Le mance e tutto il resto

«Ho collezionato storie di primi lavori assurdi, come quello di un importante editor che agli inizi ha accettato un impiego per il comune di Roma che prevedeva di camminare sul guano del lungotevere con in braccio un dissuasore acustico per scacciare gli storni dagli alberi. Ho anche la storia di una attuale funzionaria della Banca Mondiale a Washington che poco prima di laurearsi si è ritrovata a pattinare vestita da gallina sul lungomare di Pescara per promuovere l’apertura di un nuovo negozio di pasta all’uovo»

La scena iniziale di "Le Iene" di Quentin Tarantino, 1992, in cui si discute se sia giusto lasciare la mancia ai camerieri
La scena iniziale di "Le Iene" di Quentin Tarantino, 1992, in cui si discute se sia giusto lasciare la mancia ai camerieri
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Ho vissuto per quasi dieci anni negli Stati Uniti e da pochi mesi sono tornata in Italia. Assisto alle polemiche di questi giorni sui giovani, il diritto allo studio e il mondo del lavoro facendo una fatica tremenda ad accettare che un problema così complesso venga affrontato buttando un’intera generazione (con l’acqua sporca) nella vasca dei “viziati” o in quella degli “sfruttati”.

Se poi mi si chiede conto delle differenze nel mondo del lavoro tra Italia e Stati Uniti, i distinguo in campo rischiano di paralizzare qualsiasi affermazione, rendendola falsificabile con un qualsiasi sì però. Il modo migliore che ho a disposizione per evitare generalizzazioni falsificabili è operare al contrario di quando si fa di ogni erba un fascio e cioè togliere dal fascio le singole erbe. Fuor di metafora ho raccolto piccole storie esemplari, che è da sempre il modo migliore per comprendere e comparare le situazioni senza pregiudizi, senza pretesa di esaustività. Poi i fasci li può rifare chi legge (anche se sfasciarli è sempre più bello del contrario, specialmente in questo periodo).

Primi impieghi
In Europa si inizia tendenzialmente a lavorare piuttosto tardi rispetto agli Stati Uniti, diciamo intorno ai vent’anni, mentre negli Stati Uniti quasi tutti gli adolescenti sperimentano presto lo sforzo retribuito. I primi impieghi (e questo un po’ dappertutto) sembrano quasi avere intrinsecamente le caratteristiche del rito di iniziazione, la cui efficacia è direttamente proporzionale a una componente dolorosa o umiliante.

Per quanto riguarda l’Europa ho collezionato tra amici e conoscenti storie di primi lavori assurdi, che niente avevano a che fare con le loro competenze, tipo quello di un importante editor che agli inizi per mantenersi ha accettato un po’ di tutto, incluso un impiego per il comune di Roma che prevedeva di camminare sul guano del lungotevere con in braccio un dissuasore acustico dal suono spaventoso per scacciare le migliaia di storni dagli alberi. Ho anche la storia di una attuale funzionaria della Banca Mondiale a Washington che poco prima di laurearsi si è ritrovata a pattinare vestita da gallina sul lungomare di Pescara per promuovere l’apertura di un nuovo negozio di pasta all’uovo. (Quando si è trasferita negli USA il primo mestiere lo ha ottenuto sulla base dei suoi studi, delle sue competenze e del colloquio).

Anche io ho la mia prima esperienza umiliante. Avevo 21 anni ed ero a Parigi per un programma di scambio universitario, la borsa di studio era finita tutta nell’affitto e avevo bisogno di mantenermi. Anche a quei tempi come oggi la città era bloccata dagli scioperi e dalle manifestazioni per la difesa dei diritti dei lavoratori, le metropolitane per tutto l’inverno funzionarono a singhiozzo. Lungo il percorso che facevo a piedi tra casa e l’università c’era un’agenzia di lavoro interinale e un pomeriggio, visto l’annuncio di un grosso gruppo mediatico che cercava personale part-time, sono entrata. Mi hanno fatto un colloquio e quando mi hanno chiesto cosa volessi fare nella vita ho risposto la giornalista.

