• Media
  • Martedì 28 marzo 2023

Elena Poniatowska a 90 anni

Il Washington Post racconta "probabilmente la più importante scrittrice messicana vivente"

di Kevin Sieff - The Washington Post

(Luis Antonio Rojas/The Washington Post)
(Luis Antonio Rojas/The Washington Post)
Caricamento player

Elena Poniatowska scrive lentamente, ora. Lavora in un ufficio piccolo e soleggiato, a fianco del quadro di una donna che sostiene un grande albero con una corda sottile; l’albero, che sta per crollare, si piega dall’altra parte. «Le persone dicono che mi rappresenta, sempre in cerca di qualcosa da salvare», dice lei.

Poniatowska ha 90 anni ed è probabilmente la più importante scrittrice messicana vivente, influente trasversalmente in letteratura e in politica: la rivista letteraria The Paris Review è andata a trovarla a casa sua per intervistarla sulla sua scrittura, il presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador ci era andato per chiederle di sostenerlo durante la campagna elettorale.

Poniatowska ha documentato tutti i principali movimenti sociali che si sono susseguiti in Messico negli ultimi settant’anni, e ha scritto più di 40 libri che ora raccolgono come una macchina del tempo la storia moderna del suo paese.
Il lavoro con cui rivelò l’insabbiamento da parte del governo messicano del massacro di Tlatelolco del 1968, quando i soldati a Città del Messico uccisero centinaia di studenti che manifestavano, è considerato un classico della letteratura giornalistica.

Tiene ancora una rubrica settimanale su un quotidiano nazionale dove dimostra la sua straordinaria abilità nel far sì che i suoi soggetti – presidenti, assassini, vittime di crimini inqualificabili – si aprano e si raccontino. «I suoi interlocutori entrano in uno stato di trance, abbassano la guardia e si confessano con lei», ha detto lo scrittore messicano Juan Villoro.

È una donna minuta – “non più alta di un cane seduto”, si descrive lei – che vive in una casa dove i muri sono a malapena visibili, coperti da scaffali e scaffali di libri. Quando un ladro si era introdotto in casa sua due anni fa, si era ironicamente dispiaciuta; «il ladro non ha preso nemmeno un libro. Mi fece molta tristezza».
È diventata – per la sua intelligenza ma anche per la sua età – quel tipo di persona da cui ci si aspetta di ricevere delle risposte. Chi le fa visita sprofonda nel suo divano e le chiede previsioni sul futuro della situazione politica in Messico, opinioni sullo stato della letteratura messicana e pensieri su come sia continuare ad avere un lavoro creativo a 90 anni.

Lei offre loro del tè e li guarda come se avessero ricevuto indicazioni per il posto sbagliato. Non è diventata giornalista per condividere le sue opinioni, e fa tuttora la giornalista, attraversando Città del Messico con in mano un registratore digitale che spesso fa fatica ad avviare. «È che sono vecchia!», si lamenta in spagnolo, in inglese o in francese.

Arrivò in Messico 81 anni fa, fuggendo dall’occupazione nazista a Parigi su una barca di rifugiati. Discendente da parte di padre dell’ultimo re polacco e da parte di madre da aristocratici messicani, i suoi genitori la mandarono a frequentare le scuole superiori in un convento in Pennsylvania. Non un percorso che indirizzi verso la documentazione dei disagi sociali in Messico. Poi cominciò a lavorare come reporter, negli anni Cinquanta, intervistando personaggi rilevanti del mondo culturale messicano, quasi tutti uomini di mezza età. Loro la chiamavano Elenita. Quando intervistò il pittore Diego Rivera aveva appena vent’anni; sua madre la accompagnò e la aspettò in macchina con i suoi lunghi guanti bianchi.

«Qual è il massimo della felicità?», fu la prima domanda che fece a Rivera. «Non essere mai nati», mugugnò lui teatralmente. Poniatowska non si fece intimidire dalle risposte criptiche dell’artista o dal suo prestigio. «È come un grande e morbido elefante, il padre di Dumbo, obbediente e assonnato», scrisse nel suo articolo sul giornale Excélsior.

