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  • Lunedì 12 giugno 2023

Gli Stati Uniti vogliono rientrare nell’UNESCO

Erano usciti nel 2018 accusando l'organizzazione di un «pregiudizio anti-israeliano»: ora temono soprattutto che la loro assenza favorisca l'influenza della Cina

(AP Photo/Christophe Ena, File)
(AP Photo/Christophe Ena, File)

Il governo degli Stati Uniti ha inviato una lettera all’UNESCO, l’agenzia dell’ONU che si occupa di «promuovere la pace tra le nazioni» attraverso la scienza e la cultura, in cui dice di voler rientrare nell’organizzazione: gli Stati Uniti ne erano usciti ufficialmente alla fine del 2018, durante la presidenza di Donald Trump, al culmine di anni di contrasti soprattutto intorno a questioni di politica internazionale, e in particolare legati all’atteggiamento dell’UNESCO verso Israele, giudicato eccessivamente ostile.

In un comunicato pubblicato lunedì l’UNESCO ha fatto sapere della lettera e ha detto che il ritorno degli Stati Uniti nell’organizzazione dovrebbe avvenire già da luglio, cioè dal mese prossimo. Oltre a tornare come stato membro, gli Stati Uniti torneranno a finanziare l’UNESCO dopo molti anni: avevano smesso di farlo già dal 2011, durante la presidenza di Barack Obama, pur restando nell’organizzazione, dopo il voto con cui la Palestina era stata ammessa come stato membro. Nel comunicato si dice genericamente che gli Stati Uniti avrebbero già presentato un «piano di finanziamento dettagliato»: per il momento non sono state date ulteriori informazioni, ma è noto che l’UNESCO ha fortemente bisogno dei fondi statunitensi, nonostante lo stato delle sue finanze sia migliorato negli ultimi anni.

Il comunicato attribuisce gran parte delle motivazioni che avrebbero spinto gli Stati Uniti a decidere di rientrare alla nuova gestione dell’organizzazione avviata dalla direttrice generale Audrey Azoulay, l’ex ministra della Cultura francese che entrò in carica proprio nel 2017, in concomitanza con l’annuncio dell’uscita degli Stati Uniti. Secondo l’UNESCO gli Stati Uniti avrebbero apprezzato come Azoulay in questi anni abbia «ridotto le tensioni politiche» e permesso all’organizzazione di «affrontare pienamente le sfide contemporanee».

In realtà tra i motivi principali che hanno spinto gli Stati Uniti a questa decisione c’è anche il timore che la loro assenza stia permettendo un eccessivo rafforzamento dell’influenza della Cina sull’organizzazione, le cui decisioni hanno ripercussioni sulla cultura e la scienza a livello internazionale: la Cina, che nel frattempo è diventata il principale finanziatore dell’UNESCO, potrebbe per esempio svolgere un ruolo cruciale nel definire gli standard che dovranno avere l’intelligenza artificiale e la formazione tecnologica nei prossimi anni, magari anche indirizzando gli investimenti in virtù del proprio peso economico sui conti dell’organizzazione. È un timore acclarato e di cui negli ultimi mesi hanno parlato apertamente anche funzionari statunitensi: a marzo il sottosegretario di Stato John Bass aveva detto che l’assenza dall’UNESCO stava compromettendo la capacità degli Stati Uniti di promuovere la propria «visione di un mondo libero». «Se vogliamo davvero gareggiare con la Cina nell’era digitale», aveva detto Bass, «non possiamo più permetterci di essere assenti».

Nel 2011, con l’ingresso della Palestina nell’UNESCO, l’amministrazione Obama fece valere una legge del 1990 che vietava agli Stati Uniti di contribuire economicamente a qualsiasi agenzia delle Nazioni Unite accettasse la Palestina come stato membro. Da allora gli Stati Uniti hanno accumulato un totale di finanziamenti non erogati all’UNESCO di oltre 600 milioni di dollari (circa 560 milioni di euro), che ora potrebbero invece decidere di ripagare: a dicembre del 2022 l’amministrazione in carica di Joe Biden ha approvato una legge che permetterà di finanziare comunque l’organizzazione, a cui fino al 2011 gli Stati Uniti davano 80 milioni di dollari l’anno (poco più di 74 milioni di euro).

Nel 2017 decisero di uscirne del tutto sia criticandone la gestione economica, sia sostenendo che l’UNESCO continuasse a dimostrare un «pregiudizio anti-israeliano». Con gli Stati Uniti, anche Israele era uscito dall’UNESCO: in quell’anno l’organizzazione aveva dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità in Palestina la città vecchia di Hebron, in Cisgiordania. Per Israele quella decisione negava i legami del popolo ebraico con la città, che secondo la tradizione ospiterebbe le tombe dei patriarchi biblici Abramo, Isacco e Giacobbe. L’anno precedente l’UNESCO aveva adottato una risoluzione che di fatto minimizzava il rapporto fra gli ebrei e la “Spianata delle Moschee”, il principale complesso di Gerusalemme che è considerato un luogo sacro sia da ebrei che da musulmani.

Già nel 1984 gli Stati Uniti si erano ritirati dall’organizzazione su decisione del presidente Ronald Reagan, che in tempi di Guerra Fredda aveva accusato l’UNESCO di essere corrotta e schierata con l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti erano poi tornati membri dell’agenzia nel 2002, sotto la presidenza di George W. Bush, secondo cui la maggior parte dei pregiudizi antioccidentali era a quel punto scomparsa.