni anno in Europa e del 10,4% in Nord America.

Il problema riguarda anche la ricerca astronomica e l’attività degli astrofili, rese più difficili da osservazioni meno nitide del cielo notturno. Tra le altre conseguenze dirette di un intenso bagliore notturno ci sono effetti negativi sugli ecosistemi, perché altera la fotosintesi delle piante e i ritmi di sonno e veglia di molti animali notturni, disturba la caccia dei predatori e la riproduzione di alcune specie, e confonde gli uccelli migratori che si spostano di notte. Inoltre alcuni animali percepiscono la luce artificiale come una barriera, e questo può portare alla frammentazione di un ecosistema, cioè alla separazione di un ambiente naturale unico come se ci fosse una limitazione fisica.

Il fenomeno è dannoso anche per la salute umana, perché l’esposizione notturna alla luce artificiale – in particolare alla cosiddetta “luce blu”, che corrisponde alla parte blu dello spettro elettromagnetico – ostacola la produzione di melatonina, un ormone che regola molte funzioni fisiologiche, tra cui il sonno.

In Italia i progetti per ridurre l’inquinamento luminoso hanno riguardato quasi esclusivamente la riqualificazione degli impianti di illuminazione pubblica, su iniziativa dei comuni. Per esempio a Bologna e Firenze sono stati finora sostituiti rispettivamente 36mila e 30mila punti luce con lampade a LED (a Bologna il progetto era partito nel 2016, a Firenze nel 2018). A Bergamo è stata annunciata a luglio di quest’anno la sostituzione di 1.800 punti luce nella Città Alta e sui Colli, che completerà il rinnovamento degli impianti pubblici.

Secondo l’assessore ai lavori pubblici del Comune di Bergamo, Marco Brembilla, «le nuove lampade a LED durano fino a dieci anni, il triplo di quelle a sodio, e solo quelle in Città Alta permetteranno al Comune di risparmiare circa un milione di euro all’anno grazie alla riduzione dei consumi». Pur risparmiando energia, la luce delle nuove lampade è comunque spesso più intensa del necessario, per via della percezione della popolazione che a più illuminazione corrisponda maggiore sicurezza nelle strade. «Riceviamo molte richieste di cittadini che chiedono più luce per sentirsi più sicuri», dice Brembilla, «e questo deve conciliarsi con la volontà dell’amministrazione di ridurre l’inquinamento luminoso».

Benché molte amministrazioni comunali presentino l’utilizzo di illuminazione pubblica a LED come una soluzione contro l’inquinamento luminoso, in realtà ci sono molti dubbi al riguardo, soprattutto per ragioni legate al tipo di luce emessa dai nuovi lampioni.

«Molti impianti a LED contribuiscono ad aumentare l’inquinamento luminoso, pur avendo dei benefici in termini di consumi e costi, », dice Fabio Falchi, ricercatore per l’Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso di Thiene e per l’Università di Santiago de Compostela. «La luce nella parte blu dello spettro elettromagnetico si diffonde più intensamente nell’atmosfera, aumentando la luminosità di fondo», spiega Falchi, «e la produzione di melatonina nell’uomo è più sensibile, nel senso che viene maggiormente ostacolata, proprio a seguito dell’esposizione alla luce blu». Una riduzione della melatonina altera molte funzioni fisiologiche: rende più difficile il sonno, per esempio, e genera varie conseguenze indirette sulla salute.

Nei LED la quantità di luce blu è direttamente proporzionale alla temperatura di colore, misurata in gradi Kelvin. Esistono tuttavia alcuni esempi virtuosi di impianti con una temperatura di colore studiata per avere un impatto ridotto sull’inquinamento luminoso.

Secondo Falchi «in Italia manca la consapevolezza che la luce artificiale è un fattore inquinante, nonostante la normativa che stabilisce i requisiti tecnici per gli impianti di illuminazione sia avanzata, soprattutto rispetto al resto del mondo».

Rapporto tra luminosità artificiale e naturale del cielo, nel caso di lampade a sodio (figura A) e nel caso di LED a luce bianca con temperatura di colore di 4000K (figura B). Dallo studio di Falchi et al. su Science Advances (2016).

Non esiste ancora una legge nazionale per la riduzione dell’inquinamento luminoso, anche se nella scorsa legislatura era stata presentata una proposta. Tutte le regioni hanno però adottato una propria normativa nei primi anni Duemila aggiornandola, in alcuni casi, negli anni successivi. Queste normative prevedono parametri tecnici e livelli di prestazione energetica minimi che gli impianti devono rispettare, in conformità con i Criteri Ambientali Minimi (CAM) aggiornati periodicamente dal ministero dell’Ambiente. Poche regioni hanno inoltre fissato anche una temperatura di colore massima, variabile tra i 3mila e i 4mila gradi Kelvin. Un esempio positivo è quello del Veneto, una tra le regioni più impegnate nel monitoraggio dell’inquinamento luminoso, dove l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPAV) coordina un’indagine periodica sull’illuminazione pubblica nei Comuni e ha creato un Osservatorio permanente sul fenomeno, l’unico in Italia.

L’attuazione delle direttive delle regioni, tuttavia, non è sempre immediata e soprattutto manca un coordinamento a livello nazionale. In Italia inoltre le soluzioni alternative alla semplice installazione di LED sono poco considerate.

Secondo Falchi, sarebbe necessario introdurre «tecnologie di illuminazione adattiva, come i sensori di presenza, per tenere accesi solo quando necessario gli impianti nelle strade poco frequentate o lungo le piste ciclabili, e ridurre significativamente l’inquinamento luminoso». Al contempo «serve una nuova normativa che fissi dei limiti alla quantità di luce totale che è possibile emettere in una certa zona e preveda dei tempi per le città entro cui adeguarsi. Per ora siamo fermi alla regolamentazione dei singoli impianti». Un’altra iniziativa riguarda i “corridoi di buio” nelle città, cioè aree buie tutte collegate fra loro: sono stati sperimentati per esempio in Svizzera per proteggere la flora e la fauna notturna dall’illuminazione artificiale.

Questo e gli altri articoli della sezione Come cambiano le città sono un progetto del workshop di giornalismo 2023 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.