Dieci anni di Social Street

Cos’è il modello di socialità gratuita di quartiere che è nato a Bologna nel 2013 e ha fatto il giro del mondo

di Domitilla Piegaja

(Diana Bagnoli/Getty Images)
(Diana Bagnoli/Getty Images)

Sono passati dieci anni da quando due residenti di via Fondazza, a Bologna, hanno creato un gruppo Facebook per conoscere i vicini di casa, fare cene, organizzare pulizie di quartiere, chiedere consigli sul medico di famiglia, sull’idraulico o sull’elettricista. A differenza di molti altri gruppi simili nati su Facebook in quegli anni, il loro aveva precise regole di comportamento e non si limitava alla dimensione virtuale, ma aspirava all’incontro reale tra le persone.

Quello di via Fondazza è stato il primo modello di Social Street, cioè piccole comunità che si organizzano online per rispondere al bisogno di una socialità gratuita e inclusiva particolarmente sentito nelle grandi città dove è più comune sentirsi soli. Dal 2013 le Social Street si sono diffuse spontaneamente in tutta Italia e non solo: il sito dell’associazione nata dall’esperienza italiana ne raduna di presenti in Portogallo, Nuova Zelanda, Brasile, Canada, Paesi Bassi, Norvegia, Stati Uniti e Croazia. In dieci anni è diventato un modello di convivialità che per il suo interesse sociologico, antropologico, urbanistico rispetto alla vita di quartiere ha ottenuto l’attenzione e il riconoscimento di ricercatori e accademici di tutto il mondo.

L’Osservatorio italiano sulle Social Street, avviato e coordinato da Cristina Pasqualini, docente di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, conta 450 Social Street a livello nazionale, di cui 104 attive solo a Milano.

Nelle grandi città sono più diffuse perché ci sono più persone che per motivi di lavoro o studio si trasferiscono lontane dalla famiglia e dagli amici trovandosi senza punti di riferimento. «Le Social Street però esistono anche nei piccoli paesi», dice Federico Bastiani, cofondatore della prima Social Street, «un simbolo del fatto che anche in realtà piccole le persone hanno bisogno di una spinta per creare legami sociali».

Queste comunità nascono da una necessità diffusa di socializzare e di sentirsi parte di una comunità anche quando si vive all’interno di città grandi e dispersive. Nel caso di Bastiani, è stata la voglia di trovare compagni di gioco per il proprio figlio piccolo e il dispiacere di non conoscere i propri vicini di casa a spingerlo a creare il gruppo Facebook di via Fondazza nel 2013, dopo essersi trasferito a Bologna con la famiglia tre anni prima.

Pasqualini nota che la ricerca di socialità si manifesta in modo particolare in momenti difficili per la società e per i singoli, alternandosi a momenti di maggior latenza. «Ad esempio», spiega, «durante e dopo la pandemia non sono nate nuove Social Street ma quelle che già c’erano si sono potenziate, diventando strumenti semplici ed efficaci di mutuo aiuto». Come la Social Street Gambara a Milano, che durante la pandemia ha usato il gruppo Facebook per condividere informazioni di servizi utili, tra cui la spesa e la farmacia a domicilio.

Le Social Street non sono associazioni politiche e non hanno nessun tipo di statuto giuridico, inoltre rifiutano qualsiasi tipo di logica economica. «Per socializzare non servono i soldi» dice Luigi Nardacchione, cofondatore insieme a Bastiani della Social Street di via Fondazza, «negli anni abbiamo ricevuto proposte di sponsorizzazioni da aziende, ma noi abbiamo sempre rifiutato: il nostro obiettivo è la socialità gratuita, perché è così che si creano legami sociali duraturi». Questo aspetto è ciò che le distingue da altri progetti simili e altrettanto strutturati, come NextDoor, una piattaforma online disponibile anche come app, in cui chi si iscrive si può mettere in contatto solo con i vicini di casa. Qui infatti è permesso, tra le altre cose, fare compravendita.

I gruppi Facebook delle Social Street hanno delle regole: devono essere chiusi e limitati a un determinato quartiere; è vietato fare post promozionali; è vietato discriminare e avere atteggiamenti irrispettosi. Ma come spiega Nardacchione, partecipare attivamente non è obbligatorio, lo si fa solo se si vuole. Nei primi anni Nardacchione veniva sentito dalle Social Street sia italiane sia straniere per avere un supporto nella gestione e nel coordinamento delle attività; ancora oggi fa parte del gruppo Facebook di una Social Street in Olanda.

Non tutte le esperienze di Social Street sono ugualmente riuscite. Da una parte ci sono casi come quello di via Paolo Sarpi a Milano, una Social Street nata per favorire la comunicazione tra la comunità di origini italiane e quella di origini cinesi molto presente nella zona, che si è allargata ed è una delle più attive in Italia, sia online che dal vivo, con quasi 24 mila membri residenti nei dintorni della via. Mentre un’esperienza opposta è quella di via Duse, a Bologna, dove i residenti anziani e gli studenti della via non hanno mai trovato un punto d’incontro e il gruppo Facebook della Social Street è rimasto solo un canale di comunicazione virtuale, come racconta la sua amministratrice.

Pasqualini dice che oggi le Social Street sono meno visibili rispetto ai primi anni, ma rimangono un precedente importante di innovazione e inclusione che deve continuare a essere analizzato. Secondo Bastiani «se avessimo creato le Social Street oggi non avrebbero avuto lo stesso successo» perché la tecnologia e l’uso dei social network è molto cambiato, come anche il modo in cui le persone socializzano: a cominciare dal fatto che la diffusione di Facebook si è arrestata, il suo uso è meno frequente, e gli altri social network più competitivi e contemporanei non offrono le stesse opportunità.

Questo e gli altri articoli della sezione Come cambiano le città sono un progetto del workshop di giornalismo 2023 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.