La storia di Giulio Giaccio, ucciso dalla camorra per errore

Fu scambiato per un certo Salvatore e sciolto nell'acido, ora gli imputati vorrebbero risarcire la famiglia con immobili e 30mila euro

Giulio Giaccio (Ciro Fusco/ANSA/CD)
Giulio Giaccio (Ciro Fusco/ANSA/CD)

Due imputati, accusati di aver ucciso quasi 23 anni fa un giovane di 26 anni scambiandolo per un’altra persona, hanno offerto come risarcimento alla sua famiglia assegni da 10mila euro ciascuno e alcuni immobili a Napoli per altri 120mila euro. Tra gli immobili offerti c’è anche un garage al centro di controversie con il comune per questioni di condono. Il denaro e gli immobili sono stati offerti, come hanno scritto i legali dei due imputati, «a titolo di integrale risarcimento del danno materiale e morale patito».

L’obiettivo dei due imputati, Salvatore Cammarota, 55 anni, e Carlo Nappi, 64, entrambi già detenuti per reati di camorra e appartenenti al clan Polverino, era che la famiglia del giovane assassinato, Giulio Giaccio, rinunciasse a presentarsi come parte civile nel processo sulla vicenda: oggi è prevista l’udienza preliminare. Inoltre, lo scopo era anche quello di mostrare pentimento per ottenere una pena inferiore, ma la famiglia ha rifiutato l’offerta rispondendo così tramite il suo avvoca​​to:

In qualità di legale di Rosa Palmieri, Rachele e Domenico Giaccio, prendo atto che gli assistiti hanno inteso comunicarmi la loro decisione di non accettare tale offerta, dal momento che essi confidano esclusivamente nelle determinazioni dell’autorità giudiziaria, all’esito del processo penale de quo [in questione, ndr]. Per questo motivo, l’offerta “reale” formulata non può trovare accoglimento.

Giulio Giaccio era un operaio che fu sequestrato da uomini travestiti da agenti di polizia alle 22:30 del 30 luglio del 2000. Si trovava a Pianura, quartiere di Napoli ovest. I finti poliziotti si avvicinarono e chiesero a Giaccio: «Sei Salvatore?». Lui rispose di non chiamarsi Salvatore ma i finti poliziotti insistettero. Dissero: «Devi seguirci in questura». La scena fu vista, e poi descritta, da un testimone. Da allora di Giulio Giaccio non si seppe più nulla. Le indagini accertarono che non aveva alcun legame con la criminalità organizzata. Per un bel po’ la scomparsa di Giaccio divenne un “cold case”, un caso irrisolto per il quale non solo non c’erano soluzioni ma nemmeno piste credibili.

Fu così fino al 2015, quando le indagini furono riaperte dai pubblici ministeri Mariella Di Mauro e Giuseppe Visone. Tre collaboratori di giustizia del clan camorristico Polverino, Roberto Perrone, Giuseppe Simioli e Biagio Di Lanno, dissero che Giaccio era stato assassinato per uno scambio di persona. In particolare Perrone raccontò che era stato uno dei più fidati collaboratori del capo del clan, Giuseppe Polverino detto “o’ barone”, a uccidere Giaccio. 

Il clan Polverino, nato negli anni Novanta come costola del potente clan Nuvoletta, ha la sua base operativa a Marano di Napoli ma è molto influente anche a Pozzuoli, Qualiano, Quarto (tutti comuni dell’hinterland napoletano) e ha filiali criminali in Spagna e Marocco. Uno dei capi più influenti del clan era Salvatore Cammarota, uno dei due imputati per l’omicidio. Fu lui a ordinare e a eseguire personalmente una serie di omicidi nei confronti di uomini che dovevano essere puniti perché avevano avuto una relazione con sua sorella, compreso quel Salvatore che avrebbe dovuto essere ucciso al posto di Giaccio: il motivo erano le avance fatte alla sorella di Cammarota, con cui secondo la logica dei clan aveva mancato di rispetto al capo camorrista.

I collaboratori di giustizia hanno raccontato ai pubblici ministeri che Giaccio fu sequestrato e ucciso per colpa dell’errore del cosiddetto “specchiettista”, cioè la persona che doveva indicare ai due finti poliziotti chi fosse l’uomo da prelevare. Giaccio, in auto con i finti poliziotti, continuò a ripetere che c’era un errore: «Io non mi chiamo Salvatore, i miei genitori lavorano, siamo persone oneste». Secondo il racconto dei collaboratori di giustizia fu ucciso con un colpo di pistola alla testa. Prima gli venne chiesto di chinarsi e appoggiare il capo sulle ginocchia, poi un terzo uomo, che ancora non ha ricevuto provvedimenti giudiziari, sparò, e successivamente il corpo fu sciolto nell’acido. Il collaboratore di giustizia Biagio Di Lanno raccontò che la dentatura di Giaccio non si era sciolta nell’acido e venne distrutta a colpi di martello.