Qualche giorno dopo mi sono ritrovata prima dell’alba alla Gare de Lyon a distribuire il quotidiano popolar/destrorso Le Parisien ai pendolari che arrivavano. Offrendo il giornale dovevo dire a voce altissima «Le Parisien offert par SNCF» (e alla millesima volta che ripetevo l’acronimo delle ferrovie francesi frullando a caso le quattro consonanti, la mia collega di distribuzione mi ha ingiunto di dare il giornale e stare zitta). Dato che non eravamo in un film della Nouvelle Vague in cui la studentessa che distribuisce i giornali incontra Jean-Paul Belmondo e men che meno in un film americano in cui quel frustrante lavoro sarebbe stato il primo passo di una lunga carriera nel mondo del giornalismo, il giorno dopo ho salutato l’agenzia interinale e risposto a un annuncio per fare la baby sitter. La paga era migliore e gli orari più umani.

Negli Stati Uniti questi lavori si iniziano a fare alle medie. Volantinaggio, baby e dog sitting, arbitraggio nelle partite di sport amatoriali, piccole consegne, spalaggio neve, rasatura prati. E vengono pagati piuttosto bene. Il figlio di un’amica a 14 anni facendo babysitting, vendita di limonata e dolci a un mercatino di Natale si è comprato con i suoi soldi un iPhone nel giro di un mese. Da 16 anni in poi quasi tutti si trovano un lavoro estivo (spesso come camerieri) con il quale iniziano a mettere da parte delle cifre che per noi in Italia sono da primo lavoro vero.

Spot the differences
Differenza n. 1: l’età in cui si inizia. I giovani italiani entrano nel mondo del lavoro piuttosto tardi, senza esperienza e con un’asticella di aspettative in genere più alta di quella che gli è consentito realisticamente saltare, si ritrovano a fare quei lavori che dovrebbero essere buoni per essere cambiati al più presto. (L’alternanza scuola-lavoro non vale, non è retribuita ergo non è lavoro).

Differenza numero 2: la retribuzione. Negli Stati Uniti le paghe sono più alte. Il cameriere italiano riceve uno stipendio piuttosto basso, in alta stagione lavora un numero immorale di ore e spessissimo senza contratto (una recente indagine dell’ispettorato del lavoro di cui si parlava in un articolo di Andrea Galliano su Domani, gli irregolari nel campo della ristorazione in certe zone del sud arrivano a picchi del 96%). Negli Usa il cameriere praticamente non ha stipendio se non un fisso risibile e campa di mance. La mancia negli Stati Uniti però è obbligatoria ed è considerata accettabile dal 15% in su sulla cifra del conto. Va da sé che lavorare in un ristorante caro permette ai camerieri di guadagnare benissimo: è normale tirare su 250 dollari a sera in una pizzeria fighetta dove una margherita costa 20 dollari (ma se nella pizzeria non viene nessuno il cameriere non guadagna niente).

Differenza numero 3 (spoiler): se intende fare l’università negli USA il teenager che ha iniziato a mettere da parte discrete cifre prima della maggiore età vedrà i suoi risparmi dissolversi alla velocità della luce con la prima rata dell’iscrizione al college. Dato che le università sono praticamente tutte private, le borse di studio poche, le rette altissime (per le università prestigiose si aggirano tra i 70 e gli 80 mila dollari l’anno) nella maggior parte dei casi ci si indebita per studiare e i mutui degli universitari vengono ripagati solo dopo diversi anni di lavoro post lauream. Ho visto camerieri italiani invidiare gli statunitensi per le mance a fine serata, ho visto studenti statunitensi spalancare la bocca dallo stupore sapendo a quanto ammontano le tasse nelle prestigiose facoltà delle Università pubbliche italiane (la loro invidia sale ulteriormente quando sanno che in Italia puoi andare al bar a bere una birra a 17 anni, ma anche questa è un’altra storia).

Università e carriera universitaria
A proposito di università: se da un lato quindi il sistema universitario italiano è di gran lunga più accessibile e democratico di quello statunitense, i nodi vengono al pettine quando nell’università si vuole restare per fare ricerca e insegnare. 

