L’alto prezzo del petrolio non ha fatto tanto bene ai paesi produttori

Ha contribuito a far aumentare l'inflazione, e alla fine anche i paesi dell'OPEC+ ne hanno risentito

(David McNew/Getty Images)
(David McNew/Getty Images)
Caricamento player

Da ottobre la produzione di petrolio è stata ridotta già due volte dai paesi produttori dell’organizzazione OPEC+, con l’obiettivo deliberato di tenerne artificialmente alti il prezzo e i profitti. Data l’enorme importanza del petrolio in numerosi settori dell’economia mondiale, l’OPEC+ (che include i 13 membri dell’OPEC, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, tra cui Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più altri paesi come la Russia e il Messico) ha quindi contribuito all’inflazione, cioè all’aumento generale dei prezzi.

Questo fenomeno, sostengono oggi molti analisti, le si è però ritorto contro e oggi i profitti dei paesi produttori di petrolio sono danneggiati da quella stessa inflazione che hanno contribuito in parte a creare.

Nonostante gli sforzi dei paesi produttori di mantenere i prezzi artificialmente alti, negli scorsi mesi le dinamiche di mercato hanno ridotto molto il prezzo del petrolio, con il risultato che il potere d’acquisto del singolo barile di petrolio non ha tenuto il passo della crescita generale dei prezzi: in termini reali, ossia di cose che effettivamente ci si possono comprare, oggi un barile di petrolio non vale più come un anno fa.

I paesi produttori di petrolio si sono di fatto trovati al centro di un paradosso: hanno alzato i prezzi per cercare di proteggere i propri profitti, ma facendolo hanno prodotto più inflazione. L’inflazione, a sua volta, è aumentata a tal punto da mangiarsi tutti quei profitti che i paesi dell’OPEC+ avevano cercato di difendere. Questo è un problema particolarmente grosso per i paesi dell’OPEC+, che importano la maggior parte dei loro beni di consumo, e che quindi sono più danneggiati quando il prezzo di questi beni di consumo aumenta.

È un paradosso noto in economia, anche se in questo caso è ancora più eccezionale proprio perché i produttori di petrolio finiscono per essere danneggiati dall’inflazione che proprio loro hanno contribuito ad alimentare, per quanto le cause siano piuttosto varie e non solo attribuibili all’aumento dei costi energetici. È un caso in cui si realizza la cosiddetta ipotesi di Prebisch-Singer, secondo cui nel lungo periodo il prezzo delle materie prime, come il petrolio, diminuisce in termini reali rispetto al prezzo degli altri prodotti. A prescindere dagli sforzi dei produttori di tenere alti i prezzi, il costo generale della vita crescerà sempre di più.

Nonostante gli sforzi dell’OPEC+, in queste settimane il prezzo di un barile di petrolio è tra i 70 e i 75 dollari al barile, il 40 per cento in meno rispetto ai picchi di giugno 2022.

Per misurare la dimensione della perdita reale dei paesi produttori di petrolio, Bloomberg ha elaborato un indice usando un noto prodotto di largo consumo: la libreria Billy di Ikea.

L’indice misura quante Billy riesce a comprare un barile di petrolio, in modo da dare una misura approssimativa del suo potere d’acquisto. Al suo apice, nel 2012, un solo barile di petrolio riusciva a comprare due librerie: quell’anno il petrolio era molto costoso e in media il prezzo al barile fu di 111,7 dollari, contro il prezzo di una libreria Billy di 395 corone svedesi (circa 60 dollari con il cambio di allora). Con i valori di oggi un barile riuscirebbe a comprare a malapena una Billy: in media oggi un barile di petrolio costa tra i 70 e i 75 dollari, mentre una libreria Billy costa 799 corone svedesi (circa 76 dollari, al tasso di cambio attuale).

Secondo l’indice di Bloomberg in termini reali il petrolio è tornato al livello del 2005. Per avere lo stesso potere di acquisto di dieci anni fa l’OPEC+ dovrebbe aumentare il prezzo del petrolio a circa 155 dollari al barile, una cosa difficilissima da realizzare che oltretutto provocherebbe enormi problemi all’economia mondiale.

– Leggi anche: Ma cos’è un “barile di petrolio”?