Nel giro di dieci anni la sua attenzione si era spostata sui problemi che stavano affliggendo il suo paese d’adozione. Quando era ancora una giovane madre faceva visita alle carceri federali portandosi dietro suo figlio per intervistare violenti criminali – tra cui Ramon Mercader, l’agente sovietico che uccise il rivoluzionario Lev Trotsky in esilio a Città del Messico – e prigionieri politici, come il pittore David Alfaro Siqueiros. «Visto dallo spazio, il carcere è una stella caduta dal cielo sulla terra», scrisse.

È in carcere che conobbe alcune delle sue fonti più preziose, tra cui le persone che condivisero testimonianze per il suo libro La noche de Tlatelolco, nel quale documentò il massacro studentesco del 1968. Intrecciò ore di testimonianze con poesie, ritagli di giornale e altri oggetti, costruendo un’opera innovativa che il poeta Octavio Paz definì “una cronaca storica e un lavoro di immaginazione verbale”. Divenne uno dei libri più venduti nella storia del Messico.

Negli anni 70, quando il governo messicano venne accusato per la scomparsa di alcuni oppositori politici, Poniatowska scrisse a proposito del dolore delle madri delle persone scomparse. «La morte uccide ogni speranza, mentre la scomparsa è intollerabile perché non uccide ma non permette di vivere», scrisse. In Messico, dove ci sono ad oggi oltre 100 mila persone di cui è stata riportata la scomparsa, la sua frase viene spesso citata.

Nel libro Nada, nadie: Las voces del temblor sul terremoto del 1985, intervistò alcune sarte bloccate sotto le macerie e famiglie che dormivano in tende improvvisate. Dimostrò come l’incompetenza e la maldisposizione del governo e del settore privato avessero contribuito all’impressionante numero di vittime – almeno cinquemila ma forse anche decine di migliaia. Non volle mai particolari venerazioni, ma le ottenne comunque. Le università statunitensi iniziarono a invitarla quando si resero conto che parlava inglese con scioltezza e chiedeva un decimo del compenso che avrebbe chiesto lo scrittore messicano Carlos Fuentes. Le chiesero di raccontare il Messico, di parlare dell’incontro tra giornalismo e letteratura, di commentare il movimento femminista latinoamericano. A che punto della vita di una scrittrice, chiede lei, ci si aspetta che abbia delle risposte? Ai suoi interlocutori ricorda spesso come la cosa di cui è più capace sia invece fare domande.

Quando partecipò a una delle conferenze stampa del presidente Lopez Obrador nel 2020, altri giornalisti le si riunirono intorno tempestando lei di domande. Cosa pensava della situazione politica in Messico? Della condizione della stampa?
«Che onore! Che onore!», le gridarono alcuni, mentre lei svicolava spiegando di essere solo una giornalista che come loro stava partecipando alla conferenza stampa. Lopez Obrador poi la invitò sul palco. «Guardate chi è venuto a trovarci», disse. «La migliore scrittrice del nostro paese».

A un certo punto, dopo che i suoi capelli si erano fatti grigi e le erano nati dei nipoti, le persone hanno cominciato a chiamarla “doña”, come se si rivolgessero a un’anziana nobile signora di un romanzo di Cervantes. Da lei ci si aspettava sempre più saggezza. Continuò a tenere la sua rubrica settimanale, così come a scrivere romanzi e saggi anche tempo dopo che molti dei suoi amici più stretti – Paz, Gabriel Garcìa Marquez, Fuentes – avevano smesso di scrivere o erano morti. Gli altri scrittori si chiedevano come avesse fatto.

