È da 70 anni che ci diciamo che stiamo causando il cambiamento climatico

I primi articoli che spiegarono sui giornali generalisti il ruolo delle attività umane nel riscaldamento globale risalgono al 1953

Titolo di un articolo del New York Times del 24 maggio 1953: "In che modo l'industria potrebbe cambiare il clima"
Titolo di un articolo del New York Times del 24 maggio 1953: "In che modo l'industria potrebbe cambiare il clima"
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Le grandi teorie scientifiche su cui si fonda la nostra conoscenza del mondo, come l’evoluzione delle specie o la tettonica a placche, hanno generalmente avuto sviluppi lunghi e vicissitudini anche travagliate prima di essere accettate dalla maggioranza della comunità scientifica internazionale e poi condivise come conoscenza comune con il resto delle persone. C’è voluto del tempo anche perché si diffondesse la consapevolezza che le emissioni di gas serra dovute all’industria e ad altre attività umane hanno un’influenza sul clima terrestre, ma si può dire che sia almeno da 70 anni che quest’informazione circola anche fuori dai contesti scientifici, almeno a grandi linee e inizialmente come ipotesi.

Fu infatti nel 1953 che per la prima volta i giornali degli Stati Uniti e non solo spiegarono che l’uso dei combustibili fossili per alimentare la produzione industriale avrebbe potuto causare un significativo innalzamento della temperatura media globale. Il 24 maggio del 1953 ad esempio il New York Times pubblicò un articolo intitolato “In che modo l’industria potrebbe cambiare il clima”. La notizia era stata diffusa dall’agenzia di stampa americana Associated Press, che a sua volta l’aveva desunta da un incontro dell’Unione geofisica americana di inizio mese in cui il fisico canadese Gilbert Plass aveva spiegato:

Il grande aumento dell’attività industriale in questo secolo sta diffondendo così tanta anidride carbonica nell’atmosfera che la temperatura media sta aumentando di 1,5 gradi per secolo.

Come ha raccontato lo storico del clima Marc Hudson, Plass aveva iniziato a interessarsi al tema dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica (CO2) nell’aria mentre lavorava per l’aziende automobilistica Ford. In particolare studiò cosa implica una maggior concentrazione del gas serra nella stratosfera, cioè il secondo strato dell’atmosfera, quello che si estende più o meno tra i 12 e i 60 chilometri di altitudine: già nel 1895 il chimico e fisico svedese Svante Arrhenius, premio Nobel per la chimica nel 1903, aveva ipotizzato che in centinaia di anni la CO2 prodotta nella combustione del carbone avrebbe riscaldato l’atmosfera al punto da causare un cambiamento climatico, ma la sua analisi era stata molto contestata perché aveva ricondotto la fisica della stratosfera a quella dello strato inferiore.

L’articolo del New York Times del 24 maggio 1953 che spiega l’effetto serra e il previsto aumento della temperatura media globale a causa delle emissioni di anidride carbonica

All’inizio degli anni Cinquanta era già noto da decenni il meccanismo dell’effetto serra, cioè il fatto che alcuni gas come la CO2 trattengono parte delle radiazioni infrarosse emesse dalla Terra e così contribuiscono a determinarne la temperatura (se non ci fossero sarebbe molto più bassa). E si era già notato un aumento delle temperature medie. La novità portata da Plass fu il collegamento tra l’aumento delle temperature e i gas serra prodotti dalle attività umane: fino a quel punto le ipotesi principali per spiegare il riscaldamento facevano riferimento a cambiamenti dei moti orbitali della Terra o all’attività del Sole.

Nel corso del decennio successivo Plass continuò a studiare la relazione tra i due fenomeni, a pubblicare articoli in merito e a parlarne con altri scienziati di varie parti del mondo che a loro volta cominciarono a occuparsi della questione.

Nel 1956 il chimico americano Charles Keeling iniziò a misurare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera nell’osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii: alle sue misure si sarebbe poi dovuta l’importante “Curva di Keeling”, che mostra l’andamento della concentrazione di CO2 in aria. Nel 1957 il geologo e oceanografo Roger Revelle e il fisico Hans Suess aggiunsero un elemento importante alla nascente scienza del cambiamento climatico dimostrando che la maggior parte dell’anidride carbonica emessa dall’inizio della Rivoluzione industriale era stata assorbita dagli oceani e che continuando a emetterne si sarebbe visto un maggiore effetto di riscaldamento dell’atmosfera.

L’anno successivo le basi del riscaldamento globale causato dalle attività umane furono spiegate in un episodio di una serie di documentari scientifici prodotta dal celebre regista Frank Capra.

Nel 1965 la questione dell’aumento della concentrazione di CO2 ebbe un’importante occasione di notorietà quando fu citata dal presidente statunitense Lyndon Johnson in un discorso davanti al Congresso. Intorno alla fine degli anni Sessanta erano cominciate le collaborazioni internazionali per studiare meglio il fenomeno e nel corso degli anni Settanta vennero fatte moltissime ricerche. Nell’archivio storico della Stampa si trovano riferimenti a questi studi in alcuni articoli pubblicati nel corso del decennio e il titolo di uno, risalente al 1977, è praticamente una replica di quello uscito sul New York Times 24 anni prima: “L’industria muta il clima?”.

Titolo di un articolo della Stampa pubblicato il 13 aprile 1971 (Archivio storico della Stampa)

Titolo di un articolo della Stampa pubblicato il 18 giugno 1977 (Archivio storico della Stampa)

Perché la consapevolezza dell’opinione pubblica mondiale fosse davvero coinvolta dalla scienza del cambiamento climatico però ci volle ancora un po’. I grandi leader politici internazionali cominciarono a parlarne davvero nel 1988, alla fine di un’estate particolarmente calda nell’emisfero boreale. Nel gennaio successivo una puntata di Quark, il programma della Rai condotto da Piero Angela che è stato una delle più importanti fonti di divulgazione scientifica in Italia, spiegò bene a un grande pubblico ciò che si era capito nel corso dei decenni precedenti.

Per molto tempo agli studi e alla divulgazione sulle cause umane del cambiamento climatico si sono accompagnati messaggi che negavano le origini antropiche del riscaldamento globale: in parte erano legati a dubbi di una parte della comunità scientifica, ma in larga misura (sempre maggiore col passare del tempo) erano dovuti agli interventi di politici e aziende che volevano difendere certi interessi economici, come quelli del settore petrolifero e dell’industria automobilistica.

Oggi, nonostante alcuni organi mediatici continuino a dare spazio a opinionisti che negano che il cambiamento climatico sia causato dalle emissioni umane, la comunità scientifica internazionale è concorde su questo punto. Sono stati fatti vari studi per valutare il consenso sul tema, che è stato stimato analizzando quanto scritto negli studi scientifici riguardo al cambiamento climatico degli ultimi trent’anni circa – quindi non facendo dei sondaggi tra gli scienziati. Gli studi più recenti sono del 2021 e parlano di un consenso del 98,7 per cento o addirittura superiore al 99 per cento.