Questo videogioco è troppo realistico?

Un video tratto dallo sparatutto “Unrecord”, di prossima uscita, ha stupito tutti per la grafica e stimolato un dibattito

(Unrecord)
(Unrecord)
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Lo scorso 19 aprile lo sviluppatore indipendente DRAMA ha pubblicato il primo video di Unrecord, un videogioco del genere sparatutto in prima persona che sta facendo molto discutere. Il video mostra un poliziotto entrare in un capannone abbandonato, e, in un montaggio di differenti scene, alcuni inseguimenti e diverse sparatorie, riprese tutte dal punto di vista del giocatore. Ma il motivo per cui Unrecord ha attirato così tanti commenti tra appassionati e addetti ai lavori è che stacca tutti gli altri giochi di questo genere per il suo incredibile realismo: i primi secondi del video sono quasi indistinguibili dalla realtà, sia per quanto riguarda l’ambiente di gioco, prossimo al fotorealismo, sia per le animazioni del protagonista e degli altri personaggi, estremamente più convincenti della norma.

I giochi in prima persona simulano i movimenti e le azioni di un personaggio dal suo punto di vista per poter aumentare il livello di immedesimazione del giocatore, e rendere alcune meccaniche di gioco, come ad esempio quella dello “sparare”, più coinvolgenti ed efficaci. Solitamente sullo schermo non si vede solo quello che dovrebbe vedere il protagonista, come in Unrecord, ma anche elementi grafici legati all’interfaccia di gioco, come ad esempio una mappa, di quali armi o munizioni si è in possesso. Non avere nessuno di questi elementi rende l’esperienza di gioco dal punto di vista dell’usabilità più complessa (non è escluso che essendo nelle prime fasi dello sviluppo del gioco queste informazioni verranno aggiunte in un secondo momento), ma sicuramente più efficace da quello dell’immedesimazione.

Ad aggiungere verosimiglianza al video c’è poi la particolare inquadratura utilizzata: solitamente negli sparatutto in prima persona la telecamera è posizionata all’altezza degli occhi e il suo movimento segue quello della testa del personaggio, mentre in Unrecord il punto di vista è quello delle bodycam in dotazione alla polizia, le piccole telecamere posizionate solitamente all’altezza del petto. La visuale poi imita in qualche modo la distorsione delle lenti grandangolari delle bodycam, rendendo il video estremamente simile ai filmati a corredo di alcune notizie di cronaca.

I giochi con visuale in prima persona sono il genere di riferimento degli sparatutto, da quando uscì Doom nel 1993. Appartengono a questa categoria Call of Duty, Overwatch e Destiny, che sono alcuni tra i videogiochi di maggior successo degli ultimi decenni. Nessuno di questi però, per scelta artistica o per la mancanza di strumenti adatti alla loro realizzazione, era mai arrivato al realismo di Unrecord, tanto che nei primi giorni dopo la pubblicazione del video in tanti si sono chiesti se si trattasse effettivamente di sequenze di gioco o se invece non fosse un vero video modificato perché sembrasse un videogioco.

«Qualcuno ha sollevato dubbi riguardo all’autenticità delle immagini» ha scritto lo sviluppatore DRAMA sulla pagina Steam (il più grande negozio di videogiochi digitali per computer) del gioco. «Unrecord è sviluppato con Unreal Engine 5 e il materiale video è stato acquisito da una versione giocabile del software, con mouse e tastiera come controller». Lo studio ha poi anche specificato che visto l’enorme costo che devono sostenere gli studi di produzione per fare i videogiochi, se tutto questo fosse una truffa sarebbe una «truffa colossale». DRAMA è un piccolo studio indipendente fondato da Théo Hiribarne e Alexandre Spindler, e questa è la sua prima produzione.

