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  • Mercoledì 31 maggio 2023

Il referendum australiano per aumentare la rappresentanza degli aborigeni

Aggiungendo un articolo alla Costituzione e un organo consultivo: sarà in autunno ma se ne discute già sia in parlamento che fuori

La ministra per gli Indigeni australiani, Linda Burney, tiene una conferenza stampa dopo la presentazione in parlamento della proposta che sarà votata nel referendum a fine anno (Martin Ollman/Getty Images)
La ministra per gli Indigeni australiani, Linda Burney, tiene una conferenza stampa dopo la presentazione in parlamento della proposta che sarà votata nel referendum a fine anno (Martin Ollman/Getty Images)
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In Australia si terrà quest’anno un referendum per decidere se aggiungere un capitolo alla Costituzione che preveda il riconoscimento formale dei popoli indigeni del paese e che introduca un organo consultivo: la Aboriginal and Torres Strait Islander Voice o Voice to parliament avrebbe il potere di fornire pareri non vincolanti al governo e al parlamento federali sulle leggi riguardanti le comunità indigene. La legge sarà discussa in parlamento fra maggio e giugno, e sarà sottoposta a referendum fra ottobre e dicembre 2023. Il riconoscimento costituzionale delle popolazioni indigene è sostenuto a larga maggioranza, l’introduzione della Voice è invece molto più dibattuta e il sostegno è calato molto negli ultimi mesi, sebbene stando ai sondaggi la maggioranza degli elettori risulti favorevole.

Gli indigeni australiani sono i discendenti dei primi abitanti dell’Australia, arrivati oltre 50mila anni fa, e appartengono a molte popolazioni diverse per lingua e cultura. Il termine indigeni è usato in Australia per indicare gli aborigeni australiani e gli abitanti delle isole dello stretto di Torres, un arcipelago a Nord dell’Australia abitato da gruppi che sono riconosciuti come culturalmente distinti dalle popolazioni aborigene del continente, e a cui di solito ci si riferisce separatamente. Dall’inizio della colonizzazione europea nel 1788 persero il controllo su gran parte delle terre che occupavano e subirono violenze e politiche discriminatorie, fra cui l’allontanamento forzato di migliaia di bambini aborigeni e di discendenza mista dalle loro famiglie di origine per affidarli a istituzioni statali o ecclesiastiche, fra l’inizio del Novecento e gli anni Settanta.

Negli ultimi anni vari governi hanno provato a migliorare le condizioni di vita delle persone indigene: nonostante numerosi provvedimenti e sussidi le persone aborigene e dello stretto di Torres hanno infatti un’aspettativa di vita di circa dieci anni inferiore agli altri australiani, un alto livello di diffusione di malattie croniche (dovute soprattutto al fumo e all’alcol), di suicidi e di incarcerazione, un basso livello di scolarizzazione e di accesso ai servizi sanitari di base. Oggi la maggioranza di loro vive in povertà e si mantiene grazie ai sussidi statali, e gli episodi di razzismo e discriminazione sono frequenti. Per questo molti attivisti sostengono che i provvedimenti dello Stato siano stati finora essenzialmente simbolici e che non siano state prese le misure necessarie ad assicurare un miglioramento della qualità della vita.

Secondo molti la Voice to parliament potrebbe aiutare a mettere in atto politiche più efficaci per migliorare la rappresentanza e le condizioni di vita dei circa 700mila aborigeni, che sono quasi il 3 per cento della popolazione australiana.

Il governo laburista di Anthony Albanese, primo ministro dal 2022, considera il successo del referendum sulla Voice centrale per il proprio programma. Invece la Coalizione – l’alleanza dei due principali partiti di opposizione, il Partito Liberale di centrodestra e quello Nazionale, rappresentante delle istanze del mondo rurale – pur essendo in favore del riconoscimento formale e di un organo di rappresentanza si oppone alle misure proposte dal primo ministro e sta guidando la campagna per il No al referendum, anche se alcune sezioni locali di entrambi i partiti hanno deciso di sostenere comunque la riforma.

Le motivazioni di chi intende votare No includono la paura che la riforma enfatizzi le distinzioni razziali, la sfiducia verso un ulteriore organo del governo federale, con la proposta alternativa di istituire vari organi locali anziché uno nella capitale, e la preferenza per un intervento che venga istituito per legge, non con un referendum costituzionale, e che quindi potrebbe essere modificato più facilmente qualora si rivelasse disfunzionale. Fra chi invece sostiene la riforma si discute se limitare il potere consultivo della Voice al solo parlamento, escludendo il governo, nella speranza che una riforma più moderata convinca i molti elettori indecisi.

La posizione delle First Nations – come spesso sono chiamate le comunità indigene – non è unanime, anche perché sono composte da centinaia di migliaia di persone diverse per provenienza geografica, cultura, lingua, condizioni economiche e sociali. Per esempio, una delle più attive oppositrici del progetto è la senatrice Jacinta Nampijinpa Price, del National Party e di discendenza aborigena: sostiene che sancisca ulteriormente una separazione e che faccia gli interessi di gruppi di potere e leader all’interno delle comunità aborigene. La sua opposizione alla Voice è uno degli argomenti di comunicazione usati da chi si oppone alla riforma, per quanto i sondaggi indichino che fra le persone indigene la Voice riscontri un consenso preponderante.

Un aspetto considerato critico da molti attivisti è l’assenza di progressi concreti su altre questioni considerate importanti per l’autodeterminazione delle comunità aborigene e dello stretto di Torres, come la stipula di un trattato con il governo federale per regolare i rapporti reciproci. Invece un’opposizione di principio a un organo di rappresentanza della popolazione indigena non è sostenuta in parlamento se non da alcuni partiti marginali di destra, come One Nation. È piuttosto nel dibattito pubblico, soprattutto online, che sta crescendo l’uso di termini e toni razzisti, soprattutto fra chi aderisce alla campagna per il No, ma anche da parte di chi sostiene la riforma verso i leader aborigeni che vi si oppongono. Il Commissario contro le discriminazioni razziali ha esortato i politici a escludere le tematiche razziali dai propri discorsi, per non legittimare i discorsi razzisti nel dibattito pubblico.

Un altro aspetto considerato problematico da molti, fra cui alcuni politici laburisti, è la scarsità di informazioni pubblicate dal governo. Non è ancora stato definito come l’organo sarà composto e come saranno scelti i suoi membri, né altri dettagli sul suo funzionamento. La motivazione del primo ministro è quella di non voler spostare il dibattito dall’avere o meno la Voice ai dettagli del suo funzionamento. Una cosa simile accadde nel 1999 nell’ultimo referendum costituzionale, riguardante la scelta fra repubblica e monarchia (l’Australia è uno dei reami del Commonwealth, le ex colonie britanniche, che hanno mantenuto come capo di stato il monarca del Regno Unito anche dopo l’indipendenza). Nonostante l’opinione pubblica favorisse il passaggio alla repubblica, le divisioni fra i repubblicani sul metodo di scelta del presidente comportarono il fallimento della riforma. Nella storia australiana le proposte approvate da un referendum sono state solo 8 su 44, ed è necessaria la maggioranza assoluta dei voti sia a livello nazionale sia in almeno quattro dei sei stati.