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  • Lunedì 17 aprile 2023

I due militari al centro della crisi in Sudan

Sono Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, presidente e vicepresidente della giunta che governa il paese, prima alleati e ora rivali

Da sinistra, Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo (AP Images)
Da sinistra, Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo (AP Images)
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Da sabato mattina in Sudan sono in corso scontri molto violenti tra esercito regolare e un gruppo paramilitare chiamato Rapid Support Forces. Gli scontri si sono concentrati nella capitale Khartum, dove tutto è cominciato con bombardamenti da parte dell’esercito di una base militare controllata dalle Rapid Support Forces. I combattimenti si sono estesi poi al palazzo presidenziale e all’aeroporto della città, di cui entrambe le fazioni in lotta hanno rivendicato il controllo. Secondo quanto riferito da un’associazione di medici locali, negli scontri sono stati uccisi almeno 97 civili e più di 300 persone sono state ferite.

Al centro dei combattimenti ci sono i due personaggi più influenti della politica del Sudan degli ultimi anni: il presidente del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, che comanda l’esercito regolare, e il suo vicepresidente, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, che invece è a capo delle Rapid Support Forces.

Il Sudan è un enorme paese di 46 milioni di abitanti, che si trova immediatamente a sud dell’Egitto e che è strategico per varie ragioni sia politiche sia militari. Tra le altre cose, è uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo. Burhan e Dagalo si dividono il controllo del paese fin dall’aprile del 2019, ovvero dalla destituzione con un colpo di stato dell’ex presidente Omar al Bashir, che aveva governato il Sudan in modo autoritario per trent’anni. Burhan era allora già il comandante dell’esercito sudanese, che insieme ai movimenti di opposizione civile guidò il colpo di stato.

Burhan ha 63 anni e nella sua lunga carriera dentro l’esercito sudanese si è distinto in particolare per essere stato uno dei pochi generali non islamisti durante il regime islamista di Bashir. Uno degli eventi più discussi della sua carriera militare fu la sua partecipazione come comandante dell’esercito sudanese alla guerra in Darfur (regione occidentale del Sudan), iniziata nel febbraio 2003 tra gruppi ribelli e governo centrale, accusato di opprimere le popolazioni locali non arabe. Durante il conflitto, alcune milizie assoldate dall’esercito sudanese furono accusate di enormi violenze, stupri e crimini di guerra contro le persone appartenenti alle comunità non arabe.

Tra queste milizie la più importante era Janjaweed, composta prevalentemente di pastori arabi, che Bashir assoldò per reprimere la ribellione delle popolazioni non arabe. Ne faceva parte anche Dagalo, che in poco tempo  ne divenne uno dei principali comandanti. Della sua storia non si conoscono molti dettagli: si sa che ha circa 50 anni, che ha alle spalle solo un’educazione da scuola elementare e ha un passato da mandriano di cammelli. Alla guida di Janjaweed si rese responsabile tra le altre cose di un massacro di 126 civili nella città di Adwa, nel sud del Darfur, nel novembre del 2004.

Le Rapid Support Forces vennero costituite nel 2013 su volere del governo di Bashir per far confluire i miliziani di Janjaweed in un apparato militare meglio organizzato e addestrato per combattere in Darfur. Dagalo ne venne nominato da subito comandante, ma il suo ruolo presto divenne molto più ampio del semplice comando militare. Nel 2017 utilizzò la milizia per prendere il controllo delle miniere d’oro del Darfur, cosa che gli permise di arricchirsi moltissimo (si stima che sia uno degli uomini più ricchi del paese). Anche grazie alle risorse economiche accumulate con il controllo delle miniere d’oro del Darfur, le Rapid Support Forces oggi hanno in dotazione armi ed equipaggiamenti paragonabili se non superiori a quelle dell’esercito regolare.


Il rapporto tra Burhan e Dagalo cominciò proprio nella guerra del Darfur, quando i due iniziarono a collaborare per la prima volta, spartendosi di fatto il potere militare nel paese. Nel colpo di stato dell’aprile del 2019 Dagalo si schierò contro Bashir e al fianco dei golpisti: dopo un breve periodo di transizione democratica con al governo l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, nel 2021 ci fu un nuovo colpo di stato e Burhan divenne il capo del Consiglio Sovrano del Sudan, l’organo a partecipazione civile e militare che avrebbe dovuto portare il paese a elezioni democratiche nel 2023. Dagalo venne nominato suo vice.

Nonostante i due fossero formalmente alleati nel governo, Dagalo ha sempre mantenuto una grossa autonomia, e le Rapid Support Forces sono rimaste un gruppo separato dall’esercito, sotto il suo diretto controllo. L’alleanza tra i due è cominciata a diventare sempre più precaria negli ultimi mesi, dopo che nel dicembre del 2022 il governo di Burhan aveva acconsentito a un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile.

L’accordo prevedeva tra le altre cose lo scioglimento delle Rapid Support Forces, che avrebbero dovuto confluire nell’esercito regolare. Dagalo si era però opposto da subito, temendo di perdere il suo potere, e aveva detto che l’integrazione del suo gruppo paramilitare con l’esercito avrebbe richiesto non meno di dieci anni. Da allora Burhan e Dagalo avevano cominciato a scambiarsi accuse durissime, facendo capire di essere pronti allo scontro armato, che si è infine verificato sabato.

Il fumo provocato dalle esplosioni a Khartoum, in un'immagine satellitare (ANSA/EPA/MAXAR TECHNOLOGIES)

Il fumo provocato dalle esplosioni a Khartum, in un’immagine satellitare (ANSA/EPA/MAXAR TECHNOLOGIES)