Unreal Engine 5 è l’ultima edizione di uno dei più diffusi e apprezzati middleware, il tipo di software a cui appartengono i motori grafici, cioè un insieme di strumenti che servono a programmare tutti gli aspetti di un gioco, dalla fisica degli oggetti alla modellazione dei personaggi. Per poterlo utilizzare serve sottoscrivere un accordo di licenza con Epic Games, il proprietario di Unreal Engine. Il vantaggio di appoggiarsi a un middleware su licenza è che non bisogna svilupparne uno da zero per conto proprio, limitandosi così a modificarlo e personalizzarlo per le proprie esigenze.

Non sono tanti al momento i videogiochi già pubblicati che utilizzano Unreal Engine 5 (Fortnite è il più famoso, sviluppato dalla stessa Epic Games) perché la diffusione di questo motore è stata rallentata dalla pandemia e dalla problematica distribuzione delle console di nuova generazione. La crisi dei commerci mondiali scatenata dalla pandemia da coronavirus ha reso i componenti per assemblare i PC (principalmente microchip e schede video) più costosi e difficili da reperire, esattamente come PlayStation 5 e Xbox Serie X|S, le ultime console di Sony e Microsoft. Le limitazioni imposte dalla pandemia hanno poi avuto un enorme impatto su editori e sviluppatori, che hanno dovuto riorganizzare tutti i flussi di lavoro in maniera remota o ibrida poi, così da poter continuare a lavorare, seppur più lentamente, anche durante i lockdown. Al momento i giochi in sviluppo con Unreal Engine 5 sono circa 50, e aumenteranno sempre di più nei prossimi anni.

Il fatto che questi nuovi strumenti tecnologici permettano di raggiungere un così alto grado di verosimiglianza (a costi contenuti) potrebbe però trasformarsi presto in un problema: secondo Keza MacDonald, giornalista del Guardian, «in giochi come Ride 4 [un simulatore di motocross] un gameplay fotorealistico è una bella aggiunta. Ma se i videogiochi mostrano atti violenti, come spesso fanno, diventa tutto più spiacevole». Ovviamente la violenza esiste in tantissimi prodotti di intrattenimento televisivi o cinematografici, aggiunge MacDonald, ma c’è una grande differenza con i videogiochi perché questi sono interattivi, e richiedono che le azioni vengano eseguite attivamente da una persona.

Anche Stacey Henley della rivista TheGamer è critica sull’opportunità di rendere questo tipo di giochi così realistici, soprattutto quando le storie che raccontano sono così vicine all’attualità. Secondo lei infatti non ci sono elementi che suggeriscano che il gioco voglia stimolare una discussione legata agli abusi e alle violenze commesse dalla polizia, e anzi la sua impressione è che il gioco tenda a celebrare il poliziotto protagonista del video. «Considerando che siamo abituati a vedere le immagini provenienti dalle bodycam solo quando un poliziotto ha superato il limite con l’utilizzo di forza e violenza non necessarie, l’idea di associare questo specifico immaginario a qualcosa di positivo o entusiasmante è estremamente problematico».

Negli ultimi anni, con l’aumentare della consapevolezza verso questioni sociali come le discriminazioni di genere, il razzismo sistemico o il ruolo di polizia ed esercito nella società moderna, molti editori si sono trovati nella posizione di dover specificare che il loro videogioco non “fosse politico”, che non volesse cioè affrontare questioni problematiche della società moderna ma che si limitasse a raccontare un contesto legato all’attualità senza per questo prendere una posizione specifica. È successo a Ubisoft con The Division 2, un videogioco ambientato nella Washington di un mondo post apocalittico nel quale i protagonisti devono fermare una cellula governativa fuori controllo che vuole prendere il potere, e con Far Cry 5, dove i nemici sono rappresentati da una setta cristiana di una zona rurale degli Stati Uniti pesantemente armata e pronta a ribellarsi al governo. I grandi editori come Ubisoft cercano sempre di evitare che i propri prodotti possano essere definiti troppo politicizzati per non alienarsi i potenziali videogiocatori, e per non subire ritorsioni mediatiche (sotto forma di recensioni negative e di commenti su profili social, forum e siti di videogiochi) di una minoranza rumorosa spesso ferma su posizioni reazionarie.

Nella pagina del gioco su Steam, DRAMA ha spiegato che il suo desiderio è quello di rivolgersi al più ampio pubblico possibile, ed è per questo che Unrecord non è ispirato a eventi realmente accaduti. «Bisogna fare presente che i giochi sono “politici” indipendentemente dal loro desiderio di esserlo» scrive ancora MacDonald, e che chiunque, in un mondo nel quale la violenza della polizia effettivamente esiste, connoterà il gioco di una valenza politica, in un senso o nell’altro. In ogni caso, lo studio di sviluppo di Unrecord ha specificato che il gioco eviterà argomenti particolarmente sensibili come la discriminazione, il razzismo o la violenza contro donne e minoranze.

Sempre per Henley «il problema è che molti personaggi dei videogiochi sono poliziotti nella loro essenza. Pensano di essere nel giusto e di agire con autorità, sempre. Credono che la forza li faccia essere nel giusto, e la narrazione intorno a loro tende a giustificare questa visione. Scherziamo sempre su quante persone Nathan Drake [il protagonista del gioco d’avventura Uncharted] uccida solo perché sono inconsapevoli pedine che si frappongono tra lui e il suo obiettivo, ma la maggior parte dei giochi ci mette a disposizione armi letali e ci insegna che va bene uccidere se si è nel giusto».

Questo conflitto, la divergenza cioè tra quello che viene raccontato attraverso la storia (e quindi scene di intermezzo, voci fuori campo o in ogni caso tutto quello su cui il giocatore non ha controllo) e le azioni che si devono poi effettivamente compiere giocando, è chiamato “dissonanza ludonarrativa”, termine inventato nel 2007 da Clint Hocking (un importante sviluppatore di LucasArts e Ubisoft). L’esempio più comprensibile e famoso di dissonanza ludonarrativa è proprio quello di Uncharted, un videogioco di avventura dai toni molto leggeri sviluppato da Naughty Dog.

Il protagonista si chiama Nathan Drake, ed è un avventuriero alla ricerca di tesori leggendari: il tono del racconto è quello dell’avventura in stile Indiana Jones, con grandi scene d’azione e una certa spensieratezza nel racconto e nei dialoghi. Nathan Drake è un “buono” nel senso classico del termine, e così è raccontato in tutte le scene di intermezzo che portano avanti la trama del gioco. Quando però effettivamente si gioca, una parte consistente dell’esperienza prevede di sparare e uccidere decine di soldati, miliziani o predatori di tesori, creando così una dissonanza tra quello che la storia dice di Nathan Drake e quello che invece effettivamente gli si fa fare.

Le polemiche sulla presunta pericolosità sociale dei videogiochi sono cicliche: nel 1993 si parlò talmente tanto della violenza del videogioco Mortal Kombat (un “picchiaduro” anch’esso caratterizzato da un livello di realismo superiore alla media delle produzioni del tempo) che negli Stati Uniti si arrivò alla creazione dell’ESRB, il sistema che ancora oggi definisce a quale fascia d’età dovrebbe essere rivolto un videogioco. Nel tempo poi sono state moltissime le denunce, polemiche e interrogazioni parlamentari legate a Grand Theft Auto, una delle serie di videogiochi più famose nella quale si interpreta un criminale libero di agire come crede nel mondo di gioco. Nonostante la violenza nei videogiochi sia spesso stata strumentalizzata in passato, non esistono studi scientifici conclusivi a riguardo: un report del 2020 della Royal Society ha analizzato 28 studi effettuati negli ultimi anni non trovando alcuna correlazione significativa tra l’esposizione alla violenza nei videogiochi e un comportamento effettivamente più violento.