Quando l’anno scorso partecipò al Festival Internazionale del Libro a Monterrey gli organizzatori intitolarono il suo discorso “Scrivere a 90 anni”. Il suo intervistatore le chiese se pensasse che avrebbe lasciato il mondo un posto migliore di quando aveva iniziato a scrivere. Poniatowska sorrise. Non solo non ho cambiato il mondo, disse, ma nemmeno sono diventata migliore o più saggia io. «Forse sono meno saggia ora di quanto lo fossi a 21 anni».

Qualche settimana dopo quel discorso ho conosciuto Poniatowska per la prima volta, nel suo soggiorno. Si era dimenticata di aver preso un altro appuntamento alla stessa ora. «È che sono vecchia», si è spiegata ancora. Il suo altro ospite era uno studente dell’Università di Barcellona che stava facendo un PhD con una tesi su “Lo stile Poniatowska”, come lo ha descritto lui.

Lei ha alzato le spalle all’idea della sua eredità letteraria. C’era ancora troppo di cui scrivere, come della presidenza dell’uomo che un tempo aveva sostenuto. Ha ancora un cuscino della campagna elettorale di Lopez Obrador in soggiorno. Poniatowska e il presidente messicano si conoscono da anni. Lei aveva fiducia che lui si sarebbe finalmente occupato dei problemi che lei aveva passato anni a documentare; il peggioramento delle disuguaglianze, il radicato fenomeno della corruzione, le violenze contro le donne e contro gli oppositori politici.

Dopo quattro anni di presidenza, è ora preoccupata del modo in cui Lopez Obrador sembra volersi intromettere nelle prossime elezioni, anche se le leggi del Messico impediscono che lui si candidi ancora. Poniatowska critica la progressiva militarizzazione del paese, e la frequenza con cui il presidente attacca i propri critici. «Il risultato è stato che si è creata una divisione», dice lei.

Ora, quando si stanca di occuparsi di politica, scrive il suo romanzo. Anche se sta molto attenta a non parlarne troppo, dice di essere particolarmente interessata al tema della “solitudine che arriva con l’età”. Le ho chiesto se potesse parlarmene di più – il passaggio dal giornalismo alla fiction autobiografica – ma ha sviato la domanda: «Forse mi stai chiedendo tutto questo perché lo senti dentro di te e dovresti occupartene tu stessa», mi ha detto. Le ho risposto che, come lei, preferisco scrivere di altre persone che scrivere di me. «Ma forse dovresti cominciare. Se non lo fai, ti succederà ciò che è successo a me. Ho sempre avuto qualcosa d’altro di cui occuparmi. Dovevo intervistare questo e quest’altro. E così non mi sono mai occupata di scrivere di me».

Poniatowska rivela poco di sé nella sua rubrica settimanale e nei suoi romanzi. Non ha mai scritto dell’esperienza di essere diventata cieca dall’occhio sinistro, o di aver perso il proprio gatto durante la pandemia, o delle telefonate rabbiose e anonime che continua a ricevere da persone che non apprezzano i suoi articoli. (“Maledetta francese”) Non ha mai scritto della sensazione che ha, qualche volta, rispetto alla propria fama – «che si debba al fatto che, a differenza degli altri, io non sono morta».

Ma a volte pone delle domande con cui si trova a fare i conti lei stessa. Intervistando la giornalista Louise Mireles lo scorso anno, le ha chiesto: «Fare luce su una tragedia è la stessa cosa che aiutare a risolverla?». Ho chiesto a Poniatowska come avrebbe risposto lei a quella domanda. Le questioni alle quali tiene di più sono tra le più difficili da risolvere per il Messico. L’uomo che credeva avrebbe migliorato l’assistenza sociale, osserva ora, possiede molti dei difetti che possedevano i suoi predecessori.

«Io non ho mai avuto la pretesa di cambiare niente», mi ha detto. «Non è questo che guida il mio lavoro. È un sentimento quasi religioso. Devi fare quello che senti dentro».

© 2023, The Washington Post
Subscribe to The Washington Post
(traduzione di Emilia Sogni)