Cos’è rimasto del Guinness dei primati

Oggi il famoso libro dei record sopravvive in buona parte grazie a collaborazioni con aziende e certificazioni bizzarre che non piacciono a tutti

Il bue con le corna dalla circonferenza maggiore secondo il Guinness dei primati, 95,25 cm, nel 2003 (dalla pagina Facebook del Guinness World Records)
Il bue con le corna dalla circonferenza maggiore secondo il Guinness dei primati, 95,25 cm, nel 2003 (dalla pagina Facebook del Guinness World Records)
Caricamento player

Se oggi una persona avesse la curiosità di sapere qual è l’edificio più alto del mondo o quanto sia durata la partita di tennis più lunga mai disputata molto probabilmente consulterebbe internet. Fino a qualche decennio fa invece una delle fonti più autorevoli in cui trovare risposte di questo tipo era il Guinness dei primati, il libro che raccoglie ogni anno un elenco dei record relativi ai temi più disparati, in particolare fatti o imprese improbabili e bizzarre.

Il libro continua a resistere nonostante i cali delle vendite e nonostante internet permetta di ottenere una fama quasi istantanea per qualsiasi tipo di trovata e consenta anche di scoprire rapidamente chi, come e quando abbia stabilito un certo record. Come ha raccontato di recente il Guardian, adesso l’organizzazione che dal 1955 certifica e pubblica i record mondiali è una cosa molto diversa rispetto agli inizi: si regge soprattutto su strategie di mercato che l’hanno resa un marchio interessante per le aziende che vogliono farsi pubblicità, ma che non sono apprezzate da tutti.

Secondo la leggenda la storia del Guinness Book of Records (oggi Guinness World Records) nacque nel 1951 da un’idea di Hugh Beaver, l’amministratore delegato del birrificio Guinness, in Irlanda. Durante una battuta di caccia Beaver cominciò a discutere con i suoi compagni di quale fosse l’uccello da selvaggina più veloce. Dal momento che non riuscì a trovare la risposta in alcun almanacco, manuale o enciclopedia, e pensando che discussioni di questo tipo potessero accadere di frequente per qualsiasi argomento, decise di fare da sé: inventò quindi il catalogo che poi diventò il Guinness dei primati.

L’idea era che il libro potesse essere distribuito sia nei pub in cui si vendeva la Guinness che nelle librerie, e che potesse servire a far scoprire cose nuove alla gente, così come ad aumentare il giro d’affari dell’azienda. Il catalogo ebbe un successo enorme e dal 1955 se ne cominciò a pubblicare una versione nuova ogni anno: tradotto in più di venti lingue, ha venduto in totale più di 130 milioni di copie.

All’inizio i contenuti del libro rispecchiavano molto i gusti di Ross e Norris McWhirter, i consulenti editoriali a cui si era rivolto Beaver per pubblicare il libro. Visto che i due non apprezzavano la musica pop, per esempio, i record relativi a quell’ambito erano pochi; non ce n’era poi nessuno che avesse a che fare con il sesso, in modo da essere accettabile per il più ampio pubblico possibile. I McWhirter continuarono a curare il Guinness dei primati fino al 1975, quando Ross venne assassinato in un attentato dell’esercito repubblicano irlandese (IRA), a cui era attivamente ostile. Il fratello gemello continuò fino al 1996, dopodiché si dimise.

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta «il libro era Norris e Norris il libro», ha detto al Guardian Anna Nicholas, che ai tempi era la responsabile della comunicazione dell’organizzazione. Oltre ai record stabiliti da atlete e atleti, il libro raccoglieva un gran numero di stranezze, dallo spazzolino più grande del mondo all’hot dog più pesante. A fine anni Novanta l’azienda della birra e la casa editrice si divisero: oggi quella che pubblica il libro ha la sua sede principale a Londra, ha più di 400 dipendenti ed è controllata da un conglomerato canadese.

Per continuare a interessare il pubblico, l’azienda ha cominciato ad assegnare titoli sempre più bizzarri, come il record del maggior numero di forchette di plastica infilate in una barba o quello dei sedili del gabinetto rotti con la testa in un minuto. Molti sembrano pensati apposta per poter finire nel libro o per essere battuti più e più volte. Ci sono poi le trovate che vengono ideate dalla stessa casa editrice per aiutare le aziende a promuovere il loro brand: stando a quanto scrive il Guardian il servizio di consulenza per trovare nuovi record da battere e trasformarli in strategie di marketing efficaci vale circa la metà degli introiti legati al Guinness dei primati.

Per fare fronte alla crisi del mercato editoriale, da metà anni Duemila la società ha cercato di espandersi in altri settori: esistono musei, videogiochi e un gran numero di programmi televisivi collegati al libro, tra cui Lo show dei record, che in Italia va in onda dal 2006 ed è arrivato alla sua nona edizione. Sul sito GuinnessWorldRecords.com chiunque può fare richiesta per proporre un record da battere, ma la gran parte della sua attività oggi è dedicata appunto ai record delle aziende. Nel 2021 per esempio l’inglese Currys si è fatta notare per aver realizzato la più grande piramide di lavatrici, alta più di 13,5 metri; l’anno scorso invece Mastercard ha organizzato la partita di calcio all’altitudine più elevata durante un volo parabolico, che simula cioè l’assenza di gravità, a oltre 6mila metri.

Fare in modo che i record stabiliti dai suoi clienti vengano citati sui social network e sui giornali è uno dei modi in cui l’azienda si assicura che il marchio Guinness World Records resti rilevante.

Alcune persone che sono state coinvolte nell’azienda fino agli anni Duemila hanno criticato queste strategie di mercato. Alasdair McWhirter, il figlio di Norris McWhirter, ha detto al Guardian che l’azienda «ha perso l’integrità intellettuale» che aveva ai tempi di suo padre e dello zio, la cui priorità era quella di diffondere la conoscenza e non «fare soldi». Secondo Nicholas invece oggi i titoli assegnati dall’organizzazione sono sempre più sensazionalistici perché devono soddisfare le richieste di un pubblico che si aspetta di vedere cose straordinarie in ogni momento, soprattutto a causa dei social network.

L’attuale direttore del Guinness dei primati, Craig Glenday, ha sostenuto che nonostante i tempi siano cambiati ci sia ancora bisogno del libro, che a suo dire funziona come una specie di autorità di vigilanza. In un contesto in cui su internet circolano informazioni e presunti record che spesso sono difficili da verificare, i giudici e gli addetti del Guinness dei primati invece li filmano, li misurano e li certificano seguendo rigidi criteri per determinare che lo siano effettivamente, sostiene.

Glenday concorda sul fatto che oggi la gran parte dei ricavi legati al Guinness derivi da un approccio più orientato alle aziende, ma ha spiegato che la gran parte di quei record alla fine non compare nel libro. Ha anche ammesso che alcune iniziative per cui l’azienda ha ricevuto molte critiche sono state piuttosto controverse per la sua reputazione.

Una delle più note riguarda i rapporti commerciali dell’organizzazione con il regime del Turkmenistan, uno dei paesi più repressivi al mondo, che dal 2006 al 2022 è stato governato del presidente Gurbanguly Berdymukhamedov, da sempre ossessionato dal Guinness. Secondo i critici, l’organizzazione aveva assegnato vari titoli al Turkmenistan senza troppa serietà nella selezione e aveva tratto profitti grazie a un dittatore che voleva dare visibilità al proprio regime, contribuendo in questo modo alla sua propaganda. Oggi l’azienda è più attenta a valutare i record che potrebbero avere fini politici, dice sempre Glenday.

Un altro aspetto cruciale per la sopravvivenza dell’organizzazione comunque è che qualcuno possa volerli battere, i record che certifica. Esistono anche quelli che vengono definiti “super record-breakers”, cioè persone che cercano di batterne di continuo, spesso impegnandosi in compiti non particolarmente complessi oppure che possono essere battuti di poco ogni volta. Tra questi ci sono David Rush, un uomo dell’Idaho che dal 2015 ha battuto più di 250 record, e l’italiano Silvio Sabba, che ne ha battuti quasi 600 e attualmente ne detiene 234.

– Leggi anche: Il Guinness dei primati non vuole riconoscere l’immagine digitale più grande del mondo