Una mia amica di New York professoressa universitaria di storia (ormai in pensione) mi ha detto di aver fatto la cameriera in un locale in un umiliante vestito gipsy da studentessa, ma di essersi potuta mantenere adeguatamente non appena iniziato il dottorato. Poi la sua carriera è stata rapida e solidamente retribuita (ha pure vinto un prestigiosissimo MacArthur Prize, una specie di Nobel per la ricerca con borse fino a mezzo milione di dollari).

Innumerevoli sono, invece, le storie di ricercatori in Italia sfruttati dagli ordinari per anni e costretti a fare doppi o tripli lavori per mantenersi e quelle dei loro omologhi fuggiti negli States dove hanno ottenuto cattedre, dipartimenti, riconoscimenti economici impensabili dentro il sistema universitario italiano. Un esempio: storia di V., economista che dalla campagna piemontese è arrivato a Chicago per il PhD: mentre studiava in Italia faceva la vendemmia per pochi euro l’ora, a Chicago dando ripetizioni agli studenti dei primi anni della Business school mentre prendeva il dottorato ha pagato la caparra per comprarsi casa (gli ci sarebbero voluti 50 anni di vendemmie). A 32 anni è diventato professore. Storia simile per P., laureato in biologia, destinato a fare l’assistente al suo professore di Torino, che ora negli USA è a capo di un dipartimento di ricerca che lo scorso anno ha ricevuto un finanziamento da quattro milioni di dollari. Non tutti quelli che si trasferiscono nelle università USA raggiungono questi successi, ovviamente. Di certo, le storie mi fanno supporre che nelle università americane le possibilità di crescita siano molte più che in quelle italiane.

Primo colloquio
A proposito di primi impieghi adeguati e colloqui di ingresso, due storie esemplari (gen. X, 1965-1980):

I., una delle prime laureate in Scienze della Comunicazione quando ancora era una facoltà a numero chiuso, vince subito un concorso per una posizione di funzionaria nell’Ufficio Relazioni con il Pubblico di un grosso comune toscano, finendo però dopo qualche giorno a timbrare le carte di identità all’anagrafe visto che di progetti per la comunicazione pubblica non c’era neanche l’ombra. 

M., laureata in giurisprudenza, primo colloquio in uno studio notarile milanese, l’anziano notaio le fa subito delle avances incluse domande moleste tipo “a che età hai perso la verginità?”, a cui la sventurata (vent’anni prima di me too) si sente anche in dovere di rispondere. Fugge presto per unirsi a un progetto delle Nazioni Unite in Kosovo dopo il quale pubblica un report grazie al quale le viene offerto un lavoro in un grosso studio legale statunitense dopo un colloquio telefonico.

Garanzie e tutele
Negli Stati Uniti ho conosciuto un manager che non aveva mai preso ferie più lunghe di una settimana in vita sua.

L., agente di una grossa agenzia letteraria di New York incontrata alla fiera del libro di Francoforte un mese dopo aver partorito due gemelli, mi spiegava la fortuna di avere una madre disponibile a tenere i neonati in sua assenza e soprattutto del fatto che tutti gli appuntamenti avessero una durata standard di mezz’ora, cosa che le consentiva di fare una pausa ogni quattro clienti per andare a tirarsi il latte e non perderlo.

Storia di B., cittadina USA, capa della comunicazione del Washington Post, due settimane di congedo di maternità.

Storie di donne demansionate dopo la maternità in Italia, tendenti ai grandi numeri.

Storia di A., italiano, dipendente di un grosso gruppo industriale: si prende il congedo di paternità, primo in tutta la storia dell’azienda, i suoi colleghi neanche sapevano che esistesse quella possibilità. Quando torna non ha più né la scrivania né il suo ruolo. Happy ending: resiste e fa lo stesso carriera, sempre nella stessa azienda, usufruendo dopo qualche anno anche del congedo matrimoniale (quindici giorni pagati per il viaggio di nozze). A questo diritto Michael Moore ha dedicato un capitolo del suo documentario Where to Invade Next in cui consigliava ironicamente al suo Paese di invadere quelli dove si vive meglio che negli USA. Michael Moore però non ha parlato con S., L., F. e B. che hanno la partita Iva, niente ferie pagate, niente congedo matrimoniale né sussidio di maternità e infatti neanche hanno fatto i figli perché vivono lontano dal welfare italiano che per molti consiste nella presenza e nella disponibilità dei nonni.

Immigrati senza formazione
Anche se le testimonianze raccolte sembrano provenire da un gruppo abbastanza omogeneo di lavoratori tutto sommato privilegiati e con una formazione di livello medio/alto, ho anche la storia di R., immigrato senegalese in Italia senza permesso di soggiorno che nel 2015 vendeva fazzoletti fuori da un bar e nel 2023 vende ancora fazzoletti fuori da un bar.

Poi c’è la storia di J., immigrato dall’Ecuador senza visto in Maryland, che si è comprato un tagliaerba nel 2014, ha cominciato a curare i prati di un quartiere residenziale, negli anni di Obama ha ottenuto i documenti, e nel 2023 ha la sua ditta di giardinaggio con due collaboratori.

Lungi da me portare acqua al mulino del sogno americano con l’orfanello poverissimo che inizia spazzando le strade e con tenacia e forza di volontà diventa amministratore delegato di una multinazionale, idea che ormai non funziona più tanto nemmeno al cinema, posso dire che negli USA mobilità e riconoscimento economico sono fattori importanti che regolano il mondo del lavoro. Mentre in Italia le garanzie e le tutele dei lavoratori, di cui siamo così fieri e che abbiamo sempre difeso con grande energia, stanno iniziando a lasciare fuori una tale quantità di lavoratori da virare pericolosamente dal diritto al privilegio. E in più inchiodano chi non gode di garanzie e tutele alla precarietà (che con la mobilità ha in comune la mancanza di fissità e sicurezza, ma chi è mobile cambiando pensa di procedere in avanti, chi è precario teme di cadere in un baratro).

Tra tutte queste differenze, la tendenza che accomuna i due Paesi sono le storie di “grandi dimissioni” post pandemia che non sto neanche a raccontare, tante ne ho di simili e recenti. Mi sembra che si stia facendo strada un po’ ovunque una nuova idea della relazione tra tempo del lavoro e tempo della vita, facendo pendere l’ago della soddisfazione personale verso quest’ultimo. La serenità sembra diventata incompatibile con una vita solamente “fondata sul lavoro”. Il sacrificio del proprio tempo, della famiglia o degli amici, o delle passioni “improduttive” al sacro altare della carriera e dei soldi non sembra più garanzia di realizzazione.

E se le espressioni “fondata sul lavoro” e “pursuit of happiness” sono presenti nelle carte costituzionali delle due democrazie che stiamo prendendo in considerazione, forse dovemmo dare retta a entrambe e cercare una via di mezzo ideale tra la mobilità e le garanzie, se vogliamo che il lavoro diventi concretamente un mezzo per agevolare la “ricerca della felicità” e non l’obiettivo che si sostituisce a quest’ultima e meno che mai l’ostacolo al suo raggiungimento. I tempi sono cambiati, i bisogni, le idee del secolo scorso sul posto fisso, la scalata professionale, il successo, l’ufficio, il workaholism, la realizzazione personale fatta di scopi o di soldi non sono più le stesse e hanno mille sfaccettature diverse. Tanto che possiamo dire che tutti i lavori brutti si somigliano, di qua o di là dall’oceano, ogni lavoro bello, oggi, è bello a modo suo. Ma al capitalismo interessano i soldi, mica la bellezza.

Lorenza Pieri
Lorenza Pieri

Scrittrice, giornalista e traduttrice italiana naturalizzata americana. Ha pubblicato i romanzi Isole minori (2016), Il giardino dei mostri (2019) e Erosione (2022). Vive a Milano dopo essere stata per otto anni a Washington